La morte

non trovo un emoticon adeguato ma mi sono scese le lacrime.

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A meno che uno non sia completamente partito di capoccia, o non sia estremamente stupido, appena si sente parlare di “cure palliative” e “hospice”, capisci anche se fino a quel momento il tuo cervello ha detto “nope!”.

E li scatta spesso qualcosa da cui non si torna più indietro.
Come detto, l’ho visto in mio padre.

L’ho visto in lacrime, lui che non piangeva mai, perlomeno non in pubblico.
L’ho visto piangere solo due volte nella vita: quando è morto mio nonno (suo babbo), e quando ha sentito la fine vicina.

Lui che con il medico delle palliative chiedeva, fingendo di buttarla a battuta: “quindi quanti mesi mi restano?”

Di una cosa sono sicuro, l’hanno riempito di farmaci, tra antidepressivi, ansiolitici e morfina, che hanno decisamente fatto collassare il suo cervello.

Quando l’ultimo infermiere del 118 che abbiamo chiamato ha visto l’elenco dei farmaci che prendeva, mi ha detto: “ci credo che ha visioni e vaneggia completamente con quello che prende!”

Per poi subito dopo aggiungere: “ma l’alternativa…qual è?”

Questo mi ha fatto riflettere tantissimo.
Fatto sta che dopo la sua morte, sono andato a salutare il medico delle palliative che l’aveva in cura, ed ho voluto specificare quanto debbano tenere in maggior considerazione la salute mentale dell’individuo, oltre alla cura dei sintomi.
Perché se ti parte la testa, soprattutto com’è successo a lui, cioè con la consapevolezza di perdere il controllo del suo cervello, è una sofferenza inaudita.

La consapevolezza della fine è un’angoscia orrenda.
E come altri che hanno scritto qui, quando mi parte il pensiero, non si dorme più.

Scusate se sto buttando fuori molti dettagli personali ma la cosa è molto molto fresca ancora, scrivo queste righe in lacrime ad ogni post.

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Se non lo conoscete, andate a cercarvi Mario Natangelo su FB o IG.
E’ il vignettista del fatto quotidiano, una persona di una sensibilità incredibile.
Un mese fa circa ha perso sua mamma per malattia e ha pubblicato una serie di tavole sul tema che definire capolavori è riduttivo.

Diceva il poeta,
La morte è insopportabile per chi non riesce a vivere
La morte è insopportabile per chi non deve vivere

figurati, lo so pure io per esperienza personale
mio padre è morto in un incidente stradale, di notte, da solo

ho passato gli anni della mia adolescenza a pensare a come siano stati i suoi ultimi momenti
e tutte le volte ovviamente ciaociao sonno, goodbye

Vado al cimitero da mio padre quando posso. Mia madre non riesce più a camminare tanto e mi chiede di andarci anche per lei. Metto dei fiori, ripenso a tanti ricordi. Alcuni non vorrei perderli ma il tempo è feroce. Penso a chi gli porterà i fiori dopo di me. Penso che non esisterei senza di lui. Poi lo saluto con un bacino e corro via immerso nei pensieri del quotidiano sentendomi sempre più in colpa per come scivola via il tempo nell’oblio. Quanto vorrei fosse vero che ci rivedremo un giorno. Quanto vorrei. Un solo brano non posso più ascoltare senza mettermi a lacrimare con il quale mio padre chiese di ballare a mia madre.

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per chi vuole ci dovrebbe essere l’eutanasia, vivere in certe condizioni non ha senso

Mia madre è sepolta in Sicilia e io sono in Belgio quindi non riesco a portarle spesso dei fiori.

E’ un pensiero stupido, ma penso che finché è nei miei ricordi ancora c’è. Ogni volta però passo davanti a lapidi di gente morta da decenni e penso che alla fine anche lei sarà dimenticata.

Tutto quello che era, tutto quello che ha fatto, sarà dimenticato.

La perdita della memoria è una delle cose che aggiunge sofferenza alla sofferenza.

A volte cerco di usare la morte come strumento. Mi spiego: quando c’è qualcosa che mi fa arrabbiare, quando c’è qualcosa che ritengo ingiusto, quando penso di avere fatto un errore, in quei casi penso che alla fine non ha senso comunque perché tutto si perderà nella polvere e in qualche modo la cosa mi tranquillizza, mi rasserena che comunque nulla sia davvero determinante nel grande schema delle cose.

La morte è una merda ma la cosa che distrugge davvero è la malattia.

Mi permetto di ipotizzare che se ne sia andato contento, con questa consapevolezza come sua forza.
Aggiungo che andar via così, a mia volta, non mi dispiacerebbe affatto.

Questa è arrivata dritta nei feels.

Eh. Questa mi dà modo di riflettere su un altro argomento relativo alla salute mentale dell’individuo.
Grazie.

Io mi sono reso conto da tanti anni, e ora ne ho 40 e niente è cambiato da prima, che non sono preparato. Non sono preparato ad affrontare l’idea di perdere i miei cari e ricaccio nel subconscio ogni pensiero che affiora al mio conscio e che anche solo sfiora l’argomento.

