Siamo degli "scrittori"?




ho letto back-door, il racconto di fanta-informatica come lo definisci tu:

allora il gergo ultra-specifico di primo impatto è un ostacolo, poi in realtà lo trovo caratterizzante e penso che dia un bello stile al racconto. boh forse poi è perchè qualcosina io la capisco, certo se lo leggesse qualcuno che non sa accendere un pc lo troverebbe incomprensibile magari.....

trovo che un grosso difetto del racconto sia il fatto che hai poco sviluppato il nucleo centrale: cioè (se ho capito bene eh, poi salta fuori che nn sono capace di accendere un pc )

Spoiler

il fatto che esistano delle porte di cui nessuno è a conoscenza se non qualche 'misterioso' organo di controllo


andrebbe molto più analizzata e sfruttata, mentre invece nel racconto prende poco più della fine. per il resto l'ho letto volentieri e fino alla fine perchè mi aveva preso, complimenti
L'Assassino - Kill the Reality Show

Sangue sul Quad

con questo testo sono arrivato secondo al concorso nazionale Grinzane Cavour 2005 dal titolo "Scrivi Il Paesaggio dell'olio"

LACRIME D'OLIO

Una schiera senza fine di bottiglie che, come soldati con tanto di mimetica ed elmetto avvitabile, sorvegliano scaffali enormi tappezzati di prezzi e offerte speciali. Dove sono le verdi colline e i tramonti senza tempo? Solo nelle mie lacrime posso ancora vederli...
Nacqui in una casa di campagna, il gallo mi svegliava ogni dì e il primo albeggiare solleticava il mio sguardo assopito. Tutt'intorno c'era lui, il grande uliveto. Partiva dall'orizzonte modellato dalle colline argentate, fino a gettarsi nel mare, increspato come i miei pensieri. I giovani occhi volteggiavano come gabbiani: tra cielo e mare inseguendo l'orizzonte. Centinaia di tronchi scolpiti dalla fantasia e dal vento dormivano su un letto di foglie, le fronde filtravano i raggi solari e, nella brezza mattutina, sembravano respirare in armonia col fiato stanco dei contadini. Quando il sole ardeva a mezzogiorno la terra, rossa come il sangue, emanava l'odore acre e polveroso che per anni è olezzato nella mia vita. Lo stesso odore con cui l'olio novello, che faceva mio padre, impregnava le mura della cantina. Mi incantavo spesso a guardarlo mentre spremeva le olive mature, e non so cosa darei oggi per vedere ancora quelle mani, forgiate dalla tradizione dei secoli, stringere nel pugno il frutto che oggi è parte di me. La mia famiglia non era né istruita né tanto diversa da molte altre, ma nelle braccia di mio padre sciupate dal lavoro e negli occhi di mia madre accigliati dalla stanchezza ma addolciti dalla mia presenza, vedevo vibrare imperturbabile la voce della storia senza tempo del mio popolo e della cultura che mi ha partorito che ora non posso dimenticare. Sono sempre stato molto sensibile, o meglio capace di percepire ciò che gli altri non sentivano. Spesso la notte uscivo di nascosto e andavo nell'uliveto dove la luna faceva scintillare le foglie come fossero d'argento e restavo ore a guardarle muoversi nella brezza di mare. Una di queste sere, scorsi tra gli alberi una ragazza. Occhi luccicanti e capelli liberi nel vento, il candore del suo sguardo mi ghiacciò, impalpabile come un sogno e limpido come il cielo. Mi regalò un sorriso. Ogni notte la rivedevo, ormai era come se gli olivi ci dessero appuntamento e noi fedeli loro amanti arrivassimo puntuali al cospetto della luna. Nacque così una grande amicizia che come un fiume in piena sfondò gli argini della poesia e del sentimento e sfociò nell'oceano dell'amore. L'amore che mi ha cambiato la vita. In un caldo pomeriggio di marzo la incontrai al pozzo sul confine tra le nostre proprietà, lì dove gli olivi si aprono e lasciano correre una strada di ciliegi. Quegli occhi sorgevano nella mia mente come lune di un pianeta deserto. Il vento intarsiato di petali, figli della nuova stagione, carezzava la setosa chioma. Candida come il pensiero d'un infante, mi fissava in attesa di un mio cenno. Carezzai quella gota di velluto e, nel silenzio dei nostri respiri, quel fiabesco sorriso sbocciò in un bacio; i raggi solari ci avvolsero nel loro caldo abbraccio e un uccellino, in quella melodia di colori, planò nel cielo azzurro e mi ricordò che sulle sue ali volava la primavera.
Non c'è modo di esprimere quanto fu grande la passione che vissi in quegli anni, accecato dall'amore e sedotto dalla natura in tutte le sue forme, fluttuavo coi miei pensieri in un universo distaccato dalla realtà ma troppo perfetto per essere reale...
Poi i tempi cambiarono. I sentieri tappezzati dai petali dei ciliegi si vestirono d'un manto asfaltato, grigio come la notte e freddo come il mare a dicembre. All'orizzonte comparvero case dopo case e il silenzio morì di fronte alla frenesia di una città che nasceva. E lì dove c'era l'amore, e nei suoi occhi trovavo l'aria per respirare, lì dove volteggiavano le stagioni e il tempo non scorreva mai, lì una fabbrica con le sue ciminiere trafisse la terra, e con essa tutta la mia vita. Dietro l'ultima siepe rimasta s'intravedeva il mare dove le onde erano infrante come i miei sogni. Dentro di me ero affascinato dai cambiamenti, ma mi accorsi in quell'occasione che non ero in grado di conviverci. Caddi in depressione, passavo i giorni a cercare gli olivi scomparsi nell'abbraccio di un'autostrada, scrivevo poesie troppo nostalgiche per essere lette e guardavo inerme la società che lentamente mi assimilava.
Una notte di luna piena, dove il mare rivendica all'uomo la sua proprietà, vidi un albero enorme, sembrava troppo grande per poter essere un ulivo, ma quando mi avvicinai riconobbi senza alcun dubbio le foglie d'argento e la corteccia segnata dalle rughe come i pochi uomini che ancora lo amavano. Sul tronco c'era incisa una frase: “Piangi per me e vivrò per sempre”. Leggendo quelle parole socchiusi gli occhi, un turbine sconvolse il mio umore altalenante, sentii nell'aria l'odore di terra polverosa che rischiavo di dimenticare; percepii una morbida e calda sensazione sotto gli occhi e mentre vedevo l'enorme ulivo cadere in mare sotto i colpi di una sega elettrica, una goccia d'olio scivolò sul mio viso e finì sul mio labbro dove ne assaporai l'intenso aroma del mio passato: acre come un ricordo morente e vellutato come una passione vissuta. Da quel giorno ogni volta che penso alla mia terra e al mio amore perduto piango gocce d'olio e penso che in esse è racchiusa la cultura di un popolo divorata dai tempi assassini, oltre al passato di un uomo che non osa più guardare al suo futuro.
- Signore la posso aiutare? - una voce fresca come l'alba soggiunge al mio orecchio – abbiamo una vastissima gamma di oli per lei, di cui molti con certificazione di qualità europea -
Come un maniaco la stringo a me e con la passione di un tempo la bacio senza pensare. Dapprima cerca di divincolarsi, poi, guardandomi negli occhi vedo il suo viso illuminarsi e l'amore che rischiava di volare via come i petali di ciliegio ci avvolge di nuovo come la prima volta. fissandola incantato vedo la sua pelle grondare d'olio novello. In un solo abbraccio condito dall'acre aroma del nostro passato ho ritrovato la felicità.
- Su alzati! Ci puoi andare a scuola, il medico dice che hai solo un po' di congiuntivite – grida mia madre mentre vedo tutti i miei ricordi svanire con Morfeo e la sua corte.
- Mamma non voglio che l'ulivo cada in mare! - dico io senza sapere bene perché.
- Forse è meglio che te ne stai a casa... sei sicuro di sentirti bene? -
- Non sono nemmeno sicuro di essere sveglio..- Corro in giardino, abbraccio il mio piccolo ulivo di città e bacio la sua corteccia. - certo però che era meglio la donna del supermercato – penso tra me e me sorridendo.
a Joliet Jake
il racconto sembra una sceneggiatura da corto. Essenziale e poertica al punto giusto.
Mi piace l'idea di sprazzi sparsi di vita.
posto quello che scrivo ogni tanto... frasi e frasette, niente di che, non mi cimento in racconti perche ci perderei un infinità di tempo che non ho
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La sofferenza che ho dentro di me, mi logora lentamente, non riesco a capire cosa sia veramente...
ma è sempre li... costante... non si ferma mai, posso far finta di non sentirla, ma basta una canzone, un film, una frase per ritrovarla, sono io che soffro? non lo so, so solo che per quanto sia brutta mi è indispensabile, è bello soffrire.

