History ph... no, post lunghi

Thread creato su suggerimento di altri utenti per post lunghi a tema storico che deviano un po’ dal pattern di History Photo, oltre che per non urtare la sensibilità di Herburg.

Alle 17.25 del 21 aprile 1941 due aerosiluranti Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero” della 278ª Squadriglia Aerosiluranti della Regia Aeronautica decollarono dalla base libica di Berka, vicino a Bengasi, per attaccare naviglio britannico al largo di Creta. Uno di essi era l’aereo matricola MM.23881, pilotato dal capitano Oscar Cimolini; il resto dell’equipaggio comprendeva il marescialli pilota Cesare Barro, il tenente di vascello Franco Franchi della Marina in qualità di osservatore, il sergente maggiore marconista Amorino De Luca, il primo aviere motorista Quintilio Bozzelli ed il primo aviere armiere Giovanni Romanini.
I due aerei condussero il loro attacco alle otto di sera, dopo di che iniziarono il volo di rientro alla base; ma l’aereo di Cimolini non vi arrivò mai. Niente di inusuale, era la guerra: tanti aerei non erano rientrati prima di loro e tanti non sarebbero rientrati dopo di loro, probabilmente lo “Sparviero” era stato abbattuto durante il volo di rientro ed era precipitato in mare. L’equipaggio fu dichiarato disperso in azione e nessuno, tranne i parenti degli scomparsi, ci pensò più…

…fino al 21 luglio 1960. La Libia non era più italiana da un quindicennio abbondante, ma l’ENI era in prima fila nello sfruttamento dei suoi giacimenti petroliferi. Un gruppo di tecnici della società, impegnati in prospezioni nel deserto, s’imbatterono casualmente in uno scheletro a pochi chilometri dalla strada che connetteva le oasi di Gialo e Giarabub. Il morto indossava i resti di una divisa della Regia Aeronautica; accanto a lui una pistola lanciarazzi usata, un binocolo, una bussola, due orologi, una chiave con targhetta “S. 79 MM.23881”, una gamella ed una piastrina identificativa. Il nome sulla piastrina: primo aviere Giovanni Romanini.

Nei dintorni non c’erano rottami od altre tracce dello schianto di un aereo; venne avviata una ricerca in grande stile, finché il 5 ottobre 1960 il relitto dello “Sparviero” venne localizzato.
L’aereo, nonostante il tempo passato, appariva in buone condizioni. Era integro e recava ancora ben visibili i contrassegni della squadriglia di cui aveva fatto parte; la mitragliera dorsale, a distanza di 19 anni dall’ultimo utilizzo, era ancora funzionante. Il muso, le eliche ed il carrello mostravano seri danni, causati da un atterraggio d’emergenza.
Dentro l’abitacolo venne trovato uno scheletro con segni di fratture multiple, ancora seduto sul seggiolino del pilota: certamente il capitano Cimolini, ucciso o gravemente ferito nell’atterraggio; i comandi erano ancora sporchi del suo sangue essiccato. Altri due scheletri furono trovati fuori dalla fusoliera, uno dei quali adagiato sotto un’ala, come a ripararsi dal sole.
I rimanenti due membri dell’equipaggio non furono mai ritrovati; probabilmente, considerato anche il ritrovamento di due orologi sui resti di Cimolini, almeno uno di essi (forse anche entrambi) si era incamminato insieme a lui ma era morto prima, ed il suo scheletro giaceva chissà dove nel deserto.

Ciò che verosimilmente era successo era che l’equipaggio aveva perso l’orientamento a causa del maltempo e non era riuscito a trovare la base; probabilmente la radio si era rotta - non si spiegava, altrimenti, la mancanza di comunicazioni - e, sorvolando il deserto alla cieca, lo “Sparviero” aveva finito il carburante ed era stato costretto ad un atterraggio d’emergenza, a ben 500 km dalla base. Parte dell’equipaggio, compreso il pilota, era rimasto ferito, ma almeno un uomo - Giovanni Romanini -, forse più di uno, si era messo in cammino per cercare aiuto. Romanini aveva camminato per più di 90 km nel deserto, passando senza saperlo a poca distanza da un deposito d’acqua usato dal Long Range Desert Group britannico, fino a soccombere alla sete ed allo sfinimento a soli otto chilometri dalla strada Gialo-Giarabub.

