Posto uno dei capitoli che riassumono meglio il mio odio per le descrizioni accurate
Una delle due voci nel testo originale è in grasseto, solo che non me l'ha cambiata e sono pigro
8- Parata carnevalesca della fase REM
Camminava lentamente, con circospezione puntando verso il vecchio ospedale, doveva percorrere almeno cinque o sei chilometri di città, il che voleva dire almeno un paio d’ore piene di pericoli.
Era di nuovo solo con se stesso e con il mondo ostile, ma era determinato ad affrontarlo, probabilmente era una delle poche cose ad aver senso dopo tutto questo tempo.
O almeno credeva.
Ma tanto non importava.
Mentre ruotava velocemente gli occhi, ora soffermandosi su un autobus ribaltato o su quello che restava di un ristorante cinese dato alle fiamme, faceva saltare la pistola da una mano all’altra, giocherellando nervosamente per far passare il tempo.
Si stava incamminando verso una zona periferica della città, non che l’esterno cittadino fosse più sicuro, anzi dava meno possibilità di riparo e più ampia visibilità: aveva sentito storie assurde che vedevano quelli-di-notte in giro di giorno a correre per i campi e a braccare qualsiasi cosa umana mettesse piede in quelle lande.
Difficile da credere, ma l’esperienza del pomeriggio lo smentiva almeno in parte: era sicuro che in quella massa informe e marcente ci fosse almeno uno di quelli-di-notte; lui li chiamava così, molti altri invece semplicemente “infetti”, ma non erano forse tutti infetti?
Morti che si rialzano e che corrono.
Per non parlare dei vivi.
Loro erano i più infetti di tutti perché si ostinavano ad andare avanti, non era questo il peggior morbo esistente?
Sperare
Scosse il capo.
Non era il momento.
Aveva un obbiettivo ben preciso.
Sempre a scatti brevi tenendosi defilato dal centro della carreggiata il ragazzo avanzava, incontrando scarsissima attività, alcuni rimanevano immobili al centro della strada o vagabondavano inutilmente per le corsie dei negozi ormai abbandonati, esuli anche loro in un modo particolare.
I palazzi ora si facevano più radi e lasciavano il posto a costruzioni dalle diverse forme, probabilmente una serie di caserme e di magazzini industriali: qualche centinaia di metri più avanti la strada si abbassava sensibilmente andando a formare quasi un canale artificiale d’asfalto a quattro corsie con senso unico, a destra e a sinistra soltanto muri di cemento armato.
La vista delle macchine incolonnate con il loro macabro contenuto gli fece gelare il sangue, la gente che scappava fuori città fu sicuramente imbottigliata nell’unica arteria verso l’hinterland, sorpresa e uccisa ancora all’interno delle loro auto, una fine da topo in trappola.
Rabbrividì.
La fila di auto continuava per diverse centinaia di metri andando a sparire all’interno del lugubre tunnel sottopassaggio, direzione obbligata se voleva risparmiare almeno tre ore.
Era una pessima idea, brancolare nel buio e nel fetore ingombro di rottami e cadaveri, ma non aveva alternative, tanto in giro ovunque era pericoloso.
Se fosse andata male, tanto peggio, poteva sempre spararsi in testa.
Il cimitero di autovetture rendeva tutto ancora più strano, relitti immobili dai colori sgargianti e modelli più disparati: dai fuoristrada alle auto extra lusso, dai furgoncini ai taxi.
Si sentiva come se fosse entrato in una scuola in pieno agosto, la stessa desolazione.
I veicoli all’ingresso della galleria erano incidentati, probabilmente in un ultimo tentativo di districarsi da quell’ondata di morte, formavano quasi una muro di lamiera all’ingresso, ma il ragazzo riuscì a passare tranquillamente passando radente al muro, appena entrato si arrestò.
Attraverso le lenti della maschera anti-gas il ragazzo si rincuorò un poco: la galleria non era lunga che centocinquanta metri circa ed era tutta rettilinea, poteva vedere l’uscita illuminata dalla luce grigia del giorno, questo era positivo.
Il cono di luce prodotto dal sole avanzava nell’oscurità soltanto di pochi metri, doveva percorrere gran parte del tunnel al buio tenendo sempre gli occhi fissi sull’uscita però.