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la felicità è come un ancora, va giu fino al profondo del tuo io poi s'incastra e ti tiene fermo non vai avanti, lei va via e tu non puoi muoverti.

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il mi core, non vuol queste spine, e allor come si fa con le rose, per donarle alle donzelle, cosi chè non possano recar a loro danno, io taglio queste spine, e un addio ti porgo, non rimaner male di questa conclusione, e non creder che io non abbia a male o non soffrà, è solo una questione di principio.

(qua potete anche sfottermi)

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sto finendo, fra un po' vado anchio

ah, è un librogheim, va bene lo stesso?
Mah...ci provo anche io va...

L'Ultimo Sospiro

La luce solare veniva riflessa e filtrata in modo strano quella mattina dal soffitto semiopaco della Metropolitana. I binari erano gremiti, come ogni giorno, tutti gli occhi puntati sulla piattaforma al centro, tra le due coppie di rotaie, dove stavano proiettando uno di quegli “sketch” tridimensionali di “candid camera” e similia. Nessuno ride, il sorridere nemmeno mi passa per l’anticamera del cervello. Arriva il treno, spettacolo finito, le figure svaniscono. Le porte si aprono, c’è chi scende e chi sale, sembra uno scambio di pedine, tutti uguali, stesse facce, stesse espressioni. Rimango fermo, lì da solo, non mi muovo, qualcuno mi rivolge uno sguardo distratto, più per istinto che per vera superficiale curiosità. Un soffio di vento silenzioso e il treno è già lontano, sospeso in aria, separato da terra dalla sola forza magnetica.
“Quando andiamo a Kyoto?”, il suo sorriso, com’è bello, com’era bello, illuminava. I suoi occhi poi, stelle brillanti nella notte. Le restituii il sorriso, troppo innamorato per riuscire a risponderle, ammutolito dalla sua bellezza.
Anni fa mettevano degli specchi per prevenire i suicidi, dicevano che era impossibile farlo mentre ti vedevi riflesso. Ora fanno filtrare la luce del sole dal soffitto.
Altro treno, altre pedine. Un altro paio di sguardi svogliati. Porto l’indice sinistro sulla stanghetta della monolente digitale e schiaccio il bottone centrale, l’ora appare nell’angolo destro: le 7 e 23. Mi chiedo che diavolo ci faccio sveglio a quest’ora, credo che non dormo da giorni.
”Perché rimani imbambolato e non mi rispondi? Lo sai quanto ci tengo a questa gita con te...ma a che pensi?” mi chiede. A quanto ti amo, volevo risponderle. Ora desidererei soltanto averglielo detto, non in quel preciso istante, in qualsiasi altro, il giorno prima, il mese prima, dopo il primo bacio, già l’amavo allora. Un suono avverte dell’imminente arrivo di un altro treno, mi giro come per un movimento riflesso, un urlo, è la sua voce, era la sua voce strozzata. Il viso di un uomo disperato, è il mio, riflesso negli specchi che non ci sono più. Il vento silenzioso, lo sento, un ultimo sospiro e sono di nuovo con lei. “Ti amo”.
Dato che il racconto ha riscontrato un discreto "successo" (nel senso che perlomeno qualcuno l'ha letto) potete leggerne qualcun'altro e anche poesie mie qua: www.lorenzofb.com
[Sì, è soprattutto per pubblicizzare il sito ]
tolgo dallo sticky, ma liberissimi di upparlo (per questo thread il gravedigging non è reato )


Sono secoli che voglio mettere in linea qualcosa, ma non trovo né la voglia né i lettori interessati, ergo ...