I resti dei quattro uomini recuperati vennero tumulati nel sacrario dei caduti oltremare di Bari, quelli dell’aereo vennero lasciati dov’erano. Depredati nel corso degli anni dai beduini, che hanno via via asportato tutto il materiale che poteva essere in vario modo riutilizzato, oggi ne rimane ben poco.

Due foto dello “Sparviero” scomparso. Nella foto in basso, Giovanni Romanini ed un altro membro dell’equipaggio, non identificato.

Il maresciallo pilota Cesare Barro, copilota del MM.23881. Originario di Conegliano Veneto, aveva 27 anni; lasciò una figlia e la moglie incinta di una seconda, che non conobbe mai.

L’aviere Giovanni Romanini, 24 anni, da San Polo di Torrile (Parma), era il membro più giovane dell’equipaggio. Avevano tutti meno di trent’anni tranne Cimolini, 33 anni, triestino.

Il relitto come venne trovato nel 1960.

L’interno della cabina di pilotaggio.

La mitragliera dorsale, che ancora funzionava dopo 19 anni nel deserto.

I resti di un membro dell’equipaggio, trovati sotto un’ala.

Schema del percorso compiuto dall’aereo.

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Era l’ora :rulez:

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Le foto mi hanno ricordato uno dei miei episodi preferiti di Twilight Zone : King Nine Will Not Return trasmesso il 30 settembre del 1960 :look:

https://www.dailymotion.com/video/x8hxo5f

Quell’episodio era infatti ispirato da un’altra vicenda molto simile (ed internazionalmente più conosciuta), quella del bombardiere statunitense Lady Be Good. Di ritorno in Nordafrica da un bombardamento su Napoli, nell’aprile 1943, si smarrì a causa di una tempesta di sabbia e precipitò nel deserto dopo che, nel suo caso, i nove uomini dell’equipaggio si erano lanciati con il paracadute. Uno morì perché il paracadute non si era aperto correttamente (con il senno di poi, fu il più fortunato), gli altri otto tentarono di raggiungere a piedi la costa che era in realtà molto più lontana di quanto non credessero, uno dopo l’altro morirono di sete. Il relitto dell’aereo venne trovato per caso nel 1958 ed i resti dell’equipaggio nei primi mesi del 1960.

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Napoli sempre letale non si sfugge :snob:

6 novembre 1913, inizia sui Grandi Laghi nordamericani quella che passerà alla storia come la grande tempesta del 1913, l’“Uragano Bianco”. Una tempesta di eccezionale violenza si abbatte per sei giorni sulla regione, con venti fino a 145 km/h ed onde alte oltre undici metri; sarà il più distruttivo disastro naturale nella storia dei Grandi Laghi. Undici navi affondano e 29 finiscono arenate, alcune delle quali subendo danni di entità tale da farle considerare perdute; oltre 250 le vittime, la maggior parte sul lago Huron, dove avvennero i due terzi dei naufragi.

Il piroscafo canadese James Carruthers, che con le sue 7862 tonnellate di stazza lorda fu la più grande tra le vittime della tempesta. Nuovo di zecca, il Carruthers era una nave moderna e robusta, tra le più grandi dei Grandi Laghi: ciò non le impedì di affondare nel lago Huron nel tardo pomeriggio del 9 novembre, con la morte dell’intero equipaggio di 22 uomini. Da terra furono avvistati razzi di segnalazione e sentito il fischio della sirena di bordo, ma la violenza della tempesta impedì ogni soccorso.
Diversi corpi furono gettati a riva dalle onde ed uno di essi fu identificato da Thomas Thompson, padre del marinaio del Carruthers John Thompson, come quello del figlio (l’aspetto e vari segni particolari corrispondevano, ed aveva tatuate sul braccio le iniziali “J.T.”). Lo portò dunque a casa e ne organizzò il funerale, ma mentre questo accadeva il vero John Thompson, sbarcato dal Carruthers prima dell’ultimo viaggio, leggeva con stupore dai giornali la notizia della sua morte nel naufragio. Invece di informare la famiglia di essere ancora vivo mediante un telegramma, il giovane Thompson prese un treno e fece ritorno a casa con tutta calma, fermandosi anche a far visita ad un amico; al suo arrivo a casa trovò i parenti radunati per la sua veglia funebre.
L’uomo che Thomas Thompson aveva scambiato per proprio figlio non venne mai identificato.