“Coraggio” disse rivolto a sé.
“Paura del buio eh? Cacasotto”
“Zitto”
“Andiamo, sii onesto. Ho ragione io, è una cazzata.”
“Basta”
“Un consiglio da amico, faresti meglio a fare il giro o finirai ammazzato.”
“Prima o poi si muore tutti.” Disse scrollando le spalle.
Tenendo la pistola puntata avanzava con la schiena rivolta al muro a sinistra, nella penombra scorgeva soltanto rottami informi e dal finestrino di un furgone delle dita adunche cercavano di artigliare il buio.
Il ragazzo si toccò la tasca dei pantaloni con la mano destra, lì sentì la forma tubolare della pila tascabile del morto della squadra 17, non sapeva se accenderla o no.
“Potrebbe essere un rischio. Potrei risvegliarne dal torpore qualcuno, l’uscita è ancora troppo lontana…no, devo rimanere calmo.”
Il respiro era quasi impercettibile sotto il filtro della maschera, avanzava passo per passo cercando di fare il minimo rumore possibile, sotto gli scarponi ogni tanto sentiva oltre al familiare scricchiolio dei cristalli dei finestrini anche qualcosa che ad un primo impatto gli sembrava come una materasso buttato lì per caso, ma dopo alcuni secondi poteva sentire l’odore nauseabondo anche da sotto la maschera.
Erano corpi in decomposizione ripieni di gas, alla minima sollecitazione regalavano al mondo il loro contenuto.
A metà traversata cominciò a diventare sempre più suscettibile verso ogni rumore: uno scricchiolio davanti, un gocciolio a destra e soprattutto i battiti del suo cuore, sembrava un martello pneumatico capace di svegliare tutti gli orrori presenti lì dentro o nella sua testa.
Un rumore metallico.
Questa volta l’aveva sentito bene.
Chiaro e netto come un colpo di pistola.
Proveniva dalla sua destra, verso l’entrata.
“Calmo, devo stare calmo. Ci sono quasi.”
Affrettò il passo.
Ad ogni passo e ad ogni sostanza appiccicata sotto le suole dei suoi scarponi si riprometteva di non accendere la torcia, non voleva vedere anche se ormai nella sua testa si delineava chiaramente tutta la scena: le luci della galleria si spensero di colpo e il panico invase quei fuggiaschi che iniziarono a scappare verso le uscite urtandosi l’un l’altro a piedi e con i veicoli e poi…l’onda anomala di morte che prese i volti dei loro cari.
Il ragazzo si morse ferocemente il labbro.
“NO”
Respirò profondamente.
“Non ha senso, basta! Loro sono tutti morti e io devo uscire intero da qui dentro”
Il cigolio di una portiera aperta.
Riuscì a dominare l’istinto di mettersi a correre all’impazzata, sarebbe stato inutile visto che in quest’oscurità sarebbe inciampato subito e raggiunto da qualunque cosa ci potesse essere nella galleria.
Ormai mancavano poche decine di metri e si sarebbe lasciato anche quest’orrore alle spalle, per farlo diventare vago e fioco come tutti i ricordi.
Con il ginocchio colpì inavvertitamente la testa di un cadavere seduto con la schiena poggiata alle piastrelle della parete del tunnel e scivolò lentamente fino a toccare terra, questo avvenimento minò ancora di più i nervi del ragazzo: gli pareva di aver violato la riservatezza di un sepolcro e quel movimento in mezzo alla calma lo fece vacillare.
Iniziò a correre.
Si tenne rasente al muro e con la mano sinistra si guidava nel buio, ignorò tutta la serie di rumori prodotti dal suo incedere, potevano essere interpretati in maniera fantasiosa dal suo cervello, doveva lasciarli perdere.
Non importava.
Tonfi.
Passi.
Rumori metallici.
Piastrelle infrante.
Pozzanghere calpestate.
Anche ordinando, il suo cervello recepiva tutto e i collegamenti elettrici gli mandavano immagini direttamente sulla retina di un orda di morti in movimento pronto a divorarlo al buio e di vagare come quelli là fino alla fine del mondo.
Non l’avrebbe mai permesso.
Uscì dal tunnel.