Hotgun, pensavo che non esistesse il reato di "gravedigging" qui nella sezione Libri .
Riuppino, come promesso.
Orsù, date libero sfogo alla fantasia.
Posto uno dei capitoli che riassumono meglio il mio odio per le descrizioni accurate
Una delle due voci nel testo originale è in grasseto, solo che non me l'ha cambiata e sono pigro


8- Parata carnevalesca della fase REM


Camminava lentamente, con circospezione puntando verso il vecchio ospedale, doveva percorrere almeno cinque o sei chilometri di città, il che voleva dire almeno un paio d’ore piene di pericoli.
Era di nuovo solo con se stesso e con il mondo ostile, ma era determinato ad affrontarlo, probabilmente era una delle poche cose ad aver senso dopo tutto questo tempo.
O almeno credeva.
Ma tanto non importava.
Mentre ruotava velocemente gli occhi, ora soffermandosi su un autobus ribaltato o su quello che restava di un ristorante cinese dato alle fiamme, faceva saltare la pistola da una mano all’altra, giocherellando nervosamente per far passare il tempo.
Si stava incamminando verso una zona periferica della città, non che l’esterno cittadino fosse più sicuro, anzi dava meno possibilità di riparo e più ampia visibilità: aveva sentito storie assurde che vedevano quelli-di-notte in giro di giorno a correre per i campi e a braccare qualsiasi cosa umana mettesse piede in quelle lande.
Difficile da credere, ma l’esperienza del pomeriggio lo smentiva almeno in parte: era sicuro che in quella massa informe e marcente ci fosse almeno uno di quelli-di-notte; lui li chiamava così, molti altri invece semplicemente “infetti”, ma non erano forse tutti infetti?
Morti che si rialzano e che corrono.
Per non parlare dei vivi.
Loro erano i più infetti di tutti perché si ostinavano ad andare avanti, non era questo il peggior morbo esistente?
Sperare
Scosse il capo.
Non era il momento.
Aveva un obbiettivo ben preciso.
Sempre a scatti brevi tenendosi defilato dal centro della carreggiata il ragazzo avanzava, incontrando scarsissima attività, alcuni rimanevano immobili al centro della strada o vagabondavano inutilmente per le corsie dei negozi ormai abbandonati, esuli anche loro in un modo particolare.
I palazzi ora si facevano più radi e lasciavano il posto a costruzioni dalle diverse forme, probabilmente una serie di caserme e di magazzini industriali: qualche centinaia di metri più avanti la strada si abbassava sensibilmente andando a formare quasi un canale artificiale d’asfalto a quattro corsie con senso unico, a destra e a sinistra soltanto muri di cemento armato.
La vista delle macchine incolonnate con il loro macabro contenuto gli fece gelare il sangue, la gente che scappava fuori città fu sicuramente imbottigliata nell’unica arteria verso l’hinterland, sorpresa e uccisa ancora all’interno delle loro auto, una fine da topo in trappola.
Rabbrividì.
La fila di auto continuava per diverse centinaia di metri andando a sparire all’interno del lugubre tunnel sottopassaggio, direzione obbligata se voleva risparmiare almeno tre ore.
Era una pessima idea, brancolare nel buio e nel fetore ingombro di rottami e cadaveri, ma non aveva alternative, tanto in giro ovunque era pericoloso.
Se fosse andata male, tanto peggio, poteva sempre spararsi in testa.
Il cimitero di autovetture rendeva tutto ancora più strano, relitti immobili dai colori sgargianti e modelli più disparati: dai fuoristrada alle auto extra lusso, dai furgoncini ai taxi.
Si sentiva come se fosse entrato in una scuola in pieno agosto, la stessa desolazione.
I veicoli all’ingresso della galleria erano incidentati, probabilmente in un ultimo tentativo di districarsi da quell’ondata di morte, formavano quasi una muro di lamiera all’ingresso, ma il ragazzo riuscì a passare tranquillamente passando radente al muro, appena entrato si arrestò.
Attraverso le lenti della maschera anti-gas il ragazzo si rincuorò un poco: la galleria non era lunga che centocinquanta metri circa ed era tutta rettilinea, poteva vedere l’uscita illuminata dalla luce grigia del giorno, questo era positivo.
Il cono di luce prodotto dal sole avanzava nell’oscurità soltanto di pochi metri, doveva percorrere gran parte del tunnel al buio tenendo sempre gli occhi fissi sull’uscita però.
“Coraggio” disse rivolto a sé.
“Paura del buio eh? Cacasotto”
“Zitto”
“Andiamo, sii onesto. Ho ragione io, è una cazzata.”
“Basta”
“Un consiglio da amico, faresti meglio a fare il giro o finirai ammazzato.”
“Prima o poi si muore tutti.” Disse scrollando le spalle.
Tenendo la pistola puntata avanzava con la schiena rivolta al muro a sinistra, nella penombra scorgeva soltanto rottami informi e dal finestrino di un furgone delle dita adunche cercavano di artigliare il buio.
Il ragazzo si toccò la tasca dei pantaloni con la mano destra, lì sentì la forma tubolare della pila tascabile del morto della squadra 17, non sapeva se accenderla o no.
“Potrebbe essere un rischio. Potrei risvegliarne dal torpore qualcuno, l’uscita è ancora troppo lontana…no, devo rimanere calmo.”
Il respiro era quasi impercettibile sotto il filtro della maschera, avanzava passo per passo cercando di fare il minimo rumore possibile, sotto gli scarponi ogni tanto sentiva oltre al familiare scricchiolio dei cristalli dei finestrini anche qualcosa che ad un primo impatto gli sembrava come una materasso buttato lì per caso, ma dopo alcuni secondi poteva sentire l’odore nauseabondo anche da sotto la maschera.
Erano corpi in decomposizione ripieni di gas, alla minima sollecitazione regalavano al mondo il loro contenuto.
A metà traversata cominciò a diventare sempre più suscettibile verso ogni rumore: uno scricchiolio davanti, un gocciolio a destra e soprattutto i battiti del suo cuore, sembrava un martello pneumatico capace di svegliare tutti gli orrori presenti lì dentro o nella sua testa.
Un rumore metallico.
Questa volta l’aveva sentito bene.
