La morte

Prima di tutto:

Ho letto dell’intervista di Michela Murgia che parla del tumore al quarto stadio di cui è afflitta mentre stavo guidando in autostrada con vari aspetti sollevati nei vari dibattiti che mi è capitato di ascoltare, intervista della Murgia a cui è seguito un video di Berlusconi dall’ospedale che non ho visto. Di fatto non ho letto neanche l’intervista che è dietro paywall, ma non è della Murgia o di Berlusconi nello specifico che mi interessa discutere, quanto della morte vista personalmente nelle sue varie sfaccettature dal singolo individuo.
Tra le varie questioni sollevate in questi dibattiti una che ha suscitato il mio interesse era quella riguardante il modo in cui oggi, rispetto a decenni fa, la morte sembra qualcosa di lontano, oltre l’orizzonte, per l’individuo, credo per vari motivi.
Generalmente prima i parenti morivano in casa, credo che mediamente, per vari motivi (probabilmente anche l’aspettativa di vita in combinazione con lo stile di vita delle famiglie e dei nuclei) oggi si muoia o in solitudine o in rsa. Noi giovani occidentali non abbiamo vissuto, sempre in senso generale, esperienze di guerra, quindi non abbiamo visto morire decine di persone davanti ai nostri occhi.
La morte ci viene proposta nei suoi aspetti più morbosi tramiche eventi di cronaca, delitti o incidenti, di entità più o meno grande, eventi dove la morte è violenta ed improvvisa, cioè qualcosa che giunge in modo inaspettato ed innaturale, e suscita quindi stupore, sorpresa, è qualcosa che arriva fulmineo. Ma la morte che invece ci attende tutti, quella del corpo che gradualmente smette di funzionare in modo adeguato, credo sia qualcosa che, sempre in senso lato, nessuno si aspetta lo possa cogliere per gran parte della sua vita (ovviamente).
Si può presumere di finire coinvolto in un incidente stradale, con meno probabilità in una aggressione, e la morte improvvisa la posso immaginare ed accettare nella sua fatalità, ma ho sincere difficoltà ad immaginare fra un anno di vedermi diagnosticaca una malattia che non mi lascia scampo, impedendomi di farmi trovare preparato (?) al mio progressivo esaurimento, e mi sono chiesto quindi come vivrei quella fase di vita.
Eppure percepisco chiaramente che il mio corpo, giorno dopo giorno, funziona peggio, quindi si incammina verso la morte, anche nelle stupidaggini. I riflessi se gioco online sono meno pronti di 20 anni fa, la muscolatura è tegghia se faccio uno scatto, talvolta lo scheletro lo sento arroccato su se stesso, anche mentalmente forse sono meno reattivo rispetto a un tempo, quindi è chiaro che già oggi, a 38 anni, fisicamente sto degradando, ed i segnali si faranno esponenzialmente più evidenti di anno in anno.
Nelle mie situazioni più cupe ho genuinamente sperato di non svegliarmi il giorno dopo, anche con una certa convinzione e serenità, piuttosto che affrontare una nuova giornata o una nuova settimana.
Credo che la realtà si fondi sul dualismo, metaforicamente direi che tutto si fonda sul dualismo, dal microscopico al macroscopito, dal mondo fisico alla psiche umana, ma in questo dualismo visionare la morte in contrapposizione alla vita mi è quasi impossibile, a differenza del visionare il male contrapposto al bene, o il freddo contrapposto al caldo, la calma contrapposta alla rabbia.
Se penso a due elementi contrapposti, che facciano parte di me, che siano proprietà fisiche della materia, o elementi sociali moralmente contrapposti, riesco perfettamente a concepirli e giustifcarli entrambi, la dove per giustificazione intendo capirne la loro origine. La morte la mia mente in qualche modo istintivamente l’allontana, la nasconde, raggiungere uno stato di piena consapevolezza di essa mi sfugge.
Il thread credo possa risultare indigesto e questo post un po’ confusionario. In un altro thread qualcuno discuteva di come elaborava le sue riflessioni, io tendo a riflettere tramite immagini da convertire poi a parole, e ancora non mi è chiaro come vedere questi aspetto per me sfuggente di un aspetto fondamentale della propria esistenza che è dentro ognuno di noi. Magari qualcuno di voi ha punti di vista più chiari, o per vari motivi, alcuni spiacevoli immagino, si sia trovato ad interrogarsi al riguardo raggiungendo una posizione in merito più avanzata della mia.