Il piroscafo L. C. Waldo, in navigazione sul lago Superiore, fu investito da un’onda anomala che ne demolì la timoniera, per poi incagliarsi su una scogliera e spezzarsi al centro. L’equipaggio di 22 uomini e due donne (la moglie e la madre dello steward Arthur Rice), radunatosi a prua, rimase così tagliato fuori dal cibo, dalle coperte e dagli indumenti asciutti, che si trovavano a poppa; il direttore di macchina, Albert Lembke riuscì a realizzare una stufa di fortuna con una vasca da bagno capovolta ed alcuni secchi, e fu ciò a tenere tutti vivi nei successivi due giorni. Il relitto incagliato si ricoprì di ghiaccio, che bloccò anche le porte del locale in cui si era radunato l’equipaggio; dopo vari tentativi falliti a causa della violenza della tempesta e del gelo che ricoprì di ghiaccio anche i battelli di soccorso, tutto l’equipaggio venne tratto in salvo il 10 novembre. La nave, abbandonata agli assicuratori perché giudicata irreparabile, venne invece recuperata e riparata, tornando a navigare fino al 1967. Venduta per demolizione in Italia dai suoi ultimi proprietari (che l’avevano ribattezzata Mohawk Deer), affondò al largo di Portofino durante il rimorchio verso il cantiere di demolizione; il relitto è oggi popolare meta d’immersioni.

I piroscafi gemelli Argus (sopra) ed Hydrus (sotto), della Interlake Steamship Company, affondarono nella stessa tempesta. L’Argus, carico di carbone, si spezzò in due il 9 novembre al largo di Pointe Aux Barques, sul lago Huron, senza superstiti tra i 25 uomini dell’equipaggio; il relitto sarebbe stato ritrovato nel 1972. L’Hydrus, carico di minerale di ferro, seguiva il Carruthers in navigazione verso sud sul lago Huron ed andò anch’esso a fondo con la perdita dell’intero equipaggio di 24 uomini; cinque di essi furono trovati, assiderati, in una scialuppa deposta dalle onde sulla sponda canadese del lago. Relitto localizzato nel 2015.

Il piroscafo statunitense Howard M. Hanna Jr., carico di carbone, venne spinto dalla tempesta ad incagliarsi davanti a Port Austin, sul lago Huron. Si aprì una falla a poppa, il fumaiolo cadde e lo scafo si spezzò al centro; per due giorni i 25 membri dell’equipaggio, in parte a prua ed in parte a poppa, rimasero bloccati a bordo del relitto spazzato dalle onde, senza luce, riscaldamento e fradici per l’acqua gelida che si riversava in tutte le aperture con ogni onda. La cuoca, Sadie Black, continuò a preparare pasti per tutti nella cucina semiallagata. Quando la furia del lago andò calmandosi, gli uomini rimasti a poppa calarono l’unica scialuppa rimasta intatta e raggiunsero la riva, mentre quelli che erano a prua furono recuperati da un mezzo di soccorso di Port Austin. Non si lamentarono vittime; l’Hanna fu recuperato e riparato l’anno seguente e continuò a solcare i laghi fino al 1983.

Il piroscafo canadese Leafield, carico di rotaie, fu una delle due vittime della tempesta sul lago Superiore. “Superior, they said, never gives up her dead when the gales of November come early”, recita una celebre canzone di Gordon Lightfoot. Nessuna traccia del Leafield e dei 18 uomini del suo equipaggio è mai stata trovata.

Il piroscafo statunitense Henry B. Smith, l’altra vittima della tempesta sul lago Superiore. Per tutto il 1913 la nave ed il suo comandante, capitano James Owen, erano stati perseguitati dalla sfortuna, con continui inconvenienti che avevano causato innumerevoli ritardi; la compagnia armatrice aveva detto ad Owen che se non avesse completato questo viaggio senza ritardi, avrebbe perso il posto. Fu probabilmente per questo che Owen, dopo l’ennesimo ritardo nel caricamento dovuto al gelo che aveva “incollato” il carico di minerale di ferro nei vagoni, partì in fretta e furia senza prima chiudere i portelloni di stiva, imprudenza gravissima in una tempesta. Poche miglia dopo aver lasciato il porto di Marquette, l’Henry B. Smith scomparve nella bufera; qualche giorno dopo venne ritrovato il corpo di uno dei 25 uomini dell’equipaggio, e le ossa di un altro nel 1914. Il relitto è stato localizzato nel 2013.