Chiaro e netto come un colpo di pistola.
Proveniva dalla sua destra, verso l’entrata.
“Calmo, devo stare calmo. Ci sono quasi.”
Affrettò il passo.
Ad ogni passo e ad ogni sostanza appiccicata sotto le suole dei suoi scarponi si riprometteva di non accendere la torcia, non voleva vedere anche se ormai nella sua testa si delineava chiaramente tutta la scena: le luci della galleria si spensero di colpo e il panico invase quei fuggiaschi che iniziarono a scappare verso le uscite urtandosi l’un l’altro a piedi e con i veicoli e poi…l’onda anomala di morte che prese i volti dei loro cari.
Il ragazzo si morse ferocemente il labbro.
“NO”
Respirò profondamente.
“Non ha senso, basta! Loro sono tutti morti e io devo uscire intero da qui dentro”
Il cigolio di una portiera aperta.
Riuscì a dominare l’istinto di mettersi a correre all’impazzata, sarebbe stato inutile visto che in quest’oscurità sarebbe inciampato subito e raggiunto da qualunque cosa ci potesse essere nella galleria.
Ormai mancavano poche decine di metri e si sarebbe lasciato anche quest’orrore alle spalle, per farlo diventare vago e fioco come tutti i ricordi.
Con il ginocchio colpì inavvertitamente la testa di un cadavere seduto con la schiena poggiata alle piastrelle della parete del tunnel e scivolò lentamente fino a toccare terra, questo avvenimento minò ancora di più i nervi del ragazzo: gli pareva di aver violato la riservatezza di un sepolcro e quel movimento in mezzo alla calma lo fece vacillare.
Iniziò a correre.
Si tenne rasente al muro e con la mano sinistra si guidava nel buio, ignorò tutta la serie di rumori prodotti dal suo incedere, potevano essere interpretati in maniera fantasiosa dal suo cervello, doveva lasciarli perdere.
Non importava.
Tonfi.
Passi.
Rumori metallici.
Piastrelle infrante.
Pozzanghere calpestate.
Anche ordinando, il suo cervello recepiva tutto e i collegamenti elettrici gli mandavano immagini direttamente sulla retina di un orda di morti in movimento pronto a divorarlo al buio e di vagare come quelli là fino alla fine del mondo.
Non l’avrebbe mai permesso.
Uscì dal tunnel.
Fu come nascere di nuovo, tornare alla luce dopo interminabili secondi di tenebra mista a desolazione e cemento, un luogo di morte sporco dove si sentiva braccato, ma ne valeva veramente la pena?
“Oh si, ne valeva la pena”
Disse a se stesso mentre ansimava riprendendo fiato più per la tensione che per la corsa.
Alzò il capo e si poggiò le mani dalle cosce per sostenersi, respirò profondamente e riprese il cammino tra i veicoli incolonnati che ormai andavano via via diminuendo, si tenne sempre sulla destra rasente al muri.
Un rumore.
Questa volta non era il frutto della sua mente suggestionata, erano chiaramente dei vetri infranti forse di un finestrino o qualcosa di simile.
Proveniva da dentro il tunnel.
Il ragazzo distava ormai una decina di metri dalla galleria, si voltò puntando la pistola, attendendo per qualche altro secondo; lo sentì più chiaramente: un tonfo e qualcosa che andava in frantumi.
Era stato fortunato.
O stupido.
Si girò e riprese il suo cammino verso l’uscita da quel dislivello, la strada si innalzava per tornare ad essere pianeggiante e intravedeva gli ultimi blocchi di palazzi che delimitavano la città, l’ospedale era costruito proprio per fungere da tramite tra la metropoli e l’hinterland, ovviamente erano presenti altre strutture mediche all’interno dell’abitato, ma questo era l’unico vicino al porto e allo snodo principale.
Non sentiva ancora il rumore del mare, ma era vicino.
Un urlo.
Si voltò.
Dal tunnel uscirono tre sagome muovendo velocemente la testa a scatti a destra e a sinistra, urlavano e sbavavano sangue, uno dei tre partì in avanti verso di lui cominciando a correre a velocità elevata.
Non era uno dei cadaveri ambulanti.
Molto peggio.
Il ragazzo rinfoderò la pistola e si mise a correre in avanti, verso l’ospedale, aveva un buon vantaggio, ma loro a differenza sua non si stancavano.
“Il secondo inseguimento oggi, bella merda” Disse rivolto a se stesso.
Il respiro veniva deformato dal filtro della maschera anti-gas e gli occhi sgranati apparivano fiocamente da sotto le lenti, l’adrenalina lo spingeva ad accelerare il ritmo, passando per vicoli secondari e ignorando i morti viventi sparsi per la strada, loro non l’avrebbero di sicuro raggiungo.
Sentiva le loro urla e con tutto il loro casino, avrebbero richiamato l’attenzione su di lui. Tutto il paesaggio cominciò a diventare vago e indefinito, non prestava più attenzione a tutto l’ambiente circostante, importava solo quello che vedeva davanti.
Non doveva voltarsi.
Si voltò,
Erano più vicini, poteva distinguerli chiaramente: uno era vestito da poliziotto, l’altro sembrava un cameriere, il terzo non riusciva a distinguerlo, ma sembrava una ragazza.
Su tutti i visi l’espressione sbalordita mista a furore cosmico, con le labbra contratte in un ringhio animalesco, pronti a dilaniare i suoi muscoli e a spolpare le sue ossa fino all’ultimo brandello di carne calda rimasto.
Ma non l’avrebbero preso, perlomeno non vivo.
Poco ma sicuro.
Sicuramente questi altri, erano il prodotto di un’ulteriore mutazione del virus, mantenevano tutti un grado di contagio altissimo però i loro corpi non marcivano e probabilmente gli organismi continuavano a vivere anche se il cervello e la volontà veniva annebbiato in turbine di violenza primordiale.
Stato di natura.
Scavalcò il cofano di una berlina abbandonata in mezzo alla strada e riprese a correre continuando ad avanzare, svoltò l’angolo e si fermò per un paio di interminabili secondi.
Centinaia.
Migliaia.
Un esercito.
Erano tutti assiepati nel cortile dell’ospedale, alcuni battevano le mani sporche e ossute contro le porte blindate dell’ingresso del pronto soccorso, altri semplicemente guardavano il nulla cosmico.
Era impossibile passare.
