la problematica politica del nostro tempo



Questi esempi mi sembrano fuorvianti ma magari mi sbaglio: secondo me forzano ingenuamente il senso dell'uguaglianza nel contesto. Anche non fossero errati però non mi fanno capire il punto. Non potresti semplicemente dire che l'uguaglianza riguarda chi può partecipare in linea di principio a un dibattito politico? Perché altrimenti parliamo di uguaglianza delle piante, o dei sassi, all'uomo: diamo ai sassi il diritto di non essere rotti, o il diritto di voto ai bambini.
Spiego meglio la mia posizione.

La questione destra-sinistra non è solo una questione di razionalità o riflessività. Infatti sono esistiti, ed esistono, un sacco di persone razionali, riflessive etc di destra.

Il punto è che la destra, solitamente, si pone in posizioni conservatrici o tradizionaliste, quindi un pensiero di destra è possibile anche in assenza di elaborazione di risposte nuove all'agire politico e allo stare insieme comunitario. Questo non significa affatto che la persona di destra sia iriflessiva, irrazionale etc semplicemente che, solitamente, ritiene che le risposte fondamentali, in qualche misura, siano già state trovate e, in base ai gradi di sofisticazione, risiedano nell'attuale asset socio-politico, in valori tradizionali e consolidati, in un certo ideale religioso etc.
Come giustamente dice Galahad, la destra si basa su una concezione temporale ciclica (anche se spesso in chiave distorta, in quanto si pone come riproposizione).

La sinistra, invece, per esistere, richiede uno sforzo in più. Richiede una sorta di creazione continua e un'apertura a trovare soluzioni ed idee completamente innovative che la destra, solitamente, non richiede. Con questo non significa che essa sia automaticamente superiore, di migliore qualità o altro. Oppure che i suoi elettori e sostenitori automaticamente abbiano una marcia in più, siano più razionali o consapevoli: la pressione sociale, il conformismo e tutte le spinte negative che Pierre evidenza nell'esperimento che cita esistono tanto da una parte quanto dall'altra. Significa che da un lato la sx è più agile, in quanto deve continuamente reinventare il suo radicamento nella situazione presente, sia a un livello di idee che di proposte concrete (cosa evidente se si confronta come nei decenni si siano evolute le proposte dx-sx) ma dall'altro è estremamente più fragile, perchè se manca la partecipazione e lo spazio vitale di libertà all'interno della società, che è necessario per creare e trovare appoggio a concezioni continuamente nuove, sparisce anche la sinistra classica. Se infatti può esserci una dx che sostenga la conservazione dello status quo, non può succedere lo stesso a sx (almeno oggi, per motivi evidenti).

Non è un caso che con la graduale erosione dello spazio dato alla cultura umanistica la proposta politica della sx si sia spostata sempre più verso la dx, mentre la dx è rimasta sostanzialmente sulle stesse posizioni.


sarebbe interessante sapere dove si nascondono

scusate non ho resistito

vabbè tanto non è che ultimamente a sinistra il livello sia molto più alto


Io direi: ognuno ha i suoi difetti
Io condivio il pensiero dei wu ming:

"Tagliando con l’accetta, «di sinistra» è chi pensa che la società sia costitutivamente divisa, perché al suo interno giocano sempre interessi contrapposti, prodotti da contraddizioni intrinseche. Ci sono i ricchi e i poveri, gli sfruttatori e gli sfruttati, gli uomini e le donne. Da questa premessa generale, che vale per tutta la sinistra, discendono tante visioni macrostrategiche, anche molto lontane tra loro: socialdemocratica, comunista, anarchica, ma tutte si basano sulla convinzione che la società sia in partenza divisa e diseguale e che le cause della diseguaglianza siano profonde e, soprattutto, endogene.

«Di destra», invece, è chi pensa che la nazione sarebbe – e un tempo era – unita, armoniosa, concorde, e se non lo è (più) la colpa è di forze estranee, intrusi, nemici che si sono infilati e confusi in mezzo a noi e ora vanno ri-isolati e, se possibile, espulsi, così la comunità tornerà unita. Tutte le destre partono da questa premessa, che può essere ritrovata a monte di discorsi e movimenti in apparenza molto diversi, da Breivik al Tea Party, dalla Lega Nord ai Tory inglesi, da Casapound agli «anarcocapitalisti» alla Ayn Rand. Per capire se un movimento è di destra o di sinistra, basta vedere come descrive la provenienza dei nemici. Invariabilmente, i nemici vengono «da fuori», o almeno vengono da fuori le idee dei nemici."