Fu come nascere di nuovo, tornare alla luce dopo interminabili secondi di tenebra mista a desolazione e cemento, un luogo di morte sporco dove si sentiva braccato, ma ne valeva veramente la pena?
“Oh si, ne valeva la pena”
Disse a se stesso mentre ansimava riprendendo fiato più per la tensione che per la corsa.
Alzò il capo e si poggiò le mani dalle cosce per sostenersi, respirò profondamente e riprese il cammino tra i veicoli incolonnati che ormai andavano via via diminuendo, si tenne sempre sulla destra rasente al muri.
Un rumore.
Questa volta non era il frutto della sua mente suggestionata, erano chiaramente dei vetri infranti forse di un finestrino o qualcosa di simile.
Proveniva da dentro il tunnel.
Il ragazzo distava ormai una decina di metri dalla galleria, si voltò puntando la pistola, attendendo per qualche altro secondo; lo sentì più chiaramente: un tonfo e qualcosa che andava in frantumi.
Era stato fortunato.
O stupido.
Si girò e riprese il suo cammino verso l’uscita da quel dislivello, la strada si innalzava per tornare ad essere pianeggiante e intravedeva gli ultimi blocchi di palazzi che delimitavano la città, l’ospedale era costruito proprio per fungere da tramite tra la metropoli e l’hinterland, ovviamente erano presenti altre strutture mediche all’interno dell’abitato, ma questo era l’unico vicino al porto e allo snodo principale.
Non sentiva ancora il rumore del mare, ma era vicino.
Un urlo.
Si voltò.
Dal tunnel uscirono tre sagome muovendo velocemente la testa a scatti a destra e a sinistra, urlavano e sbavavano sangue, uno dei tre partì in avanti verso di lui cominciando a correre a velocità elevata.
Non era uno dei cadaveri ambulanti.
Molto peggio.
Il ragazzo rinfoderò la pistola e si mise a correre in avanti, verso l’ospedale, aveva un buon vantaggio, ma loro a differenza sua non si stancavano.
“Il secondo inseguimento oggi, bella merda” Disse rivolto a se stesso.
Il respiro veniva deformato dal filtro della maschera anti-gas e gli occhi sgranati apparivano fiocamente da sotto le lenti, l’adrenalina lo spingeva ad accelerare il ritmo, passando per vicoli secondari e ignorando i morti viventi sparsi per la strada, loro non l’avrebbero di sicuro raggiungo.
Sentiva le loro urla e con tutto il loro casino, avrebbero richiamato l’attenzione su di lui. Tutto il paesaggio cominciò a diventare vago e indefinito, non prestava più attenzione a tutto l’ambiente circostante, importava solo quello che vedeva davanti.
Non doveva voltarsi.
Si voltò,
Erano più vicini, poteva distinguerli chiaramente: uno era vestito da poliziotto, l’altro sembrava un cameriere, il terzo non riusciva a distinguerlo, ma sembrava una ragazza.
Su tutti i visi l’espressione sbalordita mista a furore cosmico, con le labbra contratte in un ringhio animalesco, pronti a dilaniare i suoi muscoli e a spolpare le sue ossa fino all’ultimo brandello di carne calda rimasto.
Ma non l’avrebbero preso, perlomeno non vivo.
Poco ma sicuro.
Sicuramente questi altri, erano il prodotto di un’ulteriore mutazione del virus, mantenevano tutti un grado di contagio altissimo però i loro corpi non marcivano e probabilmente gli organismi continuavano a vivere anche se il cervello e la volontà veniva annebbiato in turbine di violenza primordiale.
Stato di natura.
Scavalcò il cofano di una berlina abbandonata in mezzo alla strada e riprese a correre continuando ad avanzare, svoltò l’angolo e si fermò per un paio di interminabili secondi.
Centinaia.
Migliaia.
Un esercito.
Erano tutti assiepati nel cortile dell’ospedale, alcuni battevano le mani sporche e ossute contro le porte blindate dell’ingresso del pronto soccorso, altri semplicemente guardavano il nulla cosmico.
Era impossibile passare.
Dietro sentiva le grida dei suoi tre inseguitori.
Doveva muoversi.
Guardò il tetto dell’ospedale e la vide: una passerella.
