Si prega di non grattare

  • Giorno tre

La mattina del giorno tre è iniziata grossomodo come le altre mattine: timbrando il cartellino all’ingresso della sede. Per me, almeno. Ci sono diversi colleghi che timbrano il cartellino nell’altra sede e poi si incamminano in questa e, capita!, lungo la via magari vengono colpiti da un languorino - succede! - che li spinge ad entrare nel primo bar - che ci vuoi fare? - per agguantare un cornetto e se poi - che coincidenza! - c’è lì un altro collega, fa brutto non fermarsi cinque minuti a chiacchierare, no? Team building. Al bar. Sempre meglio che alla macchinetta, anche perché sta sulle scale che non sono a norma. In pratica di scale ora ne abbiamo due: una inibita per amianto e l’altra non a norma. Cosa preferisci? Scivolare sui gradini di marmo fascista privi di protezione o inalare polveri tossiche? È una scelta difficile.
Dicevo, la mattinata inizia timbrando il cartellino e poi attendendo che qualcuno apra la porta. Sì, perché il mio nuovo ufficio presidenziale sta al termine di un corridoio di un altro piano e visto che il pubblico penetra a tutte le ore del giorno e della notte - siamo dei miserabili senza corpo di guardia e vigilanza - si tengono le porte chiuse. Se hai le chiavi entri, se non le hai bussi e nessuno ti aprirà dal momento che sarai scambiato per un utente rompicoglioni di quelli che già la mattina alle 7 “passavo di qui, non è che siete aperti? Mi serve solo un’informazione.”
Attendo e per ammazzare il tempo faccio un elenco di tutti i motivi per cui detesto questo lavoro. Ce ne sono diversi, per cui non rischio di annoiarmi.
Ero tra il “non mi pagano abbasanza per rischiare la vita” e il “la capa pensa che io sia un rompicoglioni perché mi rifiuto di andare a prendere il computer” quando inaspettatamente una collega con le chiavi passa e mi apre. Sgattaiolo dentro e, per non passare per musone, saluto tutti con un bel sorrisone accogliente e ampi gesti delle mani. Forse un pò troppo, penso.
Faccio tutto il corridoio e mi sistemo alla poltrona dirigenziale (di quelle che si reclinano all’indietro per riposare le stanche membra dei dirigenti quando sono stufi di sentir parlare di problemi che nessuno vuole e può risolvere e decidono di staccare e guardare il mondo con un’angolazione diversa) e accendo il computer che fu della Vice Grande Capa. Sì, perché l’ufficio venne sistemato in fretta e furia per lei, che ci mise i suoi libri, un paio di targhe d’argento di qualche manifestazione degli anni 2010 e poi andò in sede, dove non c’era l’amianto.
“Devo pur fare qualcosa oppure mi addormento”, penso. Ed effettivamente la sedia reclinabile o il divano a due piazze erano invitanti. Prima però mi faccio un paio di selfie e li mando ad amici e parenti. Son lì che mi fotografo in varie pose quando entra la capa.
“Mi stavo ambientando”, spiego. Lei sorride e annuisce “Le abbiamo dato l’ufficio migliore”.
Taglio i convenenvoli facendo un elenco di cose che non vanno.
“Il mio account non è sotto dominio, quindi non ho i miei files su questo pc. Posso loggare ma non ho niente per lavorare. Il telefono non funziona. Il mio telefono sotto sta squillando sicuramente.”
“possiamo dire al cenralino di dirottare le chiamate”
Io sono indeciso se ripetere: “il telefono non funziona” o semplicemente indicarle il telefono staccato. Provo la seconda.
“Ma è staccato”, dice lei. Dovevo aspettarmelo.
“E’ staccato perché nel patch panel hanno configurato le linee telefoniche in altro modo. Posso attaccarlo, non andrebbe comunque”
Lei sbatte gli occhi. Non ha capito.
La porto in tour.
“Ecco vede? Questo è il patch panel. Se mi autorizza, io posso metterci le mani, ma teoricamente devono venire i tecnici dell’ente centrale. L’ultima volta mi hanno cazziato”.
“No no no no no! Non la autorizzo”
Sorrido amaro. Chissà perché, ma mi aspettavo che l’avrebbe detto.
Allora siamo senza telefono per ora.
“Domani riceviamo il pubblico”, le ricordo. “E non abbiamo accesso all’archivio e non abbiamo uno spazio dove riceverli”.
“si, lo so. Ora vado in ufficio perché sono arrivata da mezz’ora e mi ha già posto un sacco di problemi”
Quasi m’è dispiaciuto. Allora ho voluto fare quello ottimista, da bicchiere mezzo pieno.
“Però le ho dato anche una soluzione.”
Lei mi guarda storto. Non sa di cosa stia parlando. Indico il patch panel.
“no! Non lo tocchi!”
Faccio spallucce.
Torno nella suite e inizio a sistemarmi il pc, mi creo i vari collegamenti, attacco la stampante di rete. Cose così.