Voglio essere il primo, stavolta: in una società in cui la valorizzazione dell’individuo passa strettamente dalla sua capacità di out-competere con gli altri elementi, ogni segno di perdita di vigore è da rifuggere perché è la dimostrazione di non poter più partecipare alla gara.

Per cui è sconveniente trattare la morte come qualcosa che ci accomuni (e peggio ancora se poi finisce per accomunare al punto da rendere difficile la competizione).

Per me i media mi vendono la morte come uno spiacevole ed improbabile incidente di percorso (succede ad altri), però questa descrizione non matcha minimamente le mie esperienze personali.

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Per come la vedo io la morte dell’individuo e la sua vita non sono elementi distinti.
Ci sono diverse definizioni di vita, quella che mi pare più adeguata è “reazione chimica che si autosostiene attraverso l’evoluzione darwiniana”.
Seguendo questa definizione la morte dell’individuo è elemento necessario, perché senza lasciare spazio alle generazioni successive l’evoluzione non può svolgersi e di conseguenza anche la vita stessa viene meno (vista nel suo insieme, non come processo individuale).

Probabilmente quello che risulta insostenibile ai più non è tanto la fine del processo vitale quanto di ciò che viene percepito come Io.
Da qui in poi la questione procede un po’ sul filosofico, personalmente ritengo la percezione del sé illusoria, al limite dell’utile errore evolutivo, che affligge per lo più la nostra specie e qualche altra a noi più o meno vicina.

I confini di una persona, sia fisici che spirituali, sono un po’ come quelli di una fotografia sgranata. Da lontano sembrano bene definiti, ma più ci si avvicina per indagare più questi appaiono sfumati, imprecisi e mutevoli - come gli argini di un fiume o il limitare di una nuvola.

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Alla fine la riflessione sulla morte non fa altro che far trasparire la paura che si ha di essa.
Ma qualsiasi siano le proprie credenze (religiose o meno, spirituali, atee ecc…) l’unica costante è che la morte fa parte del ciclo della vita e che non ha senso averne paura. Bisogna anzi realizzare che, proprio perchè la morte potrebbe essere dietro l’angolo, bisogna massimizzare gli aspetti positivi che la vita ci riserva: stare in comunità, divertirsi, non avere paura di esprimere i propri sentimenti ma anche cercare di fare più bene possibile agli altri, che non significa dedicarsi totalmente che è solo una strada, ma piuttosto cercare di far stare bene gli altri anche a piccoli passi, buone azioni ma anche consigli e sorrisi.
Tante persone arrivano alla fine della vita con rimpianti, ecco sarebbe meglio che questo realizzare che un attimo si vive e l’attimo dopo non arrivi poco prima dell’ultimo respiro, ma che facesse parte di un processo durante la propria maturità.

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ora leggo il resto

Edit: @gigawat, lo lascerei un po’ qua per fargli prendere un po’ di slancio ma imho era un topic di quelli perfetti su Addio dove s’e’ tradizionalmente sempre parlato di roba profonda con meno cazzate e battute tipiche di agora’ :sisi:

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E hai fatto bene m’ha titillato la depre esistenziale già di prima mattina mortacci sua :asd:

Da quando è morto mio padre nel 2018 il rapporto con la morte è profondamente cambiato. Il timore che possa interessare qualcuno a cui voglio bene ha un sapore più concreto e mi faccio domande sul dolore che lascerei se toccasse a me.
Ci sarebbe probabilmente da aprire un dibattito su cosa rappresenta la morte in una società ad influenza cristiana. Come dice qualcuno, in occidente sono cristiani anche gli atei.

