Villaggio grande penna comunque
Siamo al giorno 24 ormai
Presumo l’autore del thread sia più impaziente di chiunque altro di conoscere l’esito di questi esami, altrochè.
Non ho capito se lui vive nel 62esimo giorno e racconta a noi i giorni oppure se la storia é in diretta
Alcune note:
Questi racconti sono a volte ricchi di eventi fantastici e surreali. Sfortunatamente per gli utenti della PA italiana, il 95% di quel che leggete è perfettamente aderente alla realtà come percepita dai miei sensi. Il restante 5% pure, ma ha solo il perdonabile difetto di essere raccontato magari con qualche leggero eccesso per raggiungere lo scopo di far ridere (o piangere, perché effettivamente a volte non sono sicuro di volervi far ridere o di voler ridere io stesso).
I racconti sono quasi in tempo reale. Un giorno è un giorno. Il giorno che segue non è il giorno di oggi, ma è ciò che è successo ieri. Quindi io so già come è andata a finire (non è vero, non è finita ) ma non ve lo dico.
Si sono cattivo.
Giorno sei
Non è che ogni mattina deve portare novità, sorprese e sfide. Ci sono anche le mattine in cui mi accontento di mangiarmi due fette di pane con un poco di crema alla nocciola in mezzo, mentre lascio che il mio corpo faccia quel che deve fare, senza pensare a nulla in particolare. È così che, a volte, mi trovo a pormi una domanda che mi tormenta da quando ho finito il liceo: ma in fin dei conti, che differenza c’è tra quel che diceva Fichte e quel che scriveva Kant? La domanda è ancora lì, ma in verità ormai non ricordo più nemmeno quale fosse il motivo della loro filosofica divergenza o convergenza. Mi capita poi di pensare ad Alessandro Magno e di come sia stato avventato a Gaugamela. Tutti a fargli i complimenti, “Grande stratega!”, ma alla fine la sua tattica era sempre la stessa: buttarsi nel centro della battaglia con la cavalleria, sperando di uccidere o mettere in fuga il generale nemico. Una cosa, insomma, a cui sarebbe arrivato chiunque, dove la vera differenza era solo la realizzazione e non certo la teoria.
Mentre penso queste cose, son già lì che timbro il cartellino e allora mi vien da chiedermi come l’informazione possa essere trasmessa ai server della sede. “Ci sarà un cavetto di rete da qualche parte, nel muro, che porta al router e all’antenna sul tetto”, mi spiego, ma già sono avanti col pensiero e le domande. Butto un occhio sul corridoio che abbiamo abbandonato e nel quale l’altro Ente, solerte, ha fatto dei lavori, trovato l’amianto e quindi bonificato. I pavimenti sono gli stessi di dieci o quindici anni prima.
“Quindi non era nel pavimento!”, scopro e sono folgorato da questa informazione che apre ad altre domande.
“Ma allora dove era? Avevano ragione i colleghi che dicevano i muri? O i soffitti? O le tubature?”
Mentre rifletto, sono già seduto alla mia scrivania, nella suite presidenziale. I divani davanti a me sono un richiamo forte, come il canto delle sirene per me che sono stanco solo come uno statale può essere, svogliato e demotivato come può sentirsi uno statale appena trasferito in altro ufficio. Ma ho da fare. Tanto, in verità. Quindi mi concentro per tenere il pilota automatico ben inserito e mentre penso al gran caldo e ai condizionatori d’aria che non sono ancora accesi - pensiero che ovviamente richiama la grande domanda “ma come funziona una pompa di calore?” e nella mia mente fa prendere corpo schemi, diagrammi e possibili spaccati del mio edificio con condotti per l’aria, tubi per l’acqua, il cavetto di rete che va dall’antenna alla timbratrice - le mie mani, grossomodo veloci e sufficientemente precise, vanno da sé componendo PEC, registrando pratiche, rigettando istanze. Cose da statale, insomma.
“Consumo carta per produrre cartaccia”, era il motto di un mio collega.
