- Giorno cinque - parte due
Quando ero piccolo e giocavo con mia sorella, subivo una certa fascinazione da parte di disastri e apocalissi varie. Inizialmente lei metteva giù qualche bambola e alcuni pezzi di lego e creava la scena: “Oggi c’è una festa e sono inventate tutte le amiche della classe!”, mi annunciava.
Io la lasciavo fare, perché il gioco era di tutti e due, no?
E poi, anche se ero piccolo, avevo già capito la regola d’oro di ogni storia di catastrofi. Prima di tutto, devi affezionarti ai personaggi, che hanno un nome, un volto, una storia, delle speranze e degli obiettivi. Devono potersi esprimere, costruire qualche cosa, prima che tutto venga spazzato via.
“Ora si è rotta la diga e c’è un allagamento!”, dicevo io al momento opportuno.
“Ma dai!”, protestava lei di fronte all’ineluttabile ondata di piena che erano le mie manine che spingevano via sgarbatamente bambole, vassoi con teiere, frutta giocattolo di plastica e macchinine.
Qualche cosa di questa mia antica passione per le catastrofi deve essere rimasta in me, anche da adulto, perché secondo la mia collega A, tre tutte le persone che lavorano nel nostro ufficio, io sono quella che annuncia i problemi con il sorriso più ampio.
“Abbiamo un problema!”, dico di solito. Ed effettivamente in genere sono elettrizzato.
Sì, perché trovo interessanti le difficoltà poste dai problemi. Mi riscuotono dall’apatia del servizio pubblico, dall’interminabile uguaglianza di ogni giornata di lavoro, dal ripetersi costante di azioni e situazioni.
I problemi cambiano tutto.
Una stampante non funziona? Non è un gran problema.
Ma se un computer smette di andare proprio sul più bello, mentre stai servendo il pubblico che magari è più numeroso del solito ed è accalcato in sala d’attesa a 34 gradi centigradi, allora abbiamo un bel problema. Una novità, insomma. E a me piacciono le novità.
Certo, non mi piace quando qualcuno non sta bene o si fa male. Ma finché si parla di stampanti o computer che malfunzionano, siamo ancora nella mia confort-zone, tanto più che nei nostri uffici, è quasi normale che qualcosa di informatico smetta di funzionare correttamente e allora ecco la novità, l’imprevisto, quella cosa che mette in crisi il dipendente pubblico, me che a me piace tanto perché mi fa sentire improvvisamente vivo, rianimato dalla non-morte dello statale.
Mi piacerebbe avere qualche cosa di memorabile da raccontare ai miei nipoti, ma c’è un limite alle catastrofi incruente che la mia fantasia riesce a partorire. Il massimo che ho saputo immaginare era l’epidemia di nascondino.
“Nonno, ci racconti ancora di quella volta che tutti si misero a giocare a nascondino?”
“Va bene, ma poi andate a letto. Era una mattina come tante altre e non mi accorsi subito che 79.000 persone erano scomparse perché senza mettersi d’accordo, avevano deciso di giocare a nascondino. Io ero in ufficio e lì è normale che le stanze siano vuote. In un certo senso è persino normale che i colleghi giochino a nascondino. Ebbene a un certo punto mi sono accorto che c’era qualcosa di strano. Non ricordo se era una tazza di caffé della macchinetta lasciata sul tavolo, una ciambella a metà o una stampante che suonava l’allarme perché aveva finito la carta. Qualcosa non andava e allora mi misi a cercare i colleghi. Il primo che trovai era S, nascosto dietro un armadio.
‘Uffa, mi hai già trovato!’, urlò S. Io ero uno che trovava subito soluzioni e quindi gli proposi di aiutarmi. ‘Non sei eliminato dal gioco’, dissi a S. ‘Hai solo cambiato squadra. Ora andiamo a cercare gli altri!’ E fu così che iniziammo a cercare tutti i giocatori di nascondino, per gli uffici del nostro Ente e poi in giro per la città.”
Nella mia fantasia, io sono quello che risolve i problemi. L’eroe del mio film personale.
Quando hanno trovato l’amianto negli uffici, per prima cosa ho mandato una bella PEC all’ufficio personale e per conoscenza a tutti quelli che mi venivano in mente. Avrei potuto impegnarmi anche di meno, perché ciascuno dei destinatari, per far vedere che era proattivo, girò subito la mia PEC a tutti quelli che gli vennero in mente, compreso me. Fu così che nel giro di un paio di ore venni informato da una dozzina di persone (tra cui anche il Vice Grande Capo) che mi ero lamentato e avevo chiesto di essere collocato in smartworking per tutta la durata dell’emergenza.
“Non possiamo collocarla subito in smartworking, perché i sistemi informatici non funzionano al 100%, ma è una possibilità concreta”, mi aveva assicurato la Capa.
Sul momento mi ero sentito soddisfatto, ma non ero del tutto convinto di essere prossimo a ottenere qualcosa. Avevo fatto una richiesta e, anche se non era stata rigettata immediatamente, ero stato messo in attesa. Succede molto spesso, però, che l’attesa sia prorogata a tempo indeterminato. È il modo elegante per non dire di no, senza dire di si. È una strategia che si basa sulla speranza che i problemi si risolvano da soli o che la rassegnazione subentri prima dell’esaurimento della pazienza.
Poi però, il quarto giorno, mi diedero un’inaspettata notizia.
“Domani è in smartworking, come richiesto. Contento?”
La Capa era contenta. Dovevo esserlo anche io.
E invece, dentro di me, mi sentivo infelice. Finalmente era arrivata la catastrofe e io che stavo facendo? Mi allontanavo da tutto questo, privandomi di un posto in prima fila.
Le bambole di statali, le scrivanie con i computer e pile di pratiche, i fax senza carta e le stampanti con le cartucce di toner esaurito stavano per essere spazzate via dall’onda di piena e io me ne stavo a casa, lontano da tutto.
Che peccato!
“È un bene”, continuò la Capa. “che lei domani sia in smart perché io non sarò disponibile. Sa, vengono i tecnici a installare cinque postazioni di monitorare i livelli di amianto. Dobbiamo individuare i posti in cui mettere i punti di rilevazione. Faremo un’ispezione con l’RSU e l’RLS. Insomma, sarò occupata. Lei lavori tranquillo da casa.”
Ecco, mi stavo per perdere anche questo.
Immaginavo Vice Grande Capo e Capa camminare davanti, in fila indiana, e dietro i tecnici con scafandri e armamentario vario e dietro ancora i colleghi componenti della RSU, l’RLS e a chiudere la colonna, il Medico Competente, un dottore che nessuno di noi ha mai visto e la cui esistenza pare essere provata solo dalle raccomandazioni scritte per l’uso di guanti e mascherina FFP2.
È così che il mio quinto giorno è trascorso abbastanza tranquillo, a casa.
Ho fatto pratiche, risposto a PEC, accettato protocolli, disposto provvedimenti e mentre facevo questo pensavo ai miei colleghi, a lavoro in ufficio. Fortunati loro! A due passi dall’emergenza, spettatori di cose memorabili, da raccontare ai nipoti e io qui a casa, da solo, a scrivere su un forum.