Il piroscafo passeggeri Huronic incagliato a Whitefish Point, sul lago Superiore. Partito con quasi 27 gradi in una giornata insolitamente calda per novembre, ben presto i suoi ponti si ricoprirono di neve e ghiaccio. Nessuna vittima tra i passeggeri (meno di un decimo dei 562 che poteva trasportare, nonostante gli sconti offerti dalla compagnia armatrice per l’ultima crociera della stagione) e l’equipaggio.

La Plymouth, una delle due vittime della tempesta sul lago Michigan, era una “schooner barge”, ossia una vecchia goletta (un tipo di veliero) privata di parte delle vele e convertita in chiatta che, in caso di vento favorevole, poteva issare le vele rimanenti facendo così risparmiare un po’ di carburante al rimorchiatore che la trainava; un tipo d’imbarcazione molto usata sui Grandi Laghi. La Plymouth aveva avuto un percorso anche più particolare, nascendo come piroscafo ad elica nel 1854, venendo privata della macchine e trasformata in veliero nel 1884 e poi in “schooner barge”. L’8 novembre 1913 lasciò Menominee, sul lago Michigan, diretta nel lago Huron con un carico di legname, a rimorchio del rimorchiatore James H. Martin; a bordo un equipaggio di sette uomini ed anche un U.S. marshal, Christopher Keenan, incaricato di vigilare sulla nave perché su di essa era in corso una controversia legale. Ben presto incontrarono la tempesta, e temendo che proseguire il rimorchio avrebbe portato alla perdita di entrambe le navi, il comandante del Martin condusse la Plymouth in quelle che sembravano essere acque riparate, dove la goletta si mise all’ancora, e poi si rifugiò col suo rimorchiatore in un altro punto della costa. Ma quando tornò a prenderla, due giorni dopo, la Plymouth non c’era più. Venne trovato soltanto il corpo di Keenan, ed un messaggio in bottiglia da lui scritto: “Cari moglie e figli, siamo stati lasciati qui sul lago Michigan da McKinnon, capitano del rimorchiatore James H. Martin, all’ancora. Se n’è andato e non ci ha salutati né detto niente. Ieri abbiamo perso un uomo. Siamo nella tempesta da 40 ore. Addio miei cari, magari vi rivedrò in paradiso. Pregate per me. P.S. Sto così male che ho dovuto far scrivere un altro al mio posto. Addio per sempre”.

Il vecchio piroscafo statunitense Louisiana, del 1887, aveva ancora lo scafo in legno. Partito scarico da Milwaukee, si ancorò davanti all’isola Washington, sul lago Michigan, per cercare riparo dalla tempesta, ma le ancore persero presa sul fondale e la nave finì con l’arenarsi. Come se non bastasse, scoppiò un incendio a bordo, che divorò la nave fino alla linea di galleggiamento. L’equipaggio raggiunse la riva su una scialuppa.

Il piroscafo canadese Regina, sopra, e sotto il ben più grande piroscafo statunitense Charles S. Price, sotto, che affondarono sul lago Huron a poca distanza l’uno dall’altro, con la perdita degli interi equipaggi, composti rispettivamente da 20 e 28 uomini. Un piccolo mistero è costituito dal fatto che alcuni corpi di vittime del Price furono trovati con addosso salvagenti del Regina: sulle prime si pensò che le due navi fossero entrate in collisione, ma il successivo esame dei due relitti ha mostrato l’assenza di danni da collisione. Una ipotesi è che le scialuppe del Regina, tentando di raggiungere la terra dopo aver abbandonato la nave, s’imbatterono nei naufraghi del Price e li issarono a bordo, salvo poi soccombere a loro volta alla tempesta; un’altra è che il Regina sia affondato proprio mentre cercava di soccorrere i naufragi del Price, manovra pericolosissima nel mezzo di una tempesta. In mancanza di sopravvissuti, non si saprà mai per certo cosa sia successo.

