Non conosco Giorgio de Santillana. Leggendo un profilo dell'autore e una sinossi del libro in questione, mi viene spontaneo domandarmi se l'autore abbia realmente le competenze per parlare di civiltà così numerose e diversificate

Sì, sono diffidente delle 'grandi sintesi', perché la conoscenza storica risiede anzitutto nell'analisi, mentre le sintesi - da parte di chi non si è anzitutto occupato dell'analisi - rischiano di essere fondate intorno ai luoghi comuni.
Quella collana della Adelphi è una bellissima collana che accoglie splendidi classici e anche testi di valore scientifico. Ma, in molti casi, parliamo di roba che io definirei letteratura - nel senso di
belle lettres - non episteme

Per esempio,
La Dea bianca è pubblicata in quella collana.
Poi, oh, tutti quanti ci siamo appassionati al mito leggendo cose come Santillana. Come mi ci sono appassionato io? Con Frazer e altri della sua risma; Frazer che tuttora ammiro, e che tempo fa ho difeso in un sintetico scambio di messaggi con Qfwfq, perché credo che in Frazer ci sia qualcosa di recuperabile: però, appunto, è come cercare oro nel fiume

Bello Frazer, ok, bellissimo. Ma le favole vanno bene per quando si è piccoli

E poi c'è il rischio d'innamorarsi (di convincersi) di una tesi per via della sua bellezza.
Purtroppo credo che un certo vecchiume sia ancora popolarissimo nella ridente Italia, e che troverai studiosi che interpretano ancora il mito secondo paradigmi che io definirei vetusti

Quindi, per carità, lungi da me la pretesa di volerti offrire verità
vere, visto che può sempre arrivare qualcuno (competente; lasciamo perdere l'appassionato) a sostenere con ottimi argomenti: guarda, #6 dice un mare di cazzate.
Il comparativismo, in teoria, è una splendida idea: si potrebbe infatti dire che qualunque conoscenza sia il risultato di un'avvenuta 'comparazione'. Quindi ben venga il comparativismo religioso, così come per es. facciamo comparazione giuridica (che mai come negli ultimi quarantann'anni vive uno stato di grazia). Il problema del comparativismo religioso è che, a monte della benedetta comparazione, c'è una
prodigiosa fenomenologia delle religioni: quella che chiamiamo comparazione, è in realtà una ricerca di conferma degli elaborati
bias teorici

La premessa ideale della fenomenologia della religione è che sia la comparazione a fare emergere l'unitarietà concettuale dei fenomeni, mentre si potrebbe contestare che assai spesso avvenga il processo inverso.
Nel campo del diritto, per molto tempo, il problema non si è posto, perché la comparazione - in realtà praticata da millenni - ha eminenti finalità pratiche: studiamo le leggi degli altri allo scopo di migliorare le nostre leggi; da questo punto di vista, l'accuratezza scientifica importa poco: la buona comparazione è tale in ragione della propria efficacia, non della propria correttezza filologica. Senonché, anche nel campo del diritto comparato abbiamo iniziato a renderci conto del fatto che molti postulati non possano essere dati per scontati: alcuni studiosi hanno per esempio suggerito che il nostro concetto di diritto,
ius,
law,
Recht, che pure vorremmo universale e definitorio di una universale modalità dell'esperienza umana, sia in realtà un concetto assai specifico dell'Occidente e legato alle vicende del diritto romano: concetto che, se considerato come una sorta di 'invariabile' umana, magari non è adeguato a interpretare - che so - le tradizioni del Sud Est asiatico. E se va in crisi anche un concetto generalissimo come quello di
ius - che diavolo - non ci poniamo anche qualche dubbio sui vari simboli del serpente che si morde la coda, del re che muore, e compagnia cantante?