Registrato un congruo numero di pratiche, mi sento in diritto di prendere una pausa, che, vista la condizione attuale, vuol dire fare un giro da qualche parte a parlare della storia dell’amianto. Tra smartworking, ferie, astensioni da lavoro e inesplicabili assenze, la densità media degli uffici ricomposti in quella piccola parte dello stabile che non è interessata dalla presenza dell’amianto è curiosamente declinata dopo un picco di fine settimana scorsa. Questa considerazione mi da lo spunto per visualizzare un grafico a barre con P (popolazione) sull’asse Y e tempo sull’asse X ed ecco subito apparire quella simpatica e familiare curva non crescente che è la rappresentazione grafica di ogni cosa statale e può rispondere a quasi tutte le domande come “voglia di lavorare / tempo”, “Pratiche evase / tempo”, “faccine allegre o pollice su da parte dell’utenza / tempo”, “bibite nella macchinetta del caffé / tempo dopo l’inizio della giornata lavorativa” ma, in questo caso particolare, è solo un “densità del personale in servizio per mq / tempo dal trasloco”.
Ad aspettare abbastanza, ogni curva tende a zero, ostinata e paziente.
E mentre rifletto su queste - e altre cose, come per esempio sulla potenza delle corde vocali di S, che odo fin dal piano superiore - sono già nell’ufficio della Capa per munirmi dei Dispositivi di Protezione Individuale (o DPI, come vengono chiamati da chi ha più familiarità e si sente in diritto di prendersi certe confidenze).
“Buongiorno”, mi saluta la Capa. “Le aveva portate lei le mascherine e i guanti ieri?”
Annuisco anche se è evidentemente una domanda a trabocchetto. In questi casi ci sono solo due strategie: cercare la via più veloce per l’uscita di servizio, facendo finta di non aver sentito nulla o affrontare l’insidia senza timore. Io tendo ad agire nel secondo modo, ma solo grazie all’apatia che supera e maschera ogni altra emozione.
“Si, me le ha date il consegnatario”, rispondo e poi quasi mi viene voglia di congratularmi con me stesso. Col pilota automatico ho risposto scaricando la colpa a terzi. Niente male!
“Ha fatto male. Erano scadute.”
Sono colpito da un’intuizione: “Ecco perché me le ha date e mi ha detto di tenerle per me! E pensa che ci siamo fatti una bella risata sull’Amministrazione che aveva ordinato in fretta e furia nuove mascherine anche se avevamo un armadio pieno!”
La Capa sgrana gli occhi.
Probabilmente ho commesso l’errore di dire quel che ho pensato.
“Potete usare solo queste”, taglia corto. E poi indica una seconda scatola. “E questi sono i guanti in lattice.”
Io prendo due mascherine e quattro guanti, ma qualche cosa non quadra. Provo a infilare un guanto, perché sembra davvero troppo stretto. Per quanto mi sforzi, non entra nulla, tranne il mignolo che finisce al posto dell’anulare e non ci sta nemmeno tanto comodo. In verità, non mi sono mai trovato più allo stretto in un DPI in lattice. Mai, quale che fosse il DPI in questione. Allora, preso dalla giusta furia statale di chi è infastidito dal dover faticare più del minimo indispensabile, decido di dimostrare al guanto chi comanda e, ovviamente, il guanto si lacera in più punti.
La Capa mi sta guardando e non ho fatto una bella figura, tutto arrossato e sbuffante. Forse ho anche “vocalizzato” la mia frustrazione. Ops.
Devo rimediare in qualche modo:
“Ne avete presi anche per adulti?”
Con la mascherina e senza guanti me ne torno nel mio vecchio ufficio, attento a non farmi vedere, né dalla Capa né dall’amianto. Prendo qualche pratica e poi ho un pensiero: “Ma dove e quando dovevano installare i rilevatori?”
Allora mi metto a cercare e già che ci sono faccio qualche foto qua e la. Inizio con le foto serie del pavimento ammalorato, poi passo a quelle interessanti, ma meno utili, come il soffitto dei due uffici allagati, l’intonaco finito a terra, le pozze di calcare asciutto, per poi terminare con quelle artistiche, che potrei tranquillamente vendere come stock images “ufficio pubblico abbandonato, anni 2020 circa”, con soggetto la mia scrivania, che già di solito non è messa benissimo e ora, dopo una settimana dall’abbandono con consultazione frequente e frettolosa di pratiche, fascicoli e appunti, è un vero disastro di incuria, statale miseria, polvere e carta ingiallita, insomma una cosa da urbex della Pubblica Amministrazione.