Una tavola di legno per la salvezza, doveva raggiungere l’ultimo piano del palazzo adiacente.
Entrò nell’ingresso alla sua sinistra spostando di peso un morto vivente dall’aria idiota e si lanciò di corsa per la rampa di scale.
Gli stivali del ragazzo rimbombavano sui gradini di legno, mentre il ringhio dei suoi inseguitori si faceva sempre più vicino, saliva metro per metro aiutandosi anche con il corrimano, la distanza verso il tette sembrava sempre lontana allo stesso modo come se quella corsa fosse interminabile.
Tutto appariva sempre più irreale: i piani con gli appartamenti contenenti i loro orrori, la rete metallica della gabbia dell’ascensore che sembrava farsi beffe della sua corsa, mentre il suo respiro si faceva sempre più affannato e l’acido lattico invadeva i suoi quadricipiti come un veleno mortale.
Una mano stretta sulla sua caviglia.
Il ragazzo cadde in avanti su un pianerottolo sbattendo la spalla facendo cadere la pistola qualche metro in avanti, il silenziatore si staccò volando giù per la tromba delle scale; voltandosi vide quello che restava di un poliziotto pronto ad assalirlo.
Gli artigli frenetici strattonavano i suoi pantaloni e quegli occhi rossi iperattivi dicevano annunciavano il trionfo del cacciatore sulla preda, il ragazzo si allungò per raccogliere la pistola scalciando freneticamente per toglierselo di dosso, ma quello arretrando di qualche metro, con una forza brutale fu di nuovo su di lui.
Il respiro affannoso dell’essere appannava le lenti della sua maschera antigas e con le dita cercava di lacerarlo e ferirlo, nel frattempo gli altri due si avvicinavano facendo rimbombare i passi sui gradini.
Disperato il ragazzo raccolse tutte le sue forze e con uno spintone riuscì a spingerlo indietro, il tanto che bastava per raccogliere la pistola.
Fece fuoco.
Uno di meno al mondo.
Con uno scatto riprese prontamente a salire le scale, anche se gli altri due si rifacevano sotto distanziati di pochi metri, sempre ululanti e sbavanti muco e sangue.
“Andiamo non fregatemi proprio adesso maledette.” Urlò rivolto alle sue gambe.
Ormai diventava sempre tutto più vago, tutto più indistinto difficile da capire, come in un sogno in cui cerchi di svegliarti.
Tutto inutile.
Tutto inutile.
Mentre si arrampicava a perdifiato per le scale, con quei due alle calcagna e molti altri che si destavano attirati dalle urla negli angoli più oscuri del palazzo, ebbe la certezza di essere vicinissimo al punto di non ritorno, la sua salute mentale lo salutava dall’uscita 25 delle partenze.
Biglietto di sola andata.
“NOOOOOOO”
Si girò di scatto e prendendo con entrambe le mani la pistola cominciò a sparare all’impazzata verso quelle carcasse affamate.
Uno.
Due.
Cinque.
Dieci
Dodici volte.
Click.
Scarico.
Il rimbombo degli spari.
L’odore di polvere da sparo filtrato dalla maschera.
Gli fecero quasi perdere i sensi, ma il rumore del caricatore che colpiva il pavimento lo riporto alla realtà.
I due inseguitori erano riversi sulle scale in un bagno di sangue, si contorcevano ancora in spasmi affannosi e animaleschi.
Strinse i denti e con la suola degli scarponi cominciò a frantumargli freneticamente il cranio contro il pavimento: prima a lui e poi a lei.
Colpo dopo colpo.
Ossa dopo ossa.
Quando ebbe finito rideva come all’impazzata seduto su un gradino coperto un po’ ovunque del loro sangue.
“Sei fuori.”
Il ragazzo continuò a ridere per qualche decina di secondi, poi si senti aggrappare saldamente il piede, questo lo risvegliò dal torpore.
Non era uno degli altri, era un morto.
Senza gambe, si era trascinato verso di lui da chissà dove e ora con un espressione idiota teneva stretto il suo anfibio.
Apriva e chiudeva la bocca in eterno discorso muto.
Il ragazzo tirò indietro la gamba e svincolandosi dalla presa, con la pianta del piede lo colpì in piena fronte.