Dietro sentiva le grida dei suoi tre inseguitori.
Doveva muoversi.
Guardò il tetto dell’ospedale e la vide: una passerella.
Una tavola di legno per la salvezza, doveva raggiungere l’ultimo piano del palazzo adiacente.
Entrò nell’ingresso alla sua sinistra spostando di peso un morto vivente dall’aria idiota e si lanciò di corsa per la rampa di scale.
Gli stivali del ragazzo rimbombavano sui gradini di legno, mentre il ringhio dei suoi inseguitori si faceva sempre più vicino, saliva metro per metro aiutandosi anche con il corrimano, la distanza verso il tette sembrava sempre lontana allo stesso modo come se quella corsa fosse interminabile.
Tutto appariva sempre più irreale: i piani con gli appartamenti contenenti i loro orrori, la rete metallica della gabbia dell’ascensore che sembrava farsi beffe della sua corsa, mentre il suo respiro si faceva sempre più affannato e l’acido lattico invadeva i suoi quadricipiti come un veleno mortale.
Una mano stretta sulla sua caviglia.
Il ragazzo cadde in avanti su un pianerottolo sbattendo la spalla facendo cadere la pistola qualche metro in avanti, il silenziatore si staccò volando giù per la tromba delle scale; voltandosi vide quello che restava di un poliziotto pronto ad assalirlo.
Gli artigli frenetici strattonavano i suoi pantaloni e quegli occhi rossi iperattivi dicevano annunciavano il trionfo del cacciatore sulla preda, il ragazzo si allungò per raccogliere la pistola scalciando freneticamente per toglierselo di dosso, ma quello arretrando di qualche metro, con una forza brutale fu di nuovo su di lui.
Il respiro affannoso dell’essere appannava le lenti della sua maschera antigas e con le dita cercava di lacerarlo e ferirlo, nel frattempo gli altri due si avvicinavano facendo rimbombare i passi sui gradini.
Disperato il ragazzo raccolse tutte le sue forze e con uno spintone riuscì a spingerlo indietro, il tanto che bastava per raccogliere la pistola.
Fece fuoco.
Uno di meno al mondo.
Con uno scatto riprese prontamente a salire le scale, anche se gli altri due si rifacevano sotto distanziati di pochi metri, sempre ululanti e sbavanti muco e sangue.
“Andiamo non fregatemi proprio adesso maledette.” Urlò rivolto alle sue gambe.
Ormai diventava sempre tutto più vago, tutto più indistinto difficile da capire, come in un sogno in cui cerchi di svegliarti.
Tutto inutile.
Tutto inutile.
Mentre si arrampicava a perdifiato per le scale, con quei due alle calcagna e molti altri che si destavano attirati dalle urla negli angoli più oscuri del palazzo, ebbe la certezza di essere vicinissimo al punto di non ritorno, la sua salute mentale lo salutava dall’uscita 25 delle partenze.
Biglietto di sola andata.
“NOOOOOOO”
Si girò di scatto e prendendo con entrambe le mani la pistola cominciò a sparare all’impazzata verso quelle carcasse affamate.
Uno.
Due.
Cinque.
Dieci
Dodici volte.
Click.
Scarico.
Il rimbombo degli spari.
L’odore di polvere da sparo filtrato dalla maschera.
Gli fecero quasi perdere i sensi, ma il rumore del caricatore che colpiva il pavimento lo riporto alla realtà.
I due inseguitori erano riversi sulle scale in un bagno di sangue, si contorcevano ancora in spasmi affannosi e animaleschi.
Strinse i denti e con la suola degli scarponi cominciò a frantumargli freneticamente il cranio contro il pavimento: prima a lui e poi a lei.
Colpo dopo colpo.
Ossa dopo ossa.
Quando ebbe finito rideva come all’impazzata seduto su un gradino coperto un po’ ovunque del loro sangue.
“Sei fuori.”
Il ragazzo continuò a ridere per qualche decina di secondi, poi si senti aggrappare saldamente il piede, questo lo risvegliò dal torpore.
Non era uno degli altri, era un morto.
Senza gambe, si era trascinato verso di lui da chissà dove e ora con un espressione idiota teneva stretto il suo anfibio.
Apriva e chiudeva la bocca in eterno discorso muto.
Il ragazzo tirò indietro la gamba e svincolandosi dalla presa, con la pianta del piede lo colpì in piena fronte.
Il crack delle vertebre cervicali lo fece quasi sorridere.
Ricaricò velocemente la pistola e sentendo vari rumori, capii che non poteva più prendersela comoda, non era solo dopotutto.
“Non sono ancora impazzito del tutto, hai visto stronzo?”
“Ah si, certo come no. Credici”
Scosse il capo e riprese ad avanzare tenendosi al corrimano, guardando di sfuggita la patina di graffiti sul muro giallo sporco, chissà tra migliaia d’anni saranno archeologia e il futuro magister dirà ai suoi allievi che quella era una forma preistorica di comunicazione.
Sempre che gli esseri umani non si siano già estinti e allora quel muro diventerà soltanto la tana di qualche scarafaggio.
Si strinse le spalle
“Che pensiero idiota.”
Ora il palazzo era tutto un coro di mugugni, di gridolini e di strisciare di piedi, si erano svegliati dal loro eterno non-sonno catatonico per piombare nel grigiore della loro non-vita, doveva sbrigarsi erano effettivamente meno pericolosi degli altri, ma tenaci allo stesso modo e ugualmente infetti.
La rampa di scale terminava in un lungo corridoio lurido, dal pavimento ricoperto di cocci di vetro e altra immondizia, in fondo brillava una porta d’acciaio rossa con un grande maniglione antipanico cromato, subito il ragazzo lo spinse, ma questa avanzò solo di qualche millimetro.
“Non ti azzardare.”
Cominciò a prenderla a spallate in maniera energica, fregandosene del dolore e ogni tanto buttando un occhiata indietro.
“Andiamo…”
La luce grigia invase il corridoio, restituendo un minimo di colore a quella tomba di cemento, chiuse la porta alle sue spalle buttando un ultima occhiata per vedere a che punto fossero i suoi inseguitori.
Nessuno.
La spinse energicamente.
“Speriamo che questi stronzi non sappiano usare le maniglie antipanico.” Disse a se stesso.