“Queste me le tengo per dopo”, mi dico.
Dei rilevatori, però, nemmeno l’ombra.
Torno dalla capa e chiedo.
“Ma non dovevano essere installati i rilevatori?”
Lei arrossisce.
“Si, mi ricordavo male. Li installano oggi. Anzi, tra poco devo andare…”
E mi trovo magicamente nel corridoio, con la porta chiusa davanti a me. Sospiro e torno nel mio ufficio. Ho consumato solo una ventina di minuti. L’orario di timbratura è lontanissimo.
Passando davanti al corridoio dove l’altro Ente sta facendo i lavori, ho la possibilità di buttare nuovamente uno sguardo perché si sono dimenticati di chiudere il portone. Il pavimento è il solito, rosso con strisce gialle. Sembra levigato. Molto insolito. Comunque è quello che avevamo una quindicina di anni prima. Non lo hanno sostituito. Deja vue!
Questo è un mistero. Da noi hanno trovato l’amianto nel pavimento, a botta sicura. Questo ci ha fatto pensare che avessero avuto una dritta dall’altro Ente che l’aveva trovato e bonificato, ma non nel pavimento. E dove allora?
Vado dal collega, uno dei tre che avevano lavorato lì con me. Il consegnatario. Quello delle mascherine scadute. Non menziono la gaffes. Non è davvero il caso di farlo.
“Senti, ma hai visto che il pavimento qui è lo stesso di 15 anni fa?”, gli chiedo.
“Si, l’avevo notato anche io. Ci sono passato davanti e ho guardato.”
“Quindi, dove è l’amianto?”
“Ah, non si sa.”
“A proposito, hai visto i danni del bagno dell’ufficio presidenziale?”
“Eh si. Un bel pò.”
Si gratta il mento, assorto. Ma non fa cifre. Anche questo è un segreto che scotta.
Proprio in quel momento arriva Dott. X nella sua consueta nuvola etc etc.
“Eh si”, esclama. “Proprio un bel danno. Io penso che sia stata una ripicchina”, dice con fare arguto.
“Ripicchina per cosa?”, gli chiedo.
Lo vedo sinceramente colpito. Non si aspettava la domanda. Forse pensava che la sua teoria potesse essere accolta così, senza spiegazioni. Magari era convinto di questo sulla base di precedenti esperienze.
“Eh, ce ne sarebbero di motivi”, dice, ma un pò meno arguto questa volta. Anzi, si vede che si sente un idiota ad averlo detto. E si pente subito di aver elaborato.
“Tipo?”
Scompare in una nuvola di zolfo e forse avrebbe fatto meglio a intraprendere questa manovra evasiva qualche istante prima. Ci lascia lì a pensare che, se lui stesso è convinto che l’amministrazione ha tanti motivi per essere oggetto di ripicchine, allora ha avviato un improbabile processo di autocritica. Oppure ci sta nascondendo qualcosa.
Torno al mio posto, nella mia suite presidenziale e cerco disperatamente di rimanerci. Ci riesco abbastanza bene, per qualche ora, finché la Capa non mi chiama.
Vado, risolvo il pasticcio (non mio, per fortuna) e quando arriva il momento dei commiati..
“A proposito, dove sono installate le macchine?”
“Quali macchine?”
“I rilevacosi.. per l’amianto”, rispondo.
“Ah, le macchine. Le hanno tolte.”
“Ma come? Ma non dovevano metterle oggi?”
“Si, le hanno messe e le hanno tolte.”
“Ma come? Ma non dovevano rimanere quattro giorni?”
Lei arrossisce. Era un altro particolare che ci aveva spiegato in riunione e sa che io mi ricordo bene quel che aveva detto: le installano nel giorno cinque e le rimuovono quattro giorni dopo per darci il risultato entro due giorni. E invece le hanno installate il giorno sei e le hanno tolte quattro ore dopo.
“Quando ci danno i risultati?”
Scuote la testa in una sorta di “Dai, non insistere. È evidente che non ho capito nulla. Non mettermi in imbarazzo. Sono pur sempre la Capa.”