Ho avuto la fortuna di avere dei genitori ancora in buona salute, nonostante gli acciacchi della loro età, ma di aver perso i nonni molto presto. L’ultima, la nonna materna che mi ha cresciuto come un figlio e che ha vissuto con noi per oltre un decennio quando non era più del tutto autosufficiente, ormai nel lontano 2005.

La cosa che mi lascia più sgomento è che nel tempo mi sono reso conto di andare sempre meno frequentemente con la mente al pensiero di lei. Al momento ne ho ricordo pressoché sbiadito, se non per quei due o tre momenti iconici che mi si sono stampati nel cervello e che non dimenticherò mai. E che per assurdo sono ricordi insignificanti: lei che si affaccia alla mia camera, mi guarda e mi chiede “statu mal?”.

No, sono sempre stato benissimo Nonna. Mi manchi.

A fine 2020 mi sono affidato ad un terapista perché avevo un’ansia spropositata nei confronti del lavoro, del tipo che mi prendevano quasi attacchi di panico.

Mi ricordo che dissi al tizio “Vorrei riuscire a gestire bene le situazioni che non dipendono a me, se succede qualcosa tipo una brutta malattia ai miei cari voglio essere in grado di poter gestire la cosa.”

E quando si ammalò ero già in terapia per fortuna e avevo qualcuno con cui parlare.

Tutto questo per dire cosa? Per dire che la terapia aiuta, fatevi aiutare.

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Al posto di Napoleone c’è Macron

Off Topic:

sì ma, per rimanere in tema, Addio è là dove i thread vanno a morire, tipo cimitero degli elefanti, ultimamente :dunnasd: l’impressione è che nemmeno la gente lo apre più, quel subforum. che è un peccato, da un lato, dall’altro forse quello di cui si poteva parlare è stato affrontato e dal momento che di quello di cui non si può parlare si deve tacere, forse è meglio qualche cazzeggio tollerato o punito dipende da quanto cazzeggio, qui su agorà in un topic serio che un topic serio morto in culla su addio. jm2c

per il resto, si muore tutti, finchè siete vivi, vivete! (diceva mio nonno :*)

E’ cosi perche’ l’utenza e’ pigra e apre tutto su agora’ e i mod non possono stare 24/7 a spostare topic oltre al fatto che in vbulletin se spostavi un topic chi ci partecipava se l’era praticamente perso perche’ cambiare completamente URL.

Qui cambia solo un attributo che per l’utente non conta niente, l’URL viene definito a livello di topic, che stia qua o lo si sposti 20 volte, solo l’OP viene notificato dello spostamento perche’ non cambia niente a nessun’altro.

E’ comunque solo questione di tono. Su agora’ c’e’ sempre stato il “cazzeggio”. Addio (ma Real life in generale) c’e’ piu’ un aspettativa di discussione matura, chiaramente rispetto alla categoria.

Di fatto la malattia non è esterna al soggetto malato, ma è interna. Io non penso ci sia una battaglia contro la malattia da vincere o da perdere, credo che le dichiarazioni della Murgia fossero in questo senso (credo, perché ho sentito in radio un commento di analisi in tal senso ma l’intervista come scrivevo non l’ho letta)
Se mi ammalassi io penso che cercherei di attuare questo approccio, e cioè essere consapevole che parti di me non funzionano più adeguatamente, o meglio, che funzionano ancora meno adeguatamente di altre che già anno dopo anno funzionano sempre meno, supportate da elementi esterni, terapie e medicine, per ripristinarne il funzionamento o supportarlo.
E sperando che questi apporti esterni funzionino, ed appunto qua metto nell’equazione l’elemento Speranza, che è più importante dell’elemento Battaglia.
Un organismo malato di tumore è malato internamente, non lo vedo attaccato esternamente, e se è qualcosa di interno, cioè di parti che hanno sempre fatto parte di me e sono di me costituenti da quando esisto, dovrei combattere contro me stesso?
Vedere la malattia come elemento esterno da sconfiggere da l’idea di un essere umano invaso dall’esterno, infetto, profanato, ed un individuo profanato genera una forma di repulsione negli altri, non solo se si parla di tumore. Credo di non avere gli elementi intellettuali adatti a spiegarmi, forse il parallelo che mi viene in mente che esplicita quello che intendo è quello dell’appestato che viene scansato, scansato al netto del fatto che possa essere infettivo o meno, viene scansato perché qualcosa di esterno, di alieno appunto come si dice, gli è entrato dentro.
Se vedo la malattia, mia o di qualcun altro, come qualcosa che anch’essa fa parte dell’individuo, non c’è qualcosa di inspiegabile o oscuro che è penetrato dentro e da cui sento la naturale necessità di stare lontano.
Più che battaglia quindi speranza, che quegli elementi esterni, e quelli sono appunto esterni, mi supportino con efficacia.