Il Charles S. Price, rovesciatosi nella tempesta, galleggiò capovolto per una settimana prima di affondare completamente.

Il piroscafo Turret Chief apparteneva al tipo “turret deck”, navi costruite a cavallo della fine del XIX secolo e caratterizzate da uno scafo dalla forma inusuale, con fianchi arrotondati e ricurvi verso l’interno al di sopra della linea di galleggiamento, al fine di ridurre la stazza netta (cioè il volume) della nave, così da pagare “pedaggi” più bassi nell’attraversamento del Canale di Suez. Durante la tempesta si arenò a poche miglia da Copper Harbor, sul lago Superiore, in un tratto di costa selvaggio e disabitato; l’equipaggio raggiunse la terraferma calandosi lungo due biscagline legate insieme, e sopravvisse per tre giorni con il poco cibo fradicio recuperato dalla nave ed un ricovero improvvisato prima di accorgersi di essere a due passi dalla civiltà. La nave fu successivamente disincagliata e riparata.

Il piroscafo statunitense Isaac M. Scott aveva iniziato male la sua carriera, speronando ed affondando un’altra nave durante il suo viaggio inaugurale nel 1909. La finì ancora peggio, inabissandosi nel lago Huron insieme ai 28 uomini dell’equipaggio ed al carico di carbone che stava trasportando da Cleveland a Milwaukee; furono trovati soltanto una scialuppa vuota ed il corpo del comandante. Il relitto è stato individuato nel 1976 ed il suo esame ha mostrato che la nave fu capovolta da un’onda anomala, affondando pressoché all’istante.

Il piroscafo William Nottingham si arenò sul lago Superiore; una scialuppa con tre volontari venne calata per andare a cercare aiuto, ma fu subito rovesciata dalle onde e gli occupanti inghiottiti dal lago. Il resto dell’equipaggio, esaurito il carbone, bruciò il grano del carico per mantenere le caldaie in funzione fino all’arrivo dei soccorsi.

Il piroscafo canadese Wexford, carico di grano, affondò al largo di Detour senza superstiti tra i 22 uomini dell’equipaggio. Gli abitanti di Detour sentirono la sirena di una nave fischiare a lungo il primo mattino del 9 novembre, mentre infuriava una bufera di neve; nei giorni successivi, rottami e cadaveri vennero depositati dalle onde sulle sponde del lago.
Altri tre marinai del Wexford dovettero la vita all’ubriachezza molesta che li aveva portati a passare una notte in guardina, rimanendo così a terra.
Il relitto del Wexford è stato trovato nel 2000, tra le vittime della grande tempesta è l’unica a giacere in assetto di navigazione.

Il piroscafo statunitense Henry B. Hawgood fu l’ultimo a vedere Wexford, Regina, Charles S. Price ed Isaac M. Scott prima che fossero inghiottiti dal lago Huron. Per due volte invertì la rotta, andando su e giù per il lago, cercando di evitare la zona in cui la tempesta era più violenta; quando il comandante ordinò la terza inversione di rotta il giovane timoniere Edward Kanaby, temendo che sarebbe stata quella fatale, disobbedì e mandò volontariamente la nave ad arenarsi sulla vicina spiaggia di Weiss Beach. Si salvarono tutti; Kanaby, morto nel 1993 a 98 anni (poco di meno era vissuto l’Hawgood, demolito nel 1986), volle che la nave venisse raffigurata sulla sua lapide.

La nave faro LV 82 Buffalo, unica vittima della tempesta sul lago Erie. Ancorata al largo della città eponima, rimase al suo posto durante la tempesta, fino ad essere strappata dagli ormeggi ed affondare il 10 novembre. Il relitto venne trovato nel maggio 1914, mentre dei sei uomini dell’equipaggio non fu ritrovato niente all’infuori di un messaggio scritto su un pezzo di legno dal comandante Hugh Williams: “Addio Nellie, la nave sta rapidamente andando in pezzi”. Recuperata nel 1915, la LV 82 venne riparata e riprese il servizio come nave faro fino al 1936.