Scrollo le spalle e sto per dire qualche cosa quando mi ritrovo magicamente nel corridoio con la porta della Capa chiusa davanti a me.
“Accidenti, mi sono perso due volte di fila le macchinette, i tecnici, le tute e tutto il relativo spasso.”
Mi infilo le mani in tasca, che emergono con due guanti in lattice.
“E tutto quel che ho guadagnato oggi sono due guanti stretti.”
+
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San Basilio Magno proteggi i deboli per la barba di Ermenegildo e gesu scalzo nella valle dei chiodi
Ma butta malissimooo
Tenetevi pronti che sta arrivando il season finale!
Giorno Sette - Season finale
A volte penso che lavorare nella Pubblica Amministrazione - e nel mio ufficio, in particolare - sia come vivere una serie TV, una di quelle serie di successo, in cui i personaggi salvano vite, hanno carriere appese a un filo, prendono decisioni sulla base di catene di deduzioni e poi si scontrano per dimostrare di aver ragione, di fronte al collega che invece li accusa di essere azzardati e di giocare con la vita di altri, e poi si accoppiano senza ritegno, intrattenendo relazioni clandestine o meno, litigando, lasciandosi e ripigliandosi. Da noi manca la parte delle relazioni, siamo un pò tutti su di età, nessuno salva vite e in generale il ritmo di momenti di suspance per ore di vissuto non tiene il passo con quello delle serie tv anche più mosce, ma per il resto ci sono attriti, litigi, accuse, Capi in carriera e colleghi traditori. Abbiamo però tante, tante pratiche per le quali si dovrebbe cercare di fare problem solving per intuire dove, nei mille posti possibili, il procedimento affatto lineare della Pubblica Amministrazione si è inceppato irrimediabilmente, facendo arenare definitivamente l’istruttoria, portando alla disperazione un utente che, dopo aver chiamato quarantatre volte e scritto ventuno PEC, alla fine si è sentito in dovere (e diritto) di trascinarsi sul campo di battaglia peggiore, quello dove davvero la vita e la morte si incontrano: lo Sportello.
Oggi, se non si è capito, è giorno di Sportello.
E sono solo.
E sono ancora con il computer (“il portatilino, che non è male, c’è anche un i5”, come lo aveva definito il nostro informatico) che non andava. Mi hanno però assicurato che ora va. Ottimo.
No, per niente.
Il mio sesto senso di statale, quello deputato a intuire le fregature e suggerire la strategia migliore per evitarle - mutua, congedo parentale, permesso sindacale, improvviso malore intestinale, giorno di ferie senza preventiva comunicazione - sta accendendo tutte le spie. Tutte, tutte. Non ne manca nemmeno una.
C’è quella della prossimità della cantonata, che lampeggia ambrata con una frequenza inversamente proporzionale alla distanza con la fregatura. C’è quella gialla con la forma dell’icona del riciclaggio (non il reato, ma la buona pratica del recupero del materiale di scarto) che indica la difficoltà di schivare la cantonata, magari dando la colpa a qualche collega. Lampeggia per ricordarmi che i colleghi sono tutti assenti, chi in ferie, chi in malattia, chi in congedo con part time orizzontale, verticale e diagonale. C’è anche una spia - che invero lampeggia raramente - che indica qualcosa che ora mi sfugge. Devo controllare il manuale, ma credo che sia un “allarme generico di utente incazzoso a cui avevo promesso di risolvere un problema, ma poi mi deve essere passato di mente” oppure “allarme specifico di utente rompicoglioni che ha promesso di venire a disturbare la sua pratica che riposa in pace dal lontano 2018”. Faccio una smorfia. C’è un destino peggiore della morte amministrativa e si chiama “accesso atti". Non hai mai idea di cosa salta fuori.
Rassegnato e stoico vado allo Sportello e affronto fiero - solo perché non posso farne a meno, come del resto mi comunica chiaramente l’apposita spia - il mio destino.
L’inizio è dei migliori. Il portatilino con i5 si accende. Va in rete.
“Ottimo!”, penso con speranza. Eppure non sono ancora convinto.