Costeggiò il cornicione, guardando con disprezzo l’enorme folla di morti viventi sottostante, poi spostò lo sguardo sul piazzale dell’ospedale: alcune ambulanze e altri oggetti formavano una sorta di barricata davanti all’ingresso principale, tutte le finestre del pianterreno che vedeva erano sprangate con assi di legno, non riusciva a vedere bene il retro dell’edificio, ma non doveva essere così affollato come l’ingresso perché altre barricate ne impedivano l’accesso e l’alto muro di cinta aveva tenuto.
Non erano messi così male come pensava: le passerelle di legno inoltre garantivano un difficile, ma pur sempre efficiente collegamento con gli altri palazzi.
Rimanevano però topi in trappola.
Come tutti del resto.
Doveva attraversare un paio di palazzi prima di raggiungere la passerella, con il primo non ebbe grosse difficoltà a passare sull’altro tetto infatti la distanza tra le due costruzioni era minima, il secondo era più problematico.
Un salto di almeno un paio di metri.
Non troppo.
Ma neanche poco.
Immediatamente gli si affollarono nella testa immagini di cadute con ossa fratturate, si augurò soltanto di morire sul colpo nel caso finisse a baciare l’asfalto, sarebbe stato ridicolo farsi un volo di sei piani per finire con la spina dorsale spezzata in mezzo a quelli.
Troppo stupido.
In ogni caso anche con qualsiasi frattura sarebbe stato fottuto comunque.
“O caghi o tiri su le braghe”
Lanciò, per sicurezza, le pistole oltre il muretto sul tetto dell’altro palazzo e fece un paio di passi indietro, respirò profondamente e annuì.
Scattò in avanti e dandosi la spinta con il piede sinistro saltò oltre il muretto, nella frazione di secondo in cui rimase sospeso in aria ebbe la tentazione di guardare in basso.
Non lo fece.
Riuscì ad atterrare quasi in piedi, da sotto la maschera sorrise.
Raccolse le pistole e si avvicinò alla passerella di legno, dalla sua parte era semplicemente appoggiata, sicuramente doveva essere legata saldamente dall’altra parte, non avrebbe avuto senso perderla per un improvvisa folata di vento.
Non aspettò ancora: a carponi iniziò a percorrere la tavola larga un metro e lunga una decina, un movimento sbagliato e si sarebbe sfracellato, si fece lo stesso augurio di prima e strinse le spalle.
In tutti i film si sentiva ripetere “Non guardare in basso”, ovviamente era impossibile non farlo, buttò una rapida occhiata all’enorme folla sottostante che lo guardava attraverso gli occhi vuoti, in una perenne idiota.
Sospirò divertito da sotto la maschera.
Quelli non sarebbero mai stati capaci di arrancare su una passerella.
Questioni di equilibrio.
Strinse le spalle.
Arrivò finalmente sul tetto dell’ospedale, dove una grande H scolorita torreggiava lì in cima, la tavola non era inchiodata né legata, la cosa non gli piacque affatto.
Si avvicinò ad una piccola costruzione in cemento verde sporco e cercò di aprire la grossa porta anti-incendio rossa.
Niente da fare.
Chiusa dall’interno, come quasi tutte le porte dei tetti.
“Merda”
Sparare non sarebbe servito a niente.
Fece il giro della costruzione e sorrise avvicinandosi ad un grosso tubo d’acciaio.
“Strisciare in un condotto d’aereazione con il rischio di perdermi in dedalo di cunicoli? Perché no.”
Riuscì facilmente a sollevare la grata protettiva e con la torcia accesa iniziò a strisciare verso il buio.
Avanzò per una decina di metri in linea retta poi il cunicolo iniziò gradualmente ad abbassarsi di pochi centimetri alla volta, svoltò bruscamente sulla sinistra per finire in una scala a pioli metallica.
Sul fondo c’era una luce.
Spense la torcia e iniziò la discesa tenendosi aggrappato saldamente ai pioli.
Cercò di fare il minor rumore possibile, ma i suoi passi venivano amplificati dal cunicolo, in un rimbombo cacofonico.
Dopo alcuni minuti di discesa, arrivò ad una grata, da lì sotto filtrava la luce, la spinse verso il basso e questa si aprì facilmente.
Lasciò penzolare i piedi nel vuoto, tenendo aggrappato all’ultimo gradino della scala, poi si lasciò cadere dolcemente.
Appena atterrato qualcosa lo colpì sulla nuca, facendolo barcollare in avanti.
“MERDA SONO RIUSCITI AD ENTRARE. ALLARME!” Urlò una voce maschile.
Altre voci di risposta.
Gli sferrarono un secondo colpo sul costato che gli spezzò il fiato, buttandolo in ginocchio.
“Asp…FERMO” riuscì a gridare da sotto la maschera.
Ora lo vedeva bene, era un ragazzo vestito di nero dalla barba lunga e dai capelli sul viso, aveva una stampella in mano e gli occhi spalancati.
“Ma che diavolo…soccorsi?” Chiese questo.
Il ragazzo si buttò sul pavimento tossendo “Più o meno” disse con un filo di voce.
“FALSO ALLARME” Urlò questo.
Alcuni passi di corsa.
“Che cazzo succede Rebo?” Chiese una voce femminile.
“Un intruso, né morto né infetto.”
“TRANQUILLA KIA, TUTTO OK!” Gridò la voce femminile.
Il ragazzo sul pavimento rimase stordito ancora per qualche secondo, poi riuscì a mettere a fuoco anche la ragazza sulla porta e sorrise.
Battito cardiaco accelerato.
Continuò a tossire.
“Cazzo è proprio vivo, scusa se ti ho colpito amico.” Disse Rebo divertito, porgendogli la mano.
Il ragazzo gliela strinse e si alzò in piedi.
“Meno male che non mi hai sparato.”
“Beh, l’avrei fatto se avessi avuto un arma.”
“Con la stampella vai benissimo fidati.”
La ragazza rimase sulla soglia con un espressione indecifrabile in volto: un misto di stupore, paura, rabbia e divertimento.
Lei gli rivolse la parola “Sei armato?”
Il ragazzo annuì.
“Ok” Lei gli si avvicinò e fissandolo attraverso le lenti della maschera gli chiese:“Chi diavolo saresti?”
Lui sorrise e sfilandosi la maschera anti-gas dal viso disse:
“Come ti chiami?”
Letto. Le descrizioni vanno bene, sono quasi sempre efficaci. In un racconto di questo genere è meglio essere telegrafici, quasi grezzi: dà un taglio più rapido alla vicenda e la rende più brutale. Questo aumenta l'ansia del lettore.
Qualche errore ortografico (eliminabile con revisioni accurate): mancano accenti, alcune parole sono sbagliate, qualche typo qua e là.