Il piroscafo Northern Queen, in navigazione sul lago Huron con rotta verso nord, venne “girato” dalla tempesta fino a trovarsi involontariamente diretto verso sud. In una pausa nella tempesta di neve il suo comandante vide l’Argus, sospeso con la prua e la poppa sulla cresta di due onde e niente sotto lo scafo, spezzarsi in due ed affondare in un istante. Le onde devastano le sovrastrutture del Northern Queen e si riversarono all’interno attraverso i boccaporti sfondati, spegnendo le caldaie; perse ancore e timone, la nave si trovò alla deriva senza più controllo nella tempesta, fino ad incagliarsi a poca distanza da Port Franks, sulla sponda canadese del lago Huron. I 22 uomini dell’equipaggio raggiunsero la terra con l’aiuto degli abitanti del posto.

Il piroscafo statunitense John A. McGean, affondato sul lago Huron con tutti i 23 uomini dell’equipaggio. La violenza della tempesta ne strappò la timoniera, i boccaporti ed i portelloni di stiva, dopo di che l’acqua si riversò all’interno facendo capovolgere ed affondare la nave. Una scialuppa cui erano legati tre corpi congelati fu trovata qualche giorno dopo; non furono invece mai trovati i resti del comandante, Chauncey Nye, noto come “Dancing Chauncey” perché grande frequentatore delle sale da ballo dei laghi. Il relitto venne localizzato nel 1985.

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12 novembre 1940, la “notte di Taranto”. La città dei due mari era (ed a quanto mi risulta è tutt’ora) la principale base della flotta italiana, grazie alla sua posizione strategica che consentiva un rapido intervento verso il Mediterraneo centrale, fulcro della guerra aeronavale in quel teatro. Fin dal 1935, all’epoca della crisi scatenata dalla guerra d’Etiopia, la Royal Navy aveva preparato dei piani per un attacco di aerosiluranti contro questa base, per infliggere un duro colpo alla Marina italiana in caso di conflitto; adesso che il conflitto era effettivamente in corso, i piani furono rispolverati ed aggiornati.

L’attacco venne inizialmente pianificato per il 21 ottobre, anniversario della battaglia di Trafalgar, ma dovette essere rinviato di qualche settimana a causa di un incendio. Poi, l’11 novembre 1940 la nuovissima portaerei Illustrious, accompagnata da tre corazzate, due incrociatori e vari cacciatorpediniere, lasciò Malta - dov’era in precedenza giunta da Alessandria - per portarsi nella posizione prefissata per il lancio degli aerei.

Taranto era sulla carta una base navale di prim’ordine, ma nei fatti aveva diversi punti deboli. Le batterie contraeree di terra erano in gran parte composte da pezzi antiquati e sprovvisti di moderni strumenti per la direzione del tiro; su 12 km previsti di reti parasiluri, solo un quarto era stato realmente messo in opera, il resto era ancora in magazzino od addirittura in fabbricazione; e per colmo di sfortuna, appena pochi giorni prima dell’attacco una tempesta di vento aveva strappato i tre quarti dell’ottantina di palloni frenati il cui scopo era di ostacolare un attacco da parte di aerei a bassa quota. La sera dell’11 novembre molti ufficiali si trovavano a terra per festeggiare, al circolo della Marina, il compleanno di Vittorio Emanuele III.

Alle 20.30 dell’11 novembre l’Illustrious lanciò la prima ondata di 12 biplani Fairey Swordfish: due dovevano illuminare gli obiettivi lanciando bengala; sei attaccare con i siluri le corazzate all’ancora in Mar Grande; quattro condurre un attacco diversivo con bombe sul Mar Piccolo, dov’erano ormeggiati cacciatorpediniere e qualche incrociatore.

Gli Swordfish giunsero su Taranto poco prima delle 23, ed accolti da un un intenso tiro di sbarramento, passarono subito all’attacco. Il primo ad attaccare mise il suo siluro a segno, colpendo la corazzata Conte di Cavour, per poi essere subito dopo abbattuto; andò meglio e peggio al seconda ed al terzo, che non vennero colpiti ma non riuscirono, a loro volta, a colpire il loro obiettivo, la corazzata Andrea Doria. Altri due aerosiluranti colpirono alle 23.15 la modernissima corazzata Littorio su entrambi i lati, mentre il sesto ed ultimo lanciò contro la sua gemella Vittorio Veneto, ma il siluro esplose prematuramente senza causare danni.