Doppio click sul nostro applicativo e arrivano paginate di errori vari, di rete, di violazioni di memoria, errori generici ma tutti irrimediabilmente critici.
“Ottimo!”, penso, ma questa volta con rassegnazione.
“Signori, si torna sopra. Tutti con me…”
E si ripete la scena di qualche giorno prima: io davanti e dietro tutti in coda per le scale, oltre ai pochi che prendono l’ascensore, arrivano al piano prima degli altri e così gettando il germe del caos che ci allieterà per le prossime ore.
Io faccio quello superiore, che non si cura di queste cose.
“Signori, mettetevi voi d’accordo. Io non c’ero quando siete arrivati. Voi sapete chi c’è prima”, e me ne vado con il primo. Anzi. Con la coppia di primi, perché non si mettono d’accordo.
Faccio un po’ di pubblico e quando si pone una valutazione che dovrebbe fare la Capa, dico all’utente di attendere un attimo e vado a trovarla.
“Buongiorno Dottoressa”, la saluto.
“Buongiorno a lei Guest76283434. Come va lo sportello?”
“Ci siamo trasferiti sopra”, le rispondo, ma badando bene ad avere un tono ottimista e propositivo. Una cosa del tipo “sì, lei ha una malattia quasi incurabile, ma io conosco uno specialista nelle lontane americhe che su Tik Tok ha mostrato dei video fantastici in cui tutti i suoi pazienti guariscono immediatamente. Vale proprio la pena di provarci! Mi da un sacco di affidamento.”
“Ma come mai?”
“Non andava l’applicativo”, rispondo, sperando che non voglia andare nei particolari perché 1) non li capirebbe 2) dovrei spiegare come mai non ho più controllato il computer dopo il casino della volta prima allo Sportello, cosa che mi obbligherebbe, per autotutela a 3) dire che sono solo e non posso fare tutto io, c’è anche un responsabile informatico che però 4) sappiamo tutti che si è trovato in quella posizione perché ha vinto un concorso di progressione interna, insieme alla collega che aveva 15 anni di videoscrittura, che le son valsi la promozione. Era l’epoca delle vacche grasse. Non si negava la promozione a nessuno. Poi però, al termine delle vacche grasse, si sono messi in testa di pretendere che i lavoratori iniziassero persino a fare quello per cui erano pagati. Che comportamento inopportuno!
Sto sorridendo al pensiero delle vacche grasse e mi rendo conto che anche la mia espressione è inopportuna. La cancello, assumendo una più sobria e neutra.
La Capa non fa domande. Ottimo.
“Doveva dirmi qualche cosa?”
Le espongo il problema. Lei resta in silenzio. Le espongo una soluzione. Lei annuisce. Le espongo l’altra soluzione, quella migliore. La lascio sempre per seconda, per essere certo che lei la scelga. Se la mettessi come prima, propenderebbe per l’altra e non va bene.
Annuisce di più.
“Meglio questa”, mi dice.
Allora colgo l’occasione.
“Si sa qualche cosa dei test sull’aria?”
Lei sorride calorosamente.
“Si, certo, Guest76283434. Guardi è un’informazione ancora confidenziale, ma in via riservata le posso dire che i test sono negativi.”
“Ah”, esclamo.
Lei sorride e annuisce.
“Si”, incalza.
“Quindi?”
“Quindi cosa?”
“Quindi che succederà ora?”
“Siamo in attesa di una comunicazione ufficiale che spetta al Grande Capo.”
Io la incalzo con lo sguardo. Faccio anche un cenno incoraggiante con la mano, come per dire “Si ok, prosegui. Dai che ce la puoi fare!”
“Penso che…”, dice esitante.
Il mio gesto della mano diventa un’ampia rotazione in senso orario.
“…insomma…”
Accelerazione angolare crescente.
“…si potrebbe…”
Sta per cedere. Devo insistere quindi anche l’altra mano si mette a ruotare.
Scuote la testa. L’ho persa.
“Non mi faccia dire cose che non so. Dobbiamo aspettare.”
Come al solito, mi trovo fuori dall’ufficio con la porta chiusa davanti a me. Sbuffo e mi avvio di sopra. Lungo la strada vedo gente con carrelli che sposta cose.
“Scusate?”