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=11977
Come sempre, mi trovo d'accordo con l'analisi del collettivo Wu Ming. Ma in questa interpretazione, il Movimento 5 Stelle non può essere (come invece dovrebbe) annoverato nella destra. Nel loro caso, i nemici non vengono mai da fuori. I nemici sono in un "dentro" (ad es., nel Parlamento, nei mass-media, ecc.) che non li vede coinvolti (evidente e paradossale distorsione della realtà) e cui ambiscono. Talvolta poi i nemici si trovano all'interno Movimento 5 Stelle stesso: tutti gli epurati sono stati riconosciuti come nemici e sbattuti fuori per il "bene" della collettività.


Non importa se provengono effettivamente da "dentro" o "fuori", l'importante è come vengono percepiti dal movimento

Per il grillino i "politici" sono "altro" che si è imposto, a volte grazie a forze esterne("L'Europa delle banche") , su "noi povera gente che produce e si stava così bene prima quando con 50mila lire riempivi il carrello della spesa e ora non arrivi a fine settimana"

E' un pò come nel Maccartismo....i socialisti e i comunisti americani erano nemici "interni"che venivano percepiti come" esterni"( al soldo dell'Unione Sovietica contro i valori americani e dell'American Way of Life, a volte cosa vera tra l'altro ma ovviamente grossa semplificazione della realtà)


In realtà è semplicemente l'ignoranza dei meccanismi economici.
Non esiste un economista che non possa intuire quanto la libertà economica sia profondamente collegata alla libertà umana, e che non possa esistere l'una senza l'altra, o meglio l'una sia manifestazione dell'altra.
Poi se confrontiamo un freshwater con un saltwater potremmo avere divergenze su quanto funzioni il moltiplicatore keynesiano, sul periodo di aggiustamento della domanda aggregata, etc. ma certe evidenze sono chiare e lampanti a chiunque abbia affrontato certi argomenti.

Poi come già qualcuno ha notato che si possa ricondurre la visione del mondo a due poli o schieramenti e quindi ad un unica dimensione è totalmente ridicolo.
Io ho sempre pensato che la destra e la sinistra siano dei fari per le menti smarrite che si insinuano come fossero delle fedi cieche per difendersi ad ogni tipo di analisi critica.
Insomma per molti dire "sono di sinistra/destra" è come dire "credo in dio" e su quello si plasma la propria visione del mondo e l'interpretazione di ogni stimolo esterno.



ni droit ni gauche.
certo marina, certo


Come proposizione è antinomica; tu postuli una primazia dei meccanismi economici nella comprensione del quadro politico, ma poi fai derivare la libertà economica dalla libertà "umana" - o comunque affermi l'interdipendenza dei due ambiti - ossia da una "certa idea" della libertà umana: c'est a dire, da un certo tipo di costituzione (formale e materiale) dello Stato, incardinata su certi principi e tale da garantire determinati diritti e libertà.
Ergo, ne consegue che il modo di intendere le relazioni economiche in quel corpo sociale dipende strettamente dal modo in cui si declinano e normano i rapporti politici e sociali entro quella stessa società; e che il primato rimane pertanto alla filosofia politica che permea la società, di cui il pensiero economico costituisce soltanto un'espressione (bella scoperta, della serie). Non per nulla, al cambiamento del paradigma politico dominante mutano anche i paradigmi economici accettati come tali, ma spero che queste siano delle ovvietà.
E qui si torna, in sostanza, a quel che già affermava Polanyi quando parlava, per le società antiche, di economia "incastrata": ossia, di un pensiero economico che non è ancora tale, privo com'è di concetti per essere declinato, e costretto pertanto a mutuare - potremmo dire - la sua grammatica dalla religione, dalla politica, etc. in cui si incastra, costituendone componente inscindibile.
Ma quel che Polanyi sosteneva per le società arcaiche può valere ancora - ed effettualmente vale - mutatis mutandis, per le società moderne. L'economia ora dispone di una grammatica propria, tale da potersi strutturare in pensiero economico; ma la sintassi, ossia come i suoi concetti ed i suoi strumenti sono organizzati per agire nel e sul corpo sociale, rimane dominio della politica: magari politica che abusa tanto più della grammatica economica, prendendola a prestito, quanto più aspira a presentarsi come tecnocratica, ma nondimeno politica.