E poi c’è la morte, da distinguere tra mia morte e morte di chi mi sta vicino, tra morte improvvisa e morte lenta. Ed il primo modo che ho di visionare la morte è tramite cosa questa comporta, e cioè una recisione.
Penso che la morte di un mio caro non porti solo alla fine di quella persona, ma recida anche una parte di me, e ciò che sembra inaccettabile è per prima cosa questa recisione, perché una parte di noi stessi, quella parte che era in un dato modo solo in funzione di quella persona, non può più esistere venendo a mancare quella persona che permetteva a questa parte di manifestarsi ed esistere.
Eppure, queste recisioni, sono costanti nel corso della nostra vita e non hanno necessariamente a che fare con la morte, e sono queste recisioni che, a posteriori, guardando alla nostra storia personale, identificano chi siamo oggi rispetto a chi siamo stati ieri, un anno fa, o dieci anni fa.
Se metto in parallelo la morte di una persona cara alla fine di una relazione importante trovo ci siano molte similitudini, e la morte di una persona cara è appunto il termine di una relazione, e si possono vivere termini di relazioni con un processo di elaborazione similare a quello del lutto.
Una persona amata che si assenta dalla nostra vita si porta con te, in modo violento, una parte di noi, e cioè il modo in cui noi eravamo con quella persona, compresi quei momenti che riteniamo belli del nostro modo di essere che si sono andati a manifestare specificamente con e per quella persona.
E questo è difficile da accettare, cioè che qualcos altro che non siamo noi, o qualcun altro che non siamo noi, ci porti via una parte di noi. Nelle relazioni una persona che se ne va, nella morte la morte stessa di qualcuno che ci porta via una parte di noi stessi, e questo genera rabbia, perché riteniamo ingiusto che un elemento esterno ci affetti. E la morte può generare rabbia anche nei confronti della persona che se ne è andata, che non è stata in grado di far in modo di salvaguardare la nostra integrità. Questo aspetto forse è più evidente se pensiamo a chi muore suicida, che decide per sé stesso, ma conseguentemente decide anche per noi.

Eppure nonostante si cresca e si evolva tramite queste recisioni, e cioè vivere questi momenti con l’unica scelta di ricostruire sopra a ciò che è stato portato via, quindi prendere una nuova forma parzialmente diversa da quella di prima, e questo processo delinei gli scalini della nostra esistenza, ogni volta è incredibilmente doloroso, inizialmente apparentemente inaccettabile o un lavoro impossibile da compiere.
E la morte stessa rimane inaccettabile, sebbene guardandosi appunto indietro nel tempo, quel che siamo oggi è un individuo diverso rispetto a ciò che eravamo uno o due decenni fa. Quell’individuo che eravamo è morto da tempo, non perché incastonato nel passato, ma perché non rappresenta niente di ciò che siamo oggi, come ciò che siamo oggi non rappresenta niente di chi saremo fra vent’anni.

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Questo io lo contesto apertamente.
Sa tantissimo di hubris dell’uomo padrone del tutto.
La morte avviene a prescindere dalla nostra volontà e dalla volontà dei propri cari.

Chiaro che lo contesto anche io, ma può accadere perché tali parole mi sono state riferite da una persona a me vicina nei confronti di quella che se ne era andata.
Non poi una condizione mentale che rimane così immutabile, le ritengo più fasi che accompagnano l’elaborazione del lutto.

Non è che la rabbia sia giusta o sbagliata, la rabbia fa parte della nostra umanità: può semplicemente esserci e va elaborata. È difatti una fase dell’elaborazione del lutto.

Io l’ho provata, la provo ancora ogni tanto perché sono ancora convinta che i miei genitori, entrambi morti di cancro, non abbiano fatto tutto il possibile per curarsi decentemente. Mia nonna poi si è lasciata letteralmente morire. Non entro nei particolari, ma hanno fatto delle scelte oggettivamente discutibili, benché fossero scelte personali e quindi io non avrei il diritto di giudicare. Ho però la libertà di provare rabbia, rendendomi conto allo stesso tempo che non avrei potuto né dovuto costringerli a fare altrimenti. Io avrei sicuramente potuto agire diversamente e quindi la rabbia la provo in modo equo nei confronti di tutti quanti :asd:

Non riesco a rispondere adesso al post di Padule Hunter, devo pensarci un po’, per me questo argomento è un trigger enorme.

Mah, sarà che ho razionalizzato il comportamento dei familiari che si fanno del male facendoti del male a loro volta molto presto nella mia vita, ma personalmente non credo di aver alcun titolo a pretendere che una persona “si aggiusti” (peraltro, rischiando che sia una mia personale definizione di “aggiustamento”) per farmi star meglio.

Razionalmente lo so, è giusto quello che dici tu; emotivamente non riesco ad accettarlo del tutto ed è per questo che ogni tanto ritorna. E alla rabbia verso di loro si aggiunge quella che provo verso di me e la vergogna di sapere che sono ancora egoista. Una bella matassa.
A dirla tutta, non riguarda soltanto il male fatto a me, ma principalmente quello che hanno fatto a loro stessi. Il male fatto a me viene solo di conseguenza.