“Si torna in ufficio. Non c’è amianto”
“Ah!”
Infastidito per essere stato incluso nella confidenza non tanto esclusiva ed essere stato allo stesso tempo escluso da quella più esclusiva, torno al mio banale lavoro di ricevimento del pubblico.
Sto per chiamare il prossimo, quando mi si para davanti un tizio molto altro che passa davanti a tutti.
“Scusi, lei è il prossimo?”
“Si”, annuisce con foga, ma il mormorio della gente in attesa mi significa che non tutti sono così d’accordo.
“Deve fare la fila. C’è gente che è arrivata prima.”
“Ma c’è tanta gente!”
“Si, lo vedo. Aspetti il suo turno.”
Lui si agita e inizia diverse frasi senza finirne nemmeno una:
“Ma c’è stato un errore… Avete sbagliato… E’ colpa vostra!”
“Si metta in fila e controlliamo, quando è il suo turno.”
“Devo aspettare?
Genio, penso ironico. Poi voglio essere ottimista e penso “Forse sta iniziando a capire.”
“Ma c’è tantissima gente!”, protesta ancora.
“Lei non sta capendo. Siete tutti in coda. Aspetti il suo turno.”
“Ma c’è stato un errore.”
“Continua a non capire. Deve aspettare il suo turno e poi controlliamo questo errore.”
“Sono già quattro volte che vengo”, insiste. Ed è strano, perché non me lo ricordo. Sarà andato da un collega. Ma la strana spia mi aveva avvisato. Forse mi son dimenticato qualcosa?
“E oggi vediamo di risolvere”, dico propositivo.
“Ma state sbagliando voi!”
Inizio a perdere la pazienza, quindi tocca giocare la carta segreta, ma devo farlo con tono adeguatamente scocciato e convincente.
“Adesso o va in sala d’attesa e aspetta il suo turno o chiamo le Forze dell’Ordine perché mi sta fermando lo sportelo. Veda lei.”
Per un attimo penso di aver centrato il punto. Poi l’attimo passa.
“Chiamale dai. Avete sbagliato voi! Io non posso aspettare! C’è tanta gente. Io devo lavorare!”
Oh al diavolo. Lo mollo lì in mezzo al corridoio e mi porto dietro l’altro n.1 della coda, quello che aspetta da un’ora.
L’alterco ha risvegliato l’ufficio. Colleghi che non vedevo da tempo si sono risvegliati come la mummia del faraone e, spolverate le spalle imbiancate da anni di immobilità totale, si sono alzati dalla scrivania, si sono trascinati verso la porta e l’hanno socchiusa per guardar fuori.
“Ma litigano?”
“Che succede?”
“Guest76283434 ha detto che chiama la Polizia.”
“Sempre lui che fa casino.”
Li ignoro e passo oltre. Poi l’occhio mi cade su un particolare.
La collega I, quella delle piante, se le sta riportando in ufficio.
“Che succede?”
“Lascia stare!”, mi urla di rimando. Penso che sia un ottimo consiglio, quindi lo accetto senza fare domande.
Poi però passo davanti all’ufficio in cui O e Y erano stati collocati insieme a W. Mezz’ora prima O stava spostando la sua roba nel corridoio non più interdetto. Ora la sta riportando indietro.
“Eh?”, domando, facendo massima economia di parole. Lui capisce comunque.
“Contrordine. Non si può tornare in ufficio.”
“Ma come? Non si era detto che non c’è amianto?”
“Si.”
“E quindi?”
“Non lo so. Prima la Capa mi ha detto che potevo tornare. Ho spostato tutto. Poi è passata e mi ha visto e ci ha ripensato. Mi ha detto di spostare nuovamente tutto.”
Bislacco.
“Scusa, fammi capire. Ci ha detto che è contenta, che non c’è amianto, che siamo tutti tranquilli, che l’emergenza è rientrata e però siamo ancora tutti qui senza il via libera per rientrare?”
“Si.”
“Perché?”
Alza le spalle, allunga le braccia aperte a formare una grande T, poi alza i palmi al cielo in segno di resa incondizionata della ragione. Avevo altre domande, ma di fronte a un gesto di impotenza così ben realizzato, me le tengo per me.