Riusciresti a rispiegarmi questo punto?
Intendevo sottolineare che il pensiero economico, oramai, gode dei suoi propri strumenti di analisi, di una propria terminologia tecnica che ne sostiene un rivendicato statuto di scientificità (se a torto o a ragione è questione che esula dal problema qui in esame): questa è la grammatica del pensiero economico. La sintassi, se vogliamo, riguarda quali di tali strumenti sono scelti e come essi sono organizzati non in vista della produzione del puro pensiero teoretico, ma di ricette applicabili ad uno specifico contesto politico-sociale.
E quali, di tali strumenti, sono selezionati, e come essi sono organizzati ed applicati, mi pare evidente sia dominio della politica; o, per meglio dire, del pensiero politico che permea quel dato contesto politico-sociale.
Insomma, giusto per fare un esempio stupido: nulla osta che, al livello accademico, si sviluppi in Gran Bretagna una feconda corrente di economisti di orientamento marxista favorevoli ad una qualche forma di dirigismo economico. Ma è evidente che in uno stato a tradizionale vocazione liberale come quello britannico, finiscano per non avere alcuno spazio per tradurre in atto le proprie idee non potendo attingere ad alcuna forma di "patronage" (cattedre universitarie, think tank, ruoli di responsabilità nella burocrazia e nell'amministrazione): ciò non significa, ovviamente, che il panorama degli studi economici inglesi sia a corto di feconde idee in materia, o di validi economisti di orientamento marxista (ossia, per tornare alla metafora di cui sopra, non manca la grammatica).
Semplicemente è l'ideologia dominante dello Stato, quella "certa idea" con cui intendere i rapporti politico-sociali di cui le dinamiche economiche sono una componente integrante (la proprietà privata, ad esempio, è un valore ideale su cui si incardina una specifica costruzione sociale, prima ancora d'essere un asset economico: tant'è vero che la proprietà privata preesiste al capitalismo) ad organizzare tale grammatica alla luce di una propria sintassi, decidendo quali correnti del pensiero economico eleggere a scuola di riferimento sui cui orientamenti impostare una "politica" - trovo che il termine non sia casuale - economica.


Non mi e' chiaro il meccanismo.
Stai dicendo che la politica sceglie tra le possibili teorie economiche quali attuare? O stai dicendo che la politica sceglie la proria via e la teoria economica si adegua?
Sono stato giusto ieri a una conferenza / dibattito a presentazione di un libro che tratta proprio queste tematiche in relazione alla figura del lavoro salariato che mi ha dato vari spunti e ha confermato parecchie mie idee ed intuizioni.

In sintesi, la metterei così: così come non esiste una razionalità assoluta, non esiste nemmeno una teoria economica assoluta.

Quello che viviamo oggi è, in realtà, più che il dominio del pensiero economico su quello politico (mentre l'economia E' politica, quindi in realtà il rapporto gerarchico è invertito, nel senso che le decisioni macroeconomiche rientrano nel quadro politico e solo in secondo luogo sono espressione di una data teoria economica, che non è scissa dalla realtà), il dominio di UN pensiero economico, quello neoclassico / neoliberale, frutto sia della caduta dell'URSS e quindi del venire meno di un modello alternativo applicato, sia prodotto da posizioni ed idee che si sono sviluppate nei secoli.

