12 novembre 1940, la “notte di Taranto”. La città dei due mari era (ed a quanto mi risulta è tutt’ora) la principale base della flotta italiana, grazie alla sua posizione strategica che consentiva un rapido intervento verso il Mediterraneo centrale, fulcro della guerra aeronavale in quel teatro. Fin dal 1935, all’epoca della crisi scatenata dalla guerra d’Etiopia, la Royal Navy aveva preparato dei piani per un attacco di aerosiluranti contro questa base, per infliggere un duro colpo alla Marina italiana in caso di conflitto; adesso che il conflitto era effettivamente in corso, i piani furono rispolverati ed aggiornati.
L’attacco venne inizialmente pianificato per il 21 ottobre, anniversario della battaglia di Trafalgar, ma dovette essere rinviato di qualche settimana a causa di un incendio. Poi, l’11 novembre 1940 la nuovissima portaerei Illustrious, accompagnata da tre corazzate, due incrociatori e vari cacciatorpediniere, lasciò Malta - dov’era in precedenza giunta da Alessandria - per portarsi nella posizione prefissata per il lancio degli aerei.
Taranto era sulla carta una base navale di prim’ordine, ma nei fatti aveva diversi punti deboli. Le batterie contraeree di terra erano in gran parte composte da pezzi antiquati e sprovvisti di moderni strumenti per la direzione del tiro; su 12 km previsti di reti parasiluri, solo un quarto era stato realmente messo in opera, il resto era ancora in magazzino od addirittura in fabbricazione; e per colmo di sfortuna, appena pochi giorni prima dell’attacco una tempesta di vento aveva strappato i tre quarti dell’ottantina di palloni frenati il cui scopo era di ostacolare un attacco da parte di aerei a bassa quota. La sera dell’11 novembre molti ufficiali si trovavano a terra per festeggiare, al circolo della Marina, il compleanno di Vittorio Emanuele III.
Alle 20.30 dell’11 novembre l’Illustrious lanciò la prima ondata di 12 biplani Fairey Swordfish: due dovevano illuminare gli obiettivi lanciando bengala; sei attaccare con i siluri le corazzate all’ancora in Mar Grande; quattro condurre un attacco diversivo con bombe sul Mar Piccolo, dov’erano ormeggiati cacciatorpediniere e qualche incrociatore.
Gli Swordfish giunsero su Taranto poco prima delle 23, ed accolti da un un intenso tiro di sbarramento, passarono subito all’attacco. Il primo ad attaccare mise il suo siluro a segno, colpendo la corazzata Conte di Cavour, per poi essere subito dopo abbattuto; andò meglio e peggio al seconda ed al terzo, che non vennero colpiti ma non riuscirono, a loro volta, a colpire il loro obiettivo, la corazzata Andrea Doria. Altri due aerosiluranti colpirono alle 23.15 la modernissima corazzata Littorio su entrambi i lati, mentre il sesto ed ultimo lanciò contro la sua gemella Vittorio Veneto, ma il siluro esplose prematuramente senza causare danni.
Nel mentre i quattro Swordfish bombardieri colpivano i depositi di carburante e le navi ormeggiate in Mar Piccolo; una bomba colpì il cacciatorpediniere Libeccio sfondando qualche ponte e la murata ma senza esplodere, causando così danni modesti, mentre un secondo cacciatorpediniere, l’Emanuele Pessagno, ebbe lievi danni allo scafo per la concussione di bombe esplose in mare a pochissima distanza. Vennero anche distrutti due idrovolanti.
La prima ondata si concluse alle 23.20, ma dieci minuti dopo giunse la seconda, composta da quattro aerosiluranti ed altrettanto bombardieri, due dei quali con duplice ruolo anche di bengalieri. Degli aerosiluranti, uno mise a segno un terzo siluro sulla martoriata Littorio; un altro colpì con un siluro la corazzata Duilio; il terzo mancò di nuovo la Vittorio Veneto ed il quarto fu abbattuto dall’incrociatore pesante Gorizia, che aveva attaccato. L’attacco dei bombardieri vide una bomba a segno sull’incrociatore pesante Trento, che ebbe danni non gravi perché come già sul Libeccio, la bomba che lo colpì non esplose.
A mezzanotte e mezza del 12 novembre l’attacco era concluso; delle tre corazzate silurate, Littorio e Duilio furono salvate in extremis portandole ad incagliare su bassifondali (rimasero poi fuori combattimento per vari mesi) mentre affondò la Cavour, che si attese troppo prima di portare all’incaglio. Relativamente contenute, essendo l’attacco avvenuto in porto, furono le perdite umane; morirono 59 uomini, di cui 32 sulla Littorio, 17 sulla Cavour, tre sulla Duilio, i rimanenti a terra.
Al prezzo della perdita di due aerei, i britannici avevano dimezzato, almeno per qualche tempo, il numero di corazzate della Marina italiana, ottenendo così una maggior libertà d’azione nel Mediterraneo.