Tanto in realtà non ho nulla da fare davvero. Però posso tenermi occupato a far finta di sistemare per un domani.
Mi annoio, però, quindi finisco per dare una mano ai colleghi che vogliono installare la macchina del caffè a capsule e stanno cercando un posto dove metterla.
“Ma quanto è grande?”, chiedo. Poi mi sorge un dubbio: “Ma dove è?”
Le colleghe indicano in basso.
“Sotto? Ma non possiamo…”
Il dualismo dello statale in un esempio pratico. Di fronte a un divieto o a un obbligo, lo statale è ligio e inflessibile oppure.. dipende. Il caffè è una delle discriminanti, ma ce ne sono anche altre. Tipo le piante della collega. “non le potevo lasciare morire”, spiega costernata e si vede che è un dilemma morale per lei.
Poi c’è l’altra collega che ha prelevato i pelouche (“sai mai che me li buttano”) o quello che è passato per la via corta, nel corridoio inibito, perché così si fa prima e poi ha lasciato la porta aperta, così gli altri fanno prima.
Il Dott. X si materializza e ci conferisce mascherine FFP2 e guanti, poi scompare in una nuvola di zolfo e quindi posso andare nel mio vecchio ufficio - chi lo sa se ci tornerò mai - e mettere almeno qualche file sulla chiavetta.
Entro e sento gente che sposta mobili, gente che prende pratiche, gente che si è chiusa nell’ufficio per fumare in santa pace. Siamo pochi perché il turnover ci ha massacrati, ma in quel momento gli uffici avevano una insolita attività. Superiore alla norma, direi, come se il divieto avesse fatto venire in mente a tutti di avere da qualche parte una pratica trascurata che forse è meglio fare prima che diventi un problema, un oggetto da recuperare, un ultimo sguardo da dare al panorama dalla finestra, un ultimo saluto al disegno del nipotino appeso al muro col nastro adesivo.
Esclamo “ma non dovremmo!” e mi rendo conto che ho scelto il momento peggiore. Sta passando B e si sa, con B non si scherza.
B è come me ieri, ma sempre. A volte anche peggio.
Il tono è quello di S, ma un paio di ottave più alto: “Siamo stati qui 20 anni, che differenza fa un giorno in più?”
E la domanda ha anche un senso. Tanto ormai. Però a ragionar così, allora avremmo potuto fare anche 30 anni, o quaranta. Che cosa cambia? Potremmo portare su i computer, spostare pratiche. Perchè no?
La mia è una posizione di principio: non si può, quindi non si fa. Ma che senso ha di fronte al fatto che tanto siamo stati presi per il naso? Le pratiche si ammucchiano e tanto poi toccherà a noi sistemarle. La gente si arrabbierà e saremo noi le persone che raccoglieranno gli insulti. Ci metteranno tante stelline (ma singole) su Google e recensioni acide e poi vagli a spiegare che c’è l’amianto. Che ci costa spostare un computer? L’avrei potuto fare. Sarebbe stato meno faticoso che non spostarlo, anche perché mi avrebbe messo in buona luce, quando invece rifiutandomi di farlo mi sono messo in mostra, ma negativamente. Il punto è che la loro scelta di spostar roba, prendere pratiche, fregarsene dei divieti, è solo a nostro danno. Ci indebolisce perché poi è più difficile dire di no, se quasi tutti hanno detto di si, se non con le parole, con i fatti.
Scrollo le spalle. Ci sono abituato. Ho fatto l’RSU e poi, per non farmi rileggere, mi sono ricandidato dicendo a tutti - segretamente - di non votarmi “Tutti gli altri già votano me, di te mi posso fidare, vota A così riusciamo ad avere due RSU della nostra sigla”, ho spiegato. E ha funzionato. Cioè, non del tutto. Tutti hanno votato A tranne uno, dando così l’impressione che io abbia avuto un solo voto: il mio.
Esco e me ne torno alla suite presidenziale. Lungo la via mi ferma il responsabile informatico e si va sotto, allo sportello dell’altro ufficio, quello che ci ospita quasi tutti perché è l’unico non interessato dall’evacuazione.
Ci sono X sportelli per il pubblico e, mi dicono, domani X-1 sono occupati.
“Bene, ma come facciamo con le code?”
“Ah non c’è problema. Noi riceviamo solo su appunamento.”
“Ma noi no”, rispondo. “Arriveranno e andranno al solito corridoio dove troveranno la porta chiusa”.
“metti un cartello che li fa scendere qui”
“Bene, ma come facciamo con le code?”, ripeto, sperando che lei non mi risponda che loro ricevono solo su appuntamento.
Mi guarda con occhi vacui.
Io, che in quello sportello ci avevo lavorato tanti anni prima, mi ricordo che c’è un totem per i biglietti.
Lo cerco e c’è ancora. E’ acceso!
Con due falcate son lì e il tecnico informatico è dietro di me.
“Non va”, mi dice.