La principale di queste idee è quella del lavoro salariato e in particolare del lavoro come merce: il lavoro è o non è una merce? In sintesi, equiparare il lavoro a merce significa anche portare a pratiche disumanizzanti oltre che a inciampare su punti fondamentali, infatti anche Marx ha responsabilità per l'attuale assetto, in quanto riteneva valida l'equazione lavoro = merce. Altri economisti, invece, l'hanno rifiutata, come Keynes che sosteneva che il mercato del lavoro non si comportasse come quello dele merci e quindi fosse impossibile equiparare i due, o altri che hanno invece sostenuto che il lavoro sia un affitto. Cosa che produce continue tensioni, ma che sono salutari ed ineliminabili, infatti altro problema di oggi è lo sbilanciamento del potere unilaterale e quindi l'indebolirsi della tensione fra il lavoratore salariato e il datore di lavoro, sia a un livello sistemico che individuale.

Poi c'è il problema della frammentazione del sapere e dell'iperspecializzazione totalizzante a cui questo conduce: l'economista all'inizio non esisteva come figura pura, ma era inserito in un tessuto sia sociale che culturale che poneva anche istanze di tipo etico, morale etc, cosa che nel tempo è sparita: l'ultimo economista di questo stampo è stato Mill. Sparendo quest'humus però ha portato molti economisti a una pretesa assolutista (che ha portato anche a un impoverimento della scienza economica stessa): l'economia va esaminata solo autoreferenzialmente e racchiude la realtà (come fa anche dino qui, ad es), eliminando quindi progressivamente, complice anche il riduzionismo tecnico/efficentistico, il quadro politico dalle scelte economiche, col paradosso però che le scelte economiche sono politiche. Quindi è impossibile uscire da tutto questo pasticcio senza recuperare un respiro più ampio e un quadro politico.


Sono possibili ambedue le eventualità, dipende dal tipo di Stato che si prende in considerazione. La seconda opzione credo che grosso modo si attagli più al mondo occidentale (specialmente, direi, dagli anni '80 ad oggi), anche se descrive solamente una metà del fenomeno: non è soltanto l'economia ad adeguare la propria - diciamo - "offerta intellettuale" alle condizioni socio-politiche dello Stato, a quel ch'è considerato politicamente accettabile, dedicandosi prevalentemente a quegli studi teorici che hanno concrete chances d'essere recepiti e tradotti in politiche. Essa, a sua volta, condizionata a dedicarsi ad uno specifico filone di pensiero, quello che rispecchia l'ideologia dello Stato ed i grandi orientamenti dell'opinione pubblica, tende a sclerotizzarsi in ortodossia economica, capace di offrire allo Stato solamente soluzioni di un certo tipo.

Quindi non c'e' un primato di uno rispetto l'altro? Politica ed economia si influenzano a vicenda in un feedback loop?

Dalla mia posso dirti che sicuramente la politica influenza il pensiero economico. I dipartimenti hanno bisogno di fondi. Per ottenere fondi i professori devono vincere i "grants". Ed i grants di solito vengono da associazioni che vogliono un certo tipo di risultato.
Ora, posso immaginare la teoria economica influenzare la politica (Keynes crea le banche centrali moderne). Pero' secondo me e' una forza debole. L'austerita' imposta in Europa non ha basi credibili in economia. Ci si appella alla morale ("hanno speso troppo, ora pagheranno"), a strane metafore ("bisogna mettere lo stato a dieta, stringere la cintura") o a pensieri esclusivamente politici ("se la grecia non viene punita, il loro governo non imparera' mai").
La politica sembra muoversi spesso di sua sponte.


Non e' cosi'. Premesso che chiedersi "cosa dice veramente Keynes" porta inevitabilmente ad esegesi di tipo Talmudiche.
L'apporto di Keynes non e' la demercificazione del lavoro, ma l'idea che una crisi strutturale della domanda e' possibile e non risolvibile riducendo i salari.
Senza entrare nel merito del resto del discorso che magari e' corretto.


Se ti interessa c'e' sempre "Le conseguenze della retorica economica" di McCloskey e compagni.


Sì, il feedback loop mi pare una descrizione corretta della dinamica, ma personalmente tenderei comunque a riconoscere una primazia della politica poiché è sempre questa a stabilire, per così dire, le regole del gioco cui il pensiero economico è chiamato in prima battuta ad adeguarsi. Poi, come illustravo prima, su questa dinamica si innesta il feedback loop di cui parlavi: il pensiero economico, mutato in ortodossia economica per venire incontro ai desiderata del pensiero politico dominante, finisce per poter offrire a quest'ultimo soltanto soluzioni di un certo segno, anche quando questo stesso attraversa fasi di crisi ed avrebbe piuttosto bisogno di feedback innovativi, di soluzioni economiche, per così dire, groundbreaking.