La corazzata Conte di Cavour. Risalente alla prima guerra mondiale, era stato oggetto di radicali lavori di ammodernamento a metà anni Trenta, che avevano lasciato della vecchia nave il solo scafo, anch’esso pesantemente modificato. Fu colpita da un siluro alle 23.15, che esplose sotto lo scafo aprendo uno squarcio di 12 metri per otto appena a proravia del torrione di comando; con vari compartimenti in rapido allagamento e le pompe che non riuscivano a farvi fronte, il suo comandante Ernesto Ciurlo decise di portarla ad arenare sui bassifondali per evitarne l’affondamento, ma l’ammiraglio Bruto Brivonesi, recatosi a bordo (si potrebbe scrivere un libro sui casini combinati da lui e dal degno fratello Bruno), annullò l’ordine ritenendo di poter salvare la nave senza farla incagliare. Dopo un’animata discussione Ciurlo lasciò furente la plancia gettando il berretto e sbottando “Non sono più il comandante della Cavour!”. Alle 4.20, con la situazione ormai fuori controllo, l’ammiraglio si decise finalmente per l’incaglio, ma ormai era troppo tardi. Alle cinque la Cavour toccò il fondale, sbandò paurosamente come se stesse per capovolgersi, poi si raddrizzò ed affondò lasciando emergenza artiglierie e sovrastrutture. Brivonesi, Ciurlo e l’equipaggio trasbordarono sui rimorchiatori giunti in assistenza o si gettarono direttamente nelle acque della rada. La nave fu riportata a galla nel giugno 1941 e rimorchiata a Trieste per le riparazioni, che tuttavia non furono mai ultimate per via dell’andamento della guerra. Caduta in mano tedesca dopo l’armistizio, fu nuovamente affondata a Trieste da un bombardamento aereo nel 1945 e demolita nel dopoguerra.
La corazzata Duilio, simile alla Cavour, fu colpita sul lato di dritta da un siluro che aprì uno squarcio di 11 metri per 7, allagando i depositi munizioni prodieri. Per ordine dell’ammiraglio Carlo Cattaneo la nave venne portata ad arenarsi su un bassofondale, evitando così la fine della Cavour; ad eseguire la manovra fu Piero Calamai, ufficiale della Marina Mercantile richiamato con il grado di capitano di corvetta di complemento, destinato nel doppio a diventare famoso come comandante dello sfortunato transatlantico Andrea Doria (che, ironia della sorte, era anche il nome della gemella della Duilio). Tamponata la falla, venne rimorchiata a Genova nel gennaio 1941 per le riparazioni, sopravvivendo indenne al bombardamento navale di quella città di qualche settimana dopo. Tornò in servizio nel maggio 1941. Insieme alla gemella Andrea Doria fu una delle due corazzate lasciate dall’Italia dal trattato di pace; ormai obsoleta, fu impiegata nell’addestramento fino alla demolizione, avvenuta nel 1957.
La corazzata Littorio, ben più grande e moderna di Cavour e Duilio e nave di bandiera dell’ammiraglio Inigo Campioni, incassò ben tre siluri, due a prua sulla dritta ed uno a poppa sulla sinistra, che distrusse il timone. Gran parte delle pompe principali furono messe fuori uso dalle esplosioni , impedendo di arginare adeguatamente gli allagamenti; il comandante Massimo Girosi chiese ed ottenne dall’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante della IX Divisione Navale cui la Littorio apparteneva, l’autorizzazione a portarla all’incaglio, manovra completata alle 6.25. La prua della Littorio fu sommersa fino all’altezza della prima torre del calibro principale.
Rattoppata, disincagliata e rimorchiata in bacino nel dicembre 1940, la Littorio tornò in servizio nel marzo 1941. Ribattezzata Italia dopo la caduta del fascismo, fu demolita nel 1948 per disposizione del trattato di pace.
Il generale del Genio Navale Umberto Pugliese, uno dei più brillanti ingegneri della Regia Marina, progettista tra l’altro delle corazzate classe Littorio ed ideatore del sistema di difesa subacquea in uso sulle corazzate italiane. Espulso dalla Marina nel 1938 perché ebreo, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, ci si rivolse però a lui per organizzare il recupero delle corazzate silurate a Taranto; accettò a patto di poter tornare ad indossare la sua vecchia divisa. Successivamente, nel 1941, fu riammesso in Marina grazie ad una clausola delle leggi razziali che permetteva l’esenzione di ebrei che si erano distinti per “meriti eccezionali”, ed anche decorato. Arrestato dalle SS a Roma dopo l’armistizio, riuscì a farsi rilasciare persuadendoli di essere “ariano”, dopo di che si nascose fino alla fine della guerra. Perse invece la sorella, deportata ad Auschwitz. Morì nel 1961.