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^this.
Quando ti muore qualcuno in famiglia soprattutto se giovane il rapporto che ne sviluppi cambia e diventa qualcosa che avverti molto più concretamente

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Ho sempre avuto una paura morbosa della morte.
Il pensare che tutto finisca. Che tutto quello che una persona ha fatto, conquistato, realizzato, interiorizzato, imparato, finisca così, come “lacrime nella pioggia”.
E’ un pensiero che mi distrugge totalmente.
Allo stesso modo e in maniera collegata mi spaventa la malattia, soprattutto dopo aver vissuto quelle dei miei genitori che, a gennaio, si è portata via mio padre e con cui sto ancora facendo i conti.
La sofferenza fisica e mentale è qualcosa di atroce, soprattutto per chi l’ha vista da vicino in persone care.

Sono pensieri che mi stroncano totalmente, come forse è normale che sia, anche se pure io in momenti particolarmente bui ho fatto a volte pensieri altrettanto bui.

Come vengo a patti con questi pensieri?
Non ho ancora trovato il modo.

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E soprattutto non applaudi acriticamente le puttanate poetiche e filosofeggianti che certi malati terminali propinano come nuovi guru, magari perché sragionano o perché ormai vedono la realtà solo dal loro punto di vista.

Da anni si cerca di convincere il malato che non è la propria malattia, arriva la Murgia e tadà, “io sono la mia malattia”. Ma seriamente?

Il cancro è una malattia gentile? Ci mettiamo un enorme graziearcazzo se non hai avuto sintomi? Se non hai dovuto affrontare mesi orribili?
Voglio proprio vedere tra alcune settimane se continuerà con questa filosofia della malattia dolce. Lo andasse a dire a chi subisce un’agonia per anni quanto è gentile, lo dicesse ai familiari com’è bello abbracciare la malattia e prepararsi alla morte mentre vedi un tuo caro che si spegne lentamente in modo poco dignitoso ed estremamente doloroso.

Ognuno è giustamente libero di affrontare la morte come meglio crede, ma ste puttanate del guerriero, della malattia come dono e dell’accettare la morte con serenità quando non hai passato l’inferno veramente non le tollero. Sono fottutamente offensive.

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Fino all’adolescenza - periodo durante il quale ero ancora cattolico praticante - non ho dato particolarmente peso alla morte. C’era la definizione precotta della religione che praticavo ed era consolante non dover elaborare troppo. Poi si è ammalato mio padre e ho visto il processo di disfacimento che porta una persona sana a consumarsi e morire in pochi mesi. È stato un bel trauma - tanto più che avevo 18 anni e mi sono trovato completamente solo da un semestre all’altro.
Mi sono allontanato dalla religione, sono diventato agnostico (processo che era già in corso, ma che sicuramente ha preso velocità con l’esperienza della malattia e la morte di mio padre) e ho iniziato a soffrire di tanatofobia (generalmente negli istanti immediatamente prima di addormentarmi, con cuore che batte a mille, fatica a respirare e conseguente insonnia emergente negli anni successivi).
Vorrei dire che ho risolto, ma in realtà nei 30 anni successivi ho solo elaborato una teoria molto personale che in parte mi consola e mi da un minimo di sicurezza: la morte non si affronta, è inutile cercare di farsi trovare preparati, con tutte le carte a posto. Quel che si deve affrontare è la paura di morire e per farlo bisogna prima elaborare e interiorizzare la consapevolezza che la nostra esistenza è provvisoria. Se poi per essere più tranquilli vogliamo ottenere degli obiettivi, lasciare la casa ai figli, stendere un testamento, fare opere buone, completare la lista dei desideri… questo sta al singolo individuo.

Tema complesso. Sicuramente il rapporto con la mor

Il post interrotto andava fatto, dai, per sdrammatizzare un po’ :asd:

Risposta seria. E’ chiaro che il rapporto con la morte è estremamente personale e filtrato dalle esperienze di ognuno. Io fino ad ora ho retto abbastanza bene botta, la mia famiglia sta perdendo i “pezzi da 90” come è giusto (come diceva Battiato, “il corpo vive giustamente solo questa vita”) e naturale che sia.
Paradossalmente, le morti che mi hanno “segnato” maggiormente sono state quelle di due persone non particolarmente vicine, hanno in qualche modo modificato il mio modo di percepire e gestire il tempo.

Mi spiego.