Il problema principale è il ritmo della lettura: scorre abbastanza bene, ma in certi passaggi ti "inceppi". Occhio alla punteggiatura: è l'errore che ripeti più spesso e ti fa perdere un sacco di ritmo.

Di seguito posto alcuni passaggi del tuo racconto per spiegare meglio quello che intendo dire. Talvolta segnalerò in rosso, per comodità di lettura, le parti rilevanti. Vorrei che fosse chiaro che non lo faccio per ergermi in cattedra e giudicarti, ma con l'intento di esserti d'aiuto con qualche consiglio.


Qui la punteggiatura è sbagliata: si legge con l'affanno. Le virgole fanno "respirare" la frase, ma devono essere messe al posto giusto, altrimenti il respiro diventa iperventilazione o singhiozzo. Pausa dopo "circospezione", pausa più marcata (punto o punto e virgola) dopo "ospedale", perché da lì in poi c'è un periodo più articolato.


Qui le pause sono troppe. Arrivi di corsa e singhiozzi. "Ma tanto non importava" forse è superfluo, eliminarlo potrebbe alleggerire.


Marcescente.


Come sopra: le frasi brevi sono efficaci, lungi dall'essere il problema, ma troppe puntualizzazioni del genere di fila fanno sobbalzare la lettura: uno va in artmia asistolica per andare avanti. Un trucco può essere fonderne alcune assieme. Per esempio: "Per non parlare dei vivi: loro erano..." e poi "Scosse il capo: non era questo il momento." In questo modo mantieni lo stesso effetto, ma permetti alla lettura di respirare tra un inciso e l'altro.



Attento alla 'd' eufonica: è convenzione, in editoria, usarla soltanto se la parola successiva inizia per la stessa lettera della preposizione ("a ogni modo" "ad altri").


Occhio al tempo dell'azione. Il passato remoto è per il racconto diretto. Lo utilizzi già per gli eventi nel "presente" del tuo racconto: usarlo anche per descriverne il passato confonde il lettore. Puoi usare il trapassato remoto oppure, per maggiore efficacia, l'indicativo presente, come se la scena si svolgesse ora sotto i nostri occhi: "Nella sua testa si delineò chiaramente tutta la scena: le luci della galleria si spengono di colpo e il panico invade quei fuggiaschi, che iniziano a scappare..."
La scena, benché passata, avviene sotto i nostri occhi, ci colpisce ancora di più e inoltre non confondiamo tra presente e passato dell'azione.


Occhio alle ripetizioni: appesantiscono il ritmo. In questo caso "Tutto" è superfluo entrambe le volte.


Idem come sopra: abbiamo una parata di "tutto", qui.



Ripetizione di "frenetico". Sostituirei il primo: mi pare più efficace sul secondo.


Occhio al genere. Se è "uno", maschile, non può essere "volte", femminile. Mi aspetterei "dodici colpi". Altrimenti "una".


Altro ritmo perso per la punteggiatura. Unisci il tutto e separa con virgole invece di punti: rimane telegrafico, ma guadagna rapidità, che si sposa bene con il momento descritto, frenetico, anche se visto al rallentatore.



In questo caso la punteggiatura errata rende difficile la comprensione del testo.
Copincollo in quote: le annotazioni sono in rosso per comodità.




Le sanno per forza usare: le maniglie antipanico sono progettate apposta. Il pensiero potrebbe indugiare proprio su questo particolare: aggiunge ansia perché riduce il senso di sicurezza dato dall'aver chiuso una porta dietro di sé.


Perché? Immagino, ma è una supposizione mia, per il peso. Tieni presente che è generalmente meglio evitare di lasciare queste supposizioni al lettore. Se una spiegazione non è immediata, va fornita. Basta un semplce aggettivo (per es. "pesanti"), non devi ricorrere a una frase per dire che le pistole pesano troppo e lui ha paura che lo ostacolino.