Il crack delle vertebre cervicali lo fece quasi sorridere.
Ricaricò velocemente la pistola e sentendo vari rumori, capii che non poteva più prendersela comoda, non era solo dopotutto.
“Non sono ancora impazzito del tutto, hai visto stronzo?”
“Ah si, certo come no. Credici”
Scosse il capo e riprese ad avanzare tenendosi al corrimano, guardando di sfuggita la patina di graffiti sul muro giallo sporco, chissà tra migliaia d’anni saranno archeologia e il futuro magister dirà ai suoi allievi che quella era una forma preistorica di comunicazione.
Sempre che gli esseri umani non si siano già estinti e allora quel muro diventerà soltanto la tana di qualche scarafaggio.
Si strinse le spalle
“Che pensiero idiota.”
Ora il palazzo era tutto un coro di mugugni, di gridolini e di strisciare di piedi, si erano svegliati dal loro eterno non-sonno catatonico per piombare nel grigiore della loro non-vita, doveva sbrigarsi erano effettivamente meno pericolosi degli altri, ma tenaci allo stesso modo e ugualmente infetti.
La rampa di scale terminava in un lungo corridoio lurido, dal pavimento ricoperto di cocci di vetro e altra immondizia, in fondo brillava una porta d’acciaio rossa con un grande maniglione antipanico cromato, subito il ragazzo lo spinse, ma questa avanzò solo di qualche millimetro.
“Non ti azzardare.”
Cominciò a prenderla a spallate in maniera energica, fregandosene del dolore e ogni tanto buttando un occhiata indietro.
“Andiamo…”
La luce grigia invase il corridoio, restituendo un minimo di colore a quella tomba di cemento, chiuse la porta alle sue spalle buttando un ultima occhiata per vedere a che punto fossero i suoi inseguitori.
Nessuno.
La spinse energicamente.
“Speriamo che questi stronzi non sappiano usare le maniglie antipanico.” Disse a se stesso.
Costeggiò il cornicione, guardando con disprezzo l’enorme folla di morti viventi sottostante, poi spostò lo sguardo sul piazzale dell’ospedale: alcune ambulanze e altri oggetti formavano una sorta di barricata davanti all’ingresso principale, tutte le finestre del pianterreno che vedeva erano sprangate con assi di legno, non riusciva a vedere bene il retro dell’edificio, ma non doveva essere così affollato come l’ingresso perché altre barricate ne impedivano l’accesso e l’alto muro di cinta aveva tenuto.
Non erano messi così male come pensava: le passerelle di legno inoltre garantivano un difficile, ma pur sempre efficiente collegamento con gli altri palazzi.
Rimanevano però topi in trappola.
Come tutti del resto.
Doveva attraversare un paio di palazzi prima di raggiungere la passerella, con il primo non ebbe grosse difficoltà a passare sull’altro tetto infatti la distanza tra le due costruzioni era minima, il secondo era più problematico.
Un salto di almeno un paio di metri.
Non troppo.
Ma neanche poco.
Immediatamente gli si affollarono nella testa immagini di cadute con ossa fratturate, si augurò soltanto di morire sul colpo nel caso finisse a baciare l’asfalto, sarebbe stato ridicolo farsi un volo di sei piani per finire con la spina dorsale spezzata in mezzo a quelli.
Troppo stupido.
In ogni caso anche con qualsiasi frattura sarebbe stato fottuto comunque.
“O caghi o tiri su le braghe”
Lanciò, per sicurezza, le pistole oltre il muretto sul tetto dell’altro palazzo e fece un paio di passi indietro, respirò profondamente e annuì.
Scattò in avanti e dandosi la spinta con il piede sinistro saltò oltre il muretto, nella frazione di secondo in cui rimase sospeso in aria ebbe la tentazione di guardare in basso.
Non lo fece.
Riuscì ad atterrare quasi in piedi, da sotto la maschera sorrise.
Raccolse le pistole e si avvicinò alla passerella di legno, dalla sua parte era semplicemente appoggiata, sicuramente doveva essere legata saldamente dall’altra parte, non avrebbe avuto senso perderla per un improvvisa folata di vento.