Persona 1, amico di famiglia dei miei, due figlie femmine, quando i miei vanno a trovarlo mi faccio trovare perché so che gli fa piacere parlare con me, credo per lui rappresentassi un po’ il figlio maschio che non aveva mai avuto. Negli ultimi tempi lo andavamo a trovare nella casa dei suoceri in campagna, dove parlavamo di armi da fuoco, giacché aveva ereditato una collezione corposa (100+ pezzi). E mi proponeva sempre di andare a trovarlo in centro, e la cosa neanche mi sarebbe dispiaciuta.
Se lo porta via un infarto, un fulmine a ciel sereno anche perché era una persona che non aveva problemi di salute. Mi è rimasta la… boh, delusione? No. Il rammarico. Il rammarico di non avergli fatto visita a casa sua, gli avrebbe fatto sicuramente molto piacere. E anche a me. Ma ho sempre procrastinato, rimandato, perché “vabbè, c’è tempo”. Ecco, quella morte mi ha insegnato che a forza di dire “vabbè, c’è tempo” il tempo finisce. E rimane il rammarico di non averlo vissuto.

Persona 2, amico? Conoscente? Compaesano? Non saprei dire. A posteriori direi che eravamo la perfetta “strana coppia”. Quasi coetanei, due vite completamente diverse: io come direbbe ZeroCalcare “tagliato lungo i bordi” (o quasi), lui orfano di padre già da giovanissimo, una miriade di lavori saltuari, supporti sociali, dei tic che gli valgono lo scherno del paese. Nell’ultimo periodo mi chiedeva dei passaggi per andare in centro. Seppi a posteriori che tanti glieli rifiutavano perché erano favori non venivano ricambiati. Bah. Io lo facevo salire volentieri, e facevamo la strada parlando di cucina. Soprattutto roba piccante, perché scoprimmo che piaceva ad entrambi. Gli invidiavo quelle piante di peperoncino che descriveva con la dovizia di particolari che usa solo chi è orgoglioso del proprio lavoro. Li sapeva coltivare, lui. Gli chiedevo consigli su quanta acqua dare, come esporli, cosa fare se non crescevano, cosa fare se crescevano troppo. E il tempo del viaggio si riduceva a pochi istanti, e ci si salutava con la consapevolezza che avremmo ripreso il discorso il giorno dopo. O due giorni dopo, o la settimana successiva, quando il caso ci avrebbe fatto incrociare di nuovo. L’ultima volta che lo vidi, stranamente, facemmo il viaggio al ritorno, verso casa. Scese in piazza, mi chiese se avevo qualche soldo spiccio per un pezzo di pizza. Io che odio i soldi spicci come i sassi nelle scarpe gli buttai in mano una carta da 20 e lo salutai. Mi fece “sono troppi, quando te li restituisco?” e io con noncuranza “ma figurati, quando ti pare, tanto ci vediamo”.
Tanto ci vediamo.
Fu l’ultima volta che lo vidi. Si tolse la vita gettandosi dalle mura, praticamente sotto casa mia. Cosa lo spinse, con esattezza, non lo saprò mai. Il non riuscire a trovare un lavoro stabile? Due giorni più tardi un altro, in zona, si suicidò impiccandosi in casa. Aveva perso il lavoro a causa della crisi che stringeva forte in quel periodo.
La sua morte mi ha spinto a riflettere sul come la fretta, la noncuranza, la superficialità ci impediscano spesso di vedere le difficoltà altrui, e che le battaglie grandi o piccole che combattiamo quotidianamente noi le combattono anche gli altri, e magari le loro sono pure più grosse e più dure.

La morte, almeno in questi casi, per me è stata maestra di vita. Una maestra dura che impartisce una lezione altrettanto dura.

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Da un po’ mi sento stranamente vicino alla morte, consapevole che la parte migliore della vita sia scivolata via, vissuta, ma lontana. Morire fa parte di quel buio che intendo per vecchiaia. Una lunga corsia percorsa a velocità di crociera. Sento il fisico disfarsi. Nasciamo per marcire. Ma la morte poco mi spaventa. Il momento del trapasso, la malattia, quella è altra faccenda. Il tizio in camice che cerca di farti capire che dovrai lottare perché puoi farcela a sconfiggere il male che c’è dentro e che cresce. Un giorno come un altro può arrivare. Il buio più forte di te che ti annienta. L’ho visto accadere. E non l’ho mai digerito. So che posso capitarci dentro ogni minuto che passa. Siamo frangibili.