Indeed, perfettamente d'accordo; proprio in tal senso, prima, parlavo di patronage: inutile dire che scuole economiche e teorici che non rispecchino gli orientamenti politici mainstream difficilmente avranno accesso ad importanti think tank, a finanziamenti da parte di attori privati, a cattedre nelle università che contano.
Un buon esempio storico è quello rappresentato dalla generazione di economisti americani di orientamento marxista formatisi a cavallo degli anni '60, come Wolff; non voglio entrare nel merito della bontà delle loro idee, ma semplicemente puntare l'attenzione sul fatto che, dopo essersi formati in atenei prestigiosi come Harvard o Yale, al momento di fare il loro ingresso nel circuito dell'insegnamento si trovarono sbarrate le porte di queste stesse università, dovendosi accontentare di impieghi presso atenei considerati di secondo rango.
In tal senso è evidente che la politica, per adoperare una categorizzazione molto generica, non abbia deciso nulla in prima persona: non ha ostracizzato Wolff e i suoi colleghi, non si è espressa pubblicamente e chiaramente per bocciare le loro ricette: ha semplicemente creato le condizioni perché il loro pensiero venisse percepito come eterodosso e quindi marginalizzato.




Perfettamente d'accordo anche su questo, quantunque ritenga che le proposizioni politiche, che in questo momento stanno mascherando interventi privi di basi economiche credibili, non per questo siano del tutto destituite di una loro precisa ragion d'essere di natura economica: ad esempio colpevolizzare, con quelle strane categorizzazioni "morali" su cui giustamente puntavi il dito, dei fantomatici stati canaglia, solo per mascherare il fatto che l'unione economica europea, così come si configura oggi, è un sistema di cui si avvantaggia grandemente l'egemone economia tedesca.

Siccome siamo d'accordo su tutto, permettimi di fare l'avvocato del diavolo.

La germania ha vantaggi reali. Produttivita' dei lavoratori, quantita' di capitale, qualita' di infrastrutture, prossimita' ai lavoratori dell'est europa.
Puo' veramente esistere un unione europea che non avvantaggi l'egemonia tedesca? Sarebbe un unione che "punisce" i tedeschi per essere "migliori". Le societa' moderne gia' ridistribuiscono dai ceti piu' ricchi e produttivi a quelli piu' poveri, ma puo' mai esistere un'unione politica che ridistribuisce da stati piu' ricchi a stati piu' poveri?


Indubbiamente no; non può esistere Unione Europea che non avvantaggi Berlino, trasformando l'Europa continentale in un mercato a guida ed egemonia tedesche: con quel che ovviamente ne consegue, visto che l'egemonia economica si traduce sempre in egemonia politica. In tal senso trovo ogni volta molto istruttivo richiamare l'attenzione sulle tesi portate, in tempi non sospetti (era il 1998), da Ferguson nel suo The Pity of War: quel che oggi s'è costruito con mezzi pacifici somiglia pericolosamente a quel che già nel 1914 la Germania voleva costruire in punta di baionetta.

O per meglio dire, non può esistere Unione Europea che non avvantaggi la Germania se, ad esistere, è l'attuale conformazione dell'UE come di lassa confederazione di Stati: che, come (quasi) sempre accade in un sistema confederale, garantisce allo stato economicamente o militarmente più forte ampi spazi di manovra per affermarsi come stato egemone, adoperante la confederazione stessa quale strumento per il perseguimento della sua agenda. La soluzione al problema dell'egemonia tedesca non è pertanto necessariamente rappresentato dalla dissoluzione dell'UE; a spezzare l'automatismo unione --> egemonia tedesca potrebbe anche concorrere la trasformazione del sistema confederato in sistema federale propriamente detto: a quel punto si avrebbe quel meccanismo di redistruzione cui facevi cenno e molto di più. Ma sulle capacità di trasformare l'Unione Europa negli Stati Uniti d'Europa sono, comprensibilmente, del tutto scettico.