“Ma possiamo…”
“No, non va. Il contratto è scaduto e non lo abbiamo rinnovato. Si collega al server, non si autentica e quindi non va.”
Mi guardo attorno. Non va il totem e quindi non va nemmeno il pannello digitale sulla parete. Non va un cazzo perché non hanno pagato il contratto.
Sospiro.
“Sopra abbiamo un rotolo di numerini”, propone la collega di prima.
“Si ma come li chiamiamo?”, chiedo.
Nessuno risponde.
Torno su, cerco di lavorare un pò.
A un certo punto una collega mi porta un tizio a cui non avrei dato due lire. Ma si vedeva che era avvocato. Sarà qualche tratto somatico, una strana luce negli occhi, la promessa di romperti i coglioni più degli altri, comunque era avvocato e lo sentivo come un tremolio nella forza.
“Ecco, il signore vorrebbe parlare di un ricorso”
“Siamo chiusi al pubblico”, anticipo.
“Si, ma visto che era qui.”
Tra me e me penso “visto che era qui, potevi non aprirli la cazzo di porta.”
“Che problema ha?”
Lui si attiva tipo spaventapasseri che improvvisamente prende vita e solleva le spalle cadenti.
“Un ricorso”
Sospiro.
“Si, ok, ma che ricorso?”
“Un ricorso gerarchico.”
“VA BENE, ma per cosa?”
inizia uno spiegone su sentenze della cassazione, eccezioni della corte costituzionale, circolari e decreti attuativi. A me sta già venendo il mal di testa anche perché non mi ha ancora detto quale sia il problema oltre al fatto che mi sta spiegando come lui vuole uscirne (cosa che a me non interessa per nulla, tra l’altro).
“Non ho nemmeno capito di cosa stiamo parlando. Comunque oggi non riceviamo il pubblico; se mi sa dire che ufficio pensa di dover contattare le posso dire gli orari.”
Lui si gioca la carta segreta
“Eh ma sono giorni che chiamo e non rispondete.”
Normalmente avrei sorvolato. Inutile accettare la polemica. Però oggi è diverso. Mi guardo attorno e c’è gente che tira cavi, gente che sposta scrivanie, gente che sposta pratiche. Si vede che c’è una migrazione in atto.
“Senta, abbiamo metà palazzo evacuata e inagibile. Le sue telefonate probabilmente squillano in uffici nei quali abbiamo il divieto di andare. C’è un bel problema qui.”
Lui capisce letteralmente un cazzo.
“Eh, ma una Pubblica Amministrazione non può…”
Mi sono concentrato sul rumore della risacca, il canto dei gabbiani, la risata di mio figlio, la colonna sonora della Pantera Rosa e giuro, non ho sentito il resto. Quando ha finito ho ripetuto: L’ufficio oggi è chiuso. Se mi dice un nome posso provare a metterla in contatto.
“Mi sembra di aver parlato con la Sig.ra H”.
Mi gratto il mento.
“H, dice? se non erro l’avevano messa qui.. è una delle traslocate”
Apro la porta e ci trovo J.
“Scusa, ma non doveva essere qui H?”
“No, non so dove sia”
Guardo l’avvocato. “Non so dove sia. Doveva essere qui.”
“Ma è inconcepibile! Questa è una buffonata”
Si, concordo. Ma non nei termini che intende lui. S’è fatta una certa ora. Devo sbolognarlo anche perché mi sta innervosendo.
“Torni domani che per allora sapremo dove è H. E comunque domani è giorno di ricevimento.”
Lui brontola, ma io lo sento poco. Grazie all’effetto doppler le sue rimostranze diventano indistinguibili. Basta andare via molto veloci.
Torno nella suite presidenziale e cerco di rimanerci. Possibilmente a porta chiusa, fino alla fine del mio turno di lavoro.
Qualche ora più tardi arriva un tizio alla porta del mio ufficio.
“sono l’idraulico”, si presenta. Non ha ne lo sturacessi ne una chiave inglese, non ha i baffi o il cappello con scritto M o L, né la salopette rossa su maglietta blu. Sono molto deluso.
“Per il bango? Quella porta”
Al che mi viene in mente che non ho ammirato il capolavoro dei colleghi.
Mi metto mascherina e guanti e scendo cercando le stanze inferiori che stanno in corridoio interdetto. Non devo faticare perché basta seguire la scia di secchi, spugne, pavimenti in vinil amianto macchiati di acqua percolata dai soffitti.
Arrivo alla stanza che era del personale per mangiare e prendere il caffè. Ora capisco perché hanno smontato la macchinetta.
Sul soffitto c’è una macchia scura che sembra ancora umida. Sul pavimento in un angolo un tappeto fradicio spostato a lato.
La desolazione.
Torno in ufficio e all’ora giusta timbro il cartellino sperando in un cataclisma superiore a un cesso intasato. Qualche cosa di definitivo. Spero di tornare e trovare un cratere al posto del palazzo. nessuna vittima, mi raccomando. Solo macerie e la possibilità di ricominciare una vita nuova altrove, ma non li.

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