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Io ho visto da vicino mio padre spegnersi.
Per la malattia, si, per i farmaci, si, ma soprattutto quasi “per sua scelta”, perché nonostante la malattia non stava poi così male, le analisi erano discrete. Era l’umore di contorno il problema.
Si è lasciato andare. Stanco. Stanco non solo di medici, farmaci, visite, operazioni, stanco proprio mentalmente della quotidianità.

La cosa che mi spaventa è che io sono anni che spesso mi dico “sono stanco…” con un tono quasi simile, anche se per motivi diversi.

Mio padre se n’è andato così.
Il primo dell’anno, in hospice, quando doveva solo fare un ricovero diagnostico.
Dopo aver visto le poche persone a cui teneva che lo sono andate a trovare. Se n’è andato.
Nei giorni precedenti disse con amici comuni: “ora mio figlio è a posto, si è sistemato con una brava ragazza, non ha più bisogno di me, posso andare”

E questo non me lo dimenticherò mai.
Ho visto nella mia testa mio padre camminare davanti a me, andando per la sua strada come lo vedevo spesso camminare davanti quando eravamo in vacanza. Solo che questa volta ha proseguito da solo.

Giorni dopo, una sua vecchia compagna mi ha passato l’unica foto che ha trovato di lui, una foto rubata, perché lui non si faceva mai fotografare.
Era una foto di lui di spalle, che camminava avanti, durante una loro vacanza, esattamente come me lo immaginavo.

Ora è il mio sfondo del desktop, mi piace pensarlo sempre lì, camminare davanti a me facendo strada perso nei suoi pensieri.

La malattia non ti logora solo nel fisico ma a volte soprattutto nella mente. Ti cambia i pensieri, la visione delle cose, del mondo, dei rapporti, sopratutto con te stesso.
Pure io penso che i vari discorsi da “lottatore” “battaglie” “vincitori e vinti” siano uno sputo in faccia a chi non ce l’ha fatta.
Così come per il mantra moderno “se vuoi, puoi”, sembra quasi che anche davanti ad una cosa come morte e malattia, se non ce la fai, sia colpa tua.

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Se vuoi puoi…
L’ho visto succedere in modo del tutto inaspettato. E al contrario.
A gennaio dell’anno scorso, il secondo marito di mia madre si è ammalato di cancro. Per me era come un padre. Diagnosi infausta: quarto stadio, molto diffuso.
Non subito, ma quando ha metabolizzato, ha deciso di lasciarsi andare. Ha espressamente chiesto di non assumere più nessun farmaco, ha smesso di mangiare e poi anche di bere. Solo sua moglie riusciva a parlargli, per qualche minuto al giorno. Per il resto si è chiuso in sé stesso, determinato a mettere fine alla sua vita nei tempi e nei modi scelti da lui.
Ha tentennato e si è lasciato somministrare dell’acqua e una flebo quando gli abbiamo fatto capire che non sarebbe nemmeno riuscito a salutare suo figlio - mio fratello - che era in viaggio dagli USA per vederlo un’ultima volta. Allora ha bevuto un pochino e ha mangiato una mousse di frutta.
Quando il giorno dopo ha visto suo figlio, non so cosa si sono detti. Per me era come un padre, ma io non ero davvero suo figlio. Me ne sono stato al mio posto. Vicino, presente, ma in un angolino.
Il giorno dopo ha ricominciato a rifiutare tutto e in un paio di giorni se ne è andato.
Io sinceramente non ha mai visto tanto coraggio. Ancora adesso sono senza parole di fronte a tanta determinazione e dignità.

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Da quando è morta mia madre, la morte ha assunto una connotazione completamente diversa.

Da qualcosa di lontano e astratto è diventata una presenza costante nella mia vita, ogni giorno quando non posso parlarle mi viene ricordato quanto poco siamo destinati a durare.

Ho smesso di interrogarmi sul dopo perché non c’è risposta, ma se il pensiero mi becca mentre mi sto per addormentare è finita e col cazzo che dormo.

la morte, almeno nel momento esatto in cui avviene, è terrificante
l’istante esatto in cui nel cervello si accende la certezza assoluta dell’imminente non-esistenza? auguri raga