Ferma restando l'idea che la comparazione religiosa non sia tutta cacca, ma che ci sia senz'altro spazio per la ricognizione (e conseguente spiegazione) del simile, io sono dell'idea che si debba diffidare dei grandi monoliti teorici. Un secolo di filosofia del linguaggio ci avrà insegnato qualcosa, no? Dobbiamo uscire dalle semplificazioni unificatrici della lingua e provare a entrare nella specificità di ciascun oggetto. Non esiste
il diritto,
il mito,
il rito: esistono piuttosto singoli fenomeni, ciascuno con le proprie caratteristiche, che rischiano solamente di essere fraintesi se interpretati alla luce di questo o di quel paradigma teorico. Non è che solamente 'rischino' di essere fraintesi: gli stessi identici riti e miti sono interpretati in maniera completamente diversa a seconda di quali siano i presupposti teorici dell'interprete, sempre irrispettosamente dei rispettivi contesti e specificità.
Ora, io non ho idea di chi possa avere trattato scientificamente l'archetipo (ugh) delle tre dee. Però posso consigliarti un libro che può darti un'idea di tali problematiche teoriche e metodologiche:
Catherine Bell,
Ritual: Perspectives and Dimensions, Oxford 1997
http://ukcatalogue.oup.com/product/9780199735105.doIndice:
Spoiler
Part 1 Theories: The History of Interpretation
1.: Myth or Ritual: Questions of Origin and Essence
Early Theories and Theorists
The Myth and Ritual Schools
The Phenomenology of Religions
Psychoanalytic Approatches to Ritual
Profile: Interpreting the Akitu Festival
Conclusion
2.: Ritual and Society: Questions of Social Function and Structure
Early Theories of Social Solidarity
Functionalism
Neofunctional Systems Analyses
Structuralism
Magic, Religion, and Science
Profile: Interpreting the Mukanda Initiation
Conclusion
3.: Ritual Symbols, Syntax, and Praxis: Questions of Cultural Meaning and Interpretation
Symbolic Systems and Symbolic Action
Linguistics
Performance
Practice
Profile: Interpreting British and Swazi Enthronement Rites
Conclusion
Part II Rites: The Spectrum of Ritual Activities
4.: Basic Genres of Ritual Action
Rites of Passage
Calendrical Rites
Rites of Affliction
Feasting, Fasting, and Festivals
Political Rites
Conclusion
Part III Contexts: The Fabric of Ritual Life
5.: Ritual Density
Systems
Typologies
Orthopraxy and Orthodoxy
Traditional and Secular
Oral and Literate
Church, Sect, and Cult
Conclusion
6.: Ritual Change
Tradition and Transformation
Ritual Invention
Media and Message
Conclusion
7.: Ritual Reification
Repudiating, Returning, Romancing
The Emergence of "Ritual"
Conclusion
Notes
Reference
Index
Catherine Bell è (è stata) soprattutto una studiosa del rito, non del mito. Questo libro ti può essere comunque utile perché la Bell passa in rassegna una serie di scuole di scienza delle religioni che si sono distinte anche nella loro interpretazione del mito, evidenziandone i limiti e i pregiudizi teorici. E poi il rapporto fra mito e rito è posto all'intersezione di un importante nodo teorico che ti sarebbe utile conoscere. Tutta l'opera di Catherine Bell è comunque sottesa dall'idea che si debbano studiare i singoli riti, non l'idea di rito (che non esiste). L'insegnamento è valido, in genere, anche in altri ambiti delle scienze delle religioni. Qualunque studio di scienza delle religioni, oggi, deve anche partire da Catherine Bell (anche e soprattutto da un altro dei suoi libri).
Poi, boh, non pensare che io sia abituato ad andare a caccia delle novità: non sono malato di 'recentismo'. A parte il fatto che, per via della mia educazione formale, sono abituato a tener conto delle correnti tradizionali e consolidate (la scienza giuridica è mooolto conservatrice), ti ho detto e ti ripeto che non mi faccio problemi nell'usare per es. Dumézil, o persino nel buttare l'occasionale citazione di Frazer. Però serve consapevolezza metodologica e teorica. E mi sono abituato a guardare anche e soprattutto alla letteratura anglosassone, anziché rimestare soltanto nella solita vecchia roba che gira e rigira fra Germania e Italia da oltre un secolo. Ah, non sono neanche malato di anglofilia, tranquillo