Però non le voglio risparmiare alla capa.
Servo N. 1, torno in corridoio, cazzio ancora un pò il N.1 alternativo, quello furbo che non ha tempo per la coda, e alla prima possibilità torno dalla Capa.
“Ma quindi”, inizio senza preamboli. “amianto non c’è ma non si rientra?”
Lei mi fa un po’ tenerezza. In quel momento l’ho vista come uno di noi. Le si devono essere accese tutte le spie di sicurezza. La vedo guardare a destra e sinistra, in cerca di una via d’uscita per non rispondere. Ma io sono davanti alla porta, petto in fuori, mani sui fianchi, gomiti in fuori, ad assumere la forma di una minacciosa losanga. A meno di non uscire dalla finestra (auguri! siamo al piano K+1) non ci sono vie di scampo.
“Siamo in attesa. Non posso dirvi di rientrare in ufficio.”
“Quindi si sta in sospeso”, insisto, crudele.
“Fino a nuovo ordine.”
“Ma l’amianto non c’è.”
“Negativo”, risponde. Poi ci pensa su: “Test Negativo. No, non c’è.”
“Ma non torniamo. E quindi che si fa?”
“Restate dove siete.”
“Siamo in una stanza in tre con un solo computer. Domani rientra la collega in ferie e anche il collega in smartworking. Dove ci mettiamo?”
“Lei non voleva andare in smartworking?”
“Mi autorizza?”
La vedo che prende coraggio. Ha trovato una via d’uscita per questa conversazione.
“Si, certo. Se mi assicura di poter lavorare.”
“Bene. Allora ci vediamo tra tre giorni.”
Esco con passo trionfante. Non è il finale che mi aspettavo. Se questa fosse una serie tv, sarebbe il finale con cliffhanger che lascia in sospeso lo spettatore - e noi tutti lavoratori dell’ufficio - senza dirgli come va a finire la storia. L’amianto c’è nei pavimenti, non c’è nell’aria, si può tornare, anzi no. Tutto sarà come prima o anche diverso. Le pratiche si possono spostare, anzi no. Abbiamo le mascherine nuove e i guanti, ma solo in versione small e medium, non in taglia Guest76283434. Lui si attacca.
Allora mi tornano in mente le parole del Dott. X.
“Una ripicchina. Ce ne sono di motivi..”
Con l’eco delle sue parole ambigue, mi appresto a raggiungere il mio ufficio, mentre l’immagine sfuma al nero e il suono dei miei passi si allontana dal microfono, con in sottofondo il chiacchiericcio urlato di S che si lamenta, ma senza polemica, di non avere il condizionatore d’aria nel suo nuovo ufficio.
Mi premetto di esprimere ogni genere di perplessità riguardo l’affidabilità dei test ambientali considerando quanto scritto precedentemente sui criteri della loro attuazione; rimango comunque in attesa della Seconda Stagione, Episodio 1, Ricorso al TAR, e son curioso di vedere anche come evolverà la tensione sessuale montante tra il narratore la sua Direttrice d’agenzia.
cosa non si fa per un po’ di audience..
ovviamente scopano
ma il tizio che ha saltato la coda?
è colpa vostra? avete sbagliato voi?
Mah, non sono sicuro sia una buona idea scopare pavimenti potenzialmente contaminati, per romantico possa essere spazzare assieme nel dopolavoro, quando gli uffici sono chiusi e l’edificio deserto, basse le luci, in un appassionata danza tra rigide aste, delle scope, e setolose teste, sempre delle sopraccitata scope.
Non ne ho idea. Alla fine ha detto che andava via e tornava il giorno dopo (oggi). Gli ho spiegato più volte che siamo aperti solo in certi giorni, ma lui è stato danneggiato, è un’ingiustizia, è colpa nostra, ha fretta e deve lavorare, quindi immagino sia li a suonare il campanello.
Comunque il concetto di colpa è sopravvalutato.
Io preferisco il termine contingenza.
non sapremo mai la sua fine
Per tre giorni c’è lo sciopero degli sceneggiatori. Spiace.
Fra guanti in lattice molto stretti e istanze di accesso agli atti ci potrebbe essere un risvolto BDSM
in b4 non erano guanti per le mani