L’ammiraglio Inigo Campioni, comandante della flotta da battaglia italiana all’epoca dell’attacco a Taranto. Meno di un mese dopo fu sostituito dall’ammiraglio Angelo Iachino, perché ritenuto troppo cauto; nominato sottocapo di Stato Maggiore della Marina, divenne poi governatore del Dodecaneso, ruolo che ancora ricopriva all’armistizio dell’8 settembre 1943. Per aver opposto resistenza all’occupazione tedesca dell’arcipelago fu condannato a morte dalla repubblica di Salò con un processo farsa e fucilato il 24 maggio 1944.
Gli ammiragli Bruto Brivonesi, Carlo Cattaneo e Carlo Bergamini (da sinistra a destra), comandanti della V, VI e IX Divisioni Navali cui appartenevano rispettivamente Cavour, Duilio e Littorio. Brivonesi fece danni a Taranto e ne avrebbe fatti ancora in seguito; sopravvisse alla guerra. Campioni, passato al comando della I Divisione Navale, morì il 29 marzo 1941 nella battaglia di Capo Matapan. Bergamini, promosso al comando della squadra da battaglia, morì all’indomani dell’armistizio quando la sua nave ammiraglia, la corazzata Roma, esplose colpita da una bomba-razzo tedesca.
Il cacciatorpediniere Libeccio mostra i lievi danni, riparati in pochi giorni, causati dalla bomba che lo colpì senza esplodere. Il Libeccio fu affondato quasi esattamente un anno dopo, il 9 novembre 1941, da un siluro lanciato dal sommergibile HMS Upholder mentre raccoglieva naufraghi di navi affondate nel Mediterraneo centrale.
L’incrociatore pesante Trento, anch’esso colpito da una bomba che non esplose. Fu affondato il 15 giugno 1942, durante la battaglia di Mezzo Giugno, dapprima immobilizzato da un aerosilurante e poi finito dal sommergibile HMS Umbra, con la perdita di 570 dei 1151 uomini dell’equipaggio.
Il cacciatorpediniere Emanuele Pessagno, leggermente danneggiato da bombe esplose in mare a poca distanza. Fu affondato il 29 maggio 1942 dal sommergibile HMS Turbulent, durante la scorta ad un convoglio diretto in Libia, portando con sé 159 dei 245 uomini dell’equipaggio.
Gli ammiragli Andrew Browne Cunningham (sopra), comandante in capo della Mediterranean Fleet, ed Arthur Lumley Lyster, comandante delle portaerei della Mediterranean Fleet ed autore del piano d’attacco contro Taranto.
La portaerei britannica Illustrious, che lanciò gli aerei che attaccarono Taranto. Nuova di zecca (era entrata in servizio meno di sei mesi prima), pochi mesi dopo l’attacco a Taranto fu gravemente danneggiata da bombardieri tedeschi e mandata negli Stati Uniti per le riparazioni. Operò successivamente in Oceano Indiano per poi tornare in Mediterraneo nel 1943, per partecipare allo sbarco a Salerno. Gli ultimi due anni di guerra li passò operando contro i giapponesi.
Un aerosilurante Fairey Swordfish, prodotto per la prima volta nel 1934. Nonostante l’aspetto tutt’altro che moderno, questo biplano diede alla Royal Navy parecchie soddisfazioni, cogliendo diversi successi in Mediterraneo (dove furono in assoluto i primi aerosiluranti della storia ad affondare una nave, il cacciatorpediniere italiano Zeffiro, pochi mesi prima di Taranto) ed azzoppando in Atlantico la corazzata tedesca Bismarck, consentendo così alle forze di superficie della Royal Navy di raggiungerla ed affondarla. Rimase in servizio fino alla fine della guerra, superando in longevità alcuni modelli di aereo progettati per sostituirlo.
Il relitto di uno dei due Swordfish abbattuti, quello pilotato dal capitano di corvetta Kenneth Williamson con osservatore il tenente di vascello N. J. Scarlett. I due membri dell’equipaggio sopravvissero e, raggiunto a nuoto un bacino galleggiante, furono fatti prigionieri. Non ebbe la stessa fortuna l’equipaggio dell’altro Swordfish abbattuto, tenenti di vascello Gerald Bayly ed Henry James Slaughter; del primo fu recuperato il corpo, sepolto con gli onori militari a Taranto, mentre il secondo non fu mai trovato.
Il tenente di vascello Frederik Michael Alexander Torrens-Spence, asso degli Swordfish. A Taranto fu tra i siluratori della Littorio; qualche mese dopo, a Capo Matapan, silurò l’incrociatore italiano Pola ponendo le basi per la vittoria britannica in quella battaglia. Nordirlandese, dopo la guerra ed il congedo dalla Royal Navy fu funzionario di polizia e poi comandante di battaglione nell’Ulster.
Ufficiali della Marina imperiale giapponese parlano con colleghi italiani durante una visita a Taranto, maggio 1941. Gli alleati del Sol Levante erano interessati a saperne di più sull’attacco per via di una loro ideuzza che accarezzavano da qualche tempo circa una base navale statunitense nelle Hawaii.