Non aspettò ancora: a carponi iniziò a percorrere la tavola larga un metro e lunga una decina, un movimento sbagliato e si sarebbe sfracellato, si fece lo stesso augurio di prima e strinse le spalle.
In tutti i film si sentiva ripetere “Non guardare in basso”, ovviamente era impossibile non farlo, buttò una rapida occhiata all’enorme folla sottostante che lo guardava attraverso gli occhi vuoti, in una perenne idiota.
Sospirò divertito da sotto la maschera.
Quelli non sarebbero mai stati capaci di arrancare su una passerella.
Questioni di equilibrio.
Strinse le spalle.
Arrivò finalmente sul tetto dell’ospedale, dove una grande H scolorita torreggiava lì in cima, la tavola non era inchiodata né legata, la cosa non gli piacque affatto.
Si avvicinò ad una piccola costruzione in cemento verde sporco e cercò di aprire la grossa porta anti-incendio rossa.
Niente da fare.
Chiusa dall’interno, come quasi tutte le porte dei tetti.
“Merda”
Sparare non sarebbe servito a niente.
Fece il giro della costruzione e sorrise avvicinandosi ad un grosso tubo d’acciaio.
“Strisciare in un condotto d’aereazione con il rischio di perdermi in dedalo di cunicoli? Perché no.”
Riuscì facilmente a sollevare la grata protettiva e con la torcia accesa iniziò a strisciare verso il buio.
Avanzò per una decina di metri in linea retta poi il cunicolo iniziò gradualmente ad abbassarsi di pochi centimetri alla volta, svoltò bruscamente sulla sinistra per finire in una scala a pioli metallica.
Sul fondo c’era una luce.
Spense la torcia e iniziò la discesa tenendosi aggrappato saldamente ai pioli.
Cercò di fare il minor rumore possibile, ma i suoi passi venivano amplificati dal cunicolo, in un rimbombo cacofonico.
Dopo alcuni minuti di discesa, arrivò ad una grata, da lì sotto filtrava la luce, la spinse verso il basso e questa si aprì facilmente.
Lasciò penzolare i piedi nel vuoto, tenendo aggrappato all’ultimo gradino della scala, poi si lasciò cadere dolcemente.
Appena atterrato qualcosa lo colpì sulla nuca, facendolo barcollare in avanti.
“MERDA SONO RIUSCITI AD ENTRARE. ALLARME!” Urlò una voce maschile.
Altre voci di risposta.
Gli sferrarono un secondo colpo sul costato che gli spezzò il fiato, buttandolo in ginocchio.
“Asp…FERMO” riuscì a gridare da sotto la maschera.
Ora lo vedeva bene, era un ragazzo vestito di nero dalla barba lunga e dai capelli sul viso, aveva una stampella in mano e gli occhi spalancati.
“Ma che diavolo…soccorsi?” Chiese questo.
Il ragazzo si buttò sul pavimento tossendo “Più o meno” disse con un filo di voce.
“FALSO ALLARME” Urlò questo.
Alcuni passi di corsa.
“Che cazzo succede Rebo?” Chiese una voce femminile.
“Un intruso, né morto né infetto.”
“TRANQUILLA KIA, TUTTO OK!” Gridò la voce femminile.
Il ragazzo sul pavimento rimase stordito ancora per qualche secondo, poi riuscì a mettere a fuoco anche la ragazza sulla porta e sorrise.
Battito cardiaco accelerato.
Continuò a tossire.
“Cazzo è proprio vivo, scusa se ti ho colpito amico.” Disse Rebo divertito, porgendogli la mano.
Il ragazzo gliela strinse e si alzò in piedi.
“Meno male che non mi hai sparato.”
“Beh, l’avrei fatto se avessi avuto un arma.”
“Con la stampella vai benissimo fidati.”
La ragazza rimase sulla soglia con un espressione indecifrabile in volto: un misto di stupore, paura, rabbia e divertimento.
Lei gli rivolse la parola “Sei armato?”
Il ragazzo annuì.
“Ok” Lei gli si avvicinò e fissandolo attraverso le lenti della maschera gli chiese:“Chi diavolo saresti?”
Lui sorrise e sfilandosi la maschera anti-gas dal viso disse:
“Come ti chiami?”