E' tutto: ho cercato di essere più chiaro possibile, spero che ti sia utile.
fico questo thread. bel lavorone hai fatto elric. Quando sono a casa metto qualcosa di mio, che ora sto in lab. Ma lavori nel campo?
wow pwned ;\
Beh tu sei stato meno "brutale" degli altri
Diciamo che c'è ancora molto da lavorare
Scritto stamani senza pretese:

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Le lettere si scrivono a matita sai?
Perche` la grafite si impregna e si gonfia con l'umidita`. Poi e` fatta di corpi morti e quello e` il nostro futuro.
Ti parlero` dell'estate. Perche` da qui da dove scrivo non si puo` parlare d'altro, lo dice la legge e poi finisci a spaccar pietre nel deserto.

L'estate non e` il sole, il mare e la crema abbronzante. Io ricordo le strade che non finiscono. Ricordo che ad ogni stazione di servizio mi facevi fermare per lasciare un pezzo di te nel segreto. E quando ti scoprivo sorridendo mi dicevi - e` per ricordo-. E chissa` chi gli ha trovati ora. Sicuramente qualcuno che non li merita. Ho sentito che uno di quei pezzi e` arrivato fino alla metropoli dove ora vive ed e` felice. Ha pure una famiglia mi han detto.

Poi andavamo a provarci gli occhiali da sole ed io ti chiedevo sempre di andare via.
In estate c'erano gli studenti che scendevano le colline e noi fermi agli ingorghi; ti abbracciavo mentre i semafori non funzionavano.
Milano era deserta ad agosto ma tu non lo sapevi che i pioppi sono terribili vicini.
Mi chiedevi dove siano andati tutti ed io non lo sapevo, volevo rispondere, ma anch'io non lo sapevo. Sono giovane, non so tutto. E quella sera sei stata tristissima sotto le coperte rannicchiata. Io stavo in balcone a fumare, aspettando che mi venissi a trovare.
Non l'hai fatto ma il giorno dopo mi hai svegliato. Volevi bere il caffe`, guardare la tv, fare la biancheria per poi uscire presto. Che avessi imparato ad amarmi nel sonno?
Mi chiedevi, nella piazza sotto casa, quale fosse la differenza tra la pietra e le statue. Bevevo un succo comprato proprio la` davanti; le statue hanno la forma di uomini. E allora, rispondevi, perche` non ne facciamo di piu`?
Cosa vuoi mai che ti possano raccontare?
Chissa`.
Compravo il giornale e lo portavo in giro senza leggerlo. Poi lo posavo sul tavole dei bar dove andavamo a sederci. L'aria era fresca e c'era tanto tempo. Gli autobus passavano e tu non parlavi. E quando le strade erano affollate ti perdevo di vista.
Alla fine mi hai chiesto di tornare col treno.
-Aspettami un attimo.
E su quella fredda banchina si faceva sera, il treno non arrivava e neppure tu.
Posto un inizio di racconto che ho scritto ieri sera, però da una idea di un genere di cui mi piace scrivere

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La cosa rossa volò per la stanza come un pallina da tennis, spargendo gocce di sangue un po ovunque sui muri della stanza. In effetti si trattava di un cuore umano appena estratto dal corpo dello sfortunato dottor Arold Rugens. Il modo in cui era stato estratto sarebbe definibile quanto meno bizzarro: non si notava l'utilizzo di strumenti eccetto per un raffinato cucchiaino da thè inglese, rigorosamente d'argento.
Fosse stato di ferro, di acciaio o di duranio, non avrebbe sortito lo stesso effetto.
Il dottor Rugens era infatti un lupo mannaro. Un licantropo che seguiva le più antiche e rigorose tradizioni della razza. Nella forma umana portava una scura e ispida barba riccioluta, capelli lunghi e abiti trasandati ma nella forma lupesca girava nudo, sbranava e mangiava quel che di vivo gli capitava a tiro di zampa, urinava dove gli pareva e con gusto. Insomma faceva quella che per un licantropo è una gran bella vita.
Non se ne era mai lamentato. Tutti quei racconti, quelle tradizioni popolari e quei maledetti film di hollywood che definivano la licantropia una maledizione del demonio lo avevano messo in difficoltà talune volte ma poi regolarmente dopo avere passato la notte seduto su un masso nel centro della foresta a ululare alle stelle, a chiedersi se esistesse un Dio per un licantropo affamato, se ne tornava a casa con la convinzione che una bistecca di carne sanguinolenta è ricca di proteine, fa bene all'organismo ed è pure buona.
Si era iscritto alle più radicali associazioni di ambientalisti, aveva lottato contro i cacciatori di cuccioli di foche canadesi e ne aveva oltremodo apprezzato la carne magra. Era stato oratore in alcuni convegni sul diritto della natura di difendersi dall'uomo e sulla improrogabile necessità di giustificare tutte e sole le uccisioni a scopo nutritivo. Era molto orgoglioso di questo aspetto della sua vita, si sentiva un paladino della natura, un super eroe della foresta.
Ma poi era arrivata Dolly, la cagnetta della vicina di casa.


Lavorare forse è una parola grossa. Sono all'inizio degli esordi. Un editor vero è solitamente più competente e sicuramente più cattivo.

Basta non dermordere.

Mi pare efficace. Più di questo non mi sento di dire, perché è più poesia che racconto e la poesia è un genere in cui non sono assolutamente competente.

Raffina la parte iniziale, che necessita di una forma un po'più pulita. Sei leggermete a rischio spiegone, ma dipende dal tono che darai al racconto e, generalmente, a come si evolverà la vicenda. Questo non posso dirlo senza avere altri elementi. Vedi tu se spiegare subito la natura del protagonista aggiunge qualcosa al racconto oppure no: non è sempre necessario capire tutto quanto al volo. A volte, ma dipende da che genere di racconto scrivi, può essere meglio rivelare la verità poco a poco.
Così com'è posso solo dire che riesce a incuriosire. Vedrei volentieri il resto, se ti va: per ora gli elementi sono pochi per dare un giudizio serio.
Io ho già dato di là .

Entro l'estate appariranno altri testi brevi su questi canali per la gioia di Elric . 80 pagine A4 l'uno e 220 circa l'altro .