Nel mentre i quattro Swordfish bombardieri colpivano i depositi di carburante e le navi ormeggiate in Mar Piccolo; una bomba colpì il cacciatorpediniere Libeccio sfondando qualche ponte e la murata ma senza esplodere, causando così danni modesti, mentre un secondo cacciatorpediniere, l’Emanuele Pessagno, ebbe lievi danni allo scafo per la concussione di bombe esplose in mare a pochissima distanza. Vennero anche distrutti due idrovolanti.

La prima ondata si concluse alle 23.20, ma dieci minuti dopo giunse la seconda, composta da quattro aerosiluranti ed altrettanto bombardieri, due dei quali con duplice ruolo anche di bengalieri. Degli aerosiluranti, uno mise a segno un terzo siluro sulla martoriata Littorio; un altro colpì con un siluro la corazzata Duilio; il terzo mancò di nuovo la Vittorio Veneto ed il quarto fu abbattuto dall’incrociatore pesante Gorizia, che aveva attaccato. L’attacco dei bombardieri vide una bomba a segno sull’incrociatore pesante Trento, che ebbe danni non gravi perché come già sul Libeccio, la bomba che lo colpì non esplose.

A mezzanotte e mezza del 12 novembre l’attacco era concluso; delle tre corazzate silurate, Littorio e Duilio furono salvate in extremis portandole ad incagliare su bassifondali (rimasero poi fuori combattimento per vari mesi) mentre affondò la Cavour, che si attese troppo prima di portare all’incaglio. Relativamente contenute, essendo l’attacco avvenuto in porto, furono le perdite umane; morirono 59 uomini, di cui 32 sulla Littorio, 17 sulla Cavour, tre sulla Duilio, i rimanenti a terra.

Al prezzo della perdita di due aerei, i britannici avevano dimezzato, almeno per qualche tempo, il numero di corazzate della Marina italiana, ottenendo così una maggior libertà d’azione nel Mediterraneo.

La corazzata Conte di Cavour. Risalente alla prima guerra mondiale, era stato oggetto di radicali lavori di ammodernamento a metà anni Trenta, che avevano lasciato della vecchia nave il solo scafo, anch’esso pesantemente modificato. Fu colpita da un siluro alle 23.15, che esplose sotto lo scafo aprendo uno squarcio di 12 metri per otto appena a proravia del torrione di comando; con vari compartimenti in rapido allagamento e le pompe che non riuscivano a farvi fronte, il suo comandante Ernesto Ciurlo decise di portarla ad arenare sui bassifondali per evitarne l’affondamento, ma l’ammiraglio Bruto Brivonesi, recatosi a bordo (si potrebbe scrivere un libro sui casini combinati da lui e dal degno fratello Bruno), annullò l’ordine ritenendo di poter salvare la nave senza farla incagliare. Dopo un’animata discussione Ciurlo lasciò furente la plancia gettando il berretto e sbottando “Non sono più il comandante della Cavour!”. Alle 4.20, con la situazione ormai fuori controllo, l’ammiraglio si decise finalmente per l’incaglio, ma ormai era troppo tardi. Alle cinque la Cavour toccò il fondale, sbandò paurosamente come se stesse per capovolgersi, poi si raddrizzò ed affondò lasciando emergenza artiglierie e sovrastrutture. Brivonesi, Ciurlo e l’equipaggio trasbordarono sui rimorchiatori giunti in assistenza o si gettarono direttamente nelle acque della rada. La nave fu riportata a galla nel giugno 1941 e rimorchiata a Trieste per le riparazioni, che tuttavia non furono mai ultimate per via dell’andamento della guerra. Caduta in mano tedesca dopo l’armistizio, fu nuovamente affondata a Trieste da un bombardamento aereo nel 1945 e demolita nel dopoguerra.

La corazzata Duilio, simile alla Cavour, fu colpita sul lato di dritta da un siluro che aprì uno squarcio di 11 metri per 7, allagando i depositi munizioni prodieri. Per ordine dell’ammiraglio Carlo Cattaneo la nave venne portata ad arenarsi su un bassofondale, evitando così la fine della Cavour; ad eseguire la manovra fu Piero Calamai, ufficiale della Marina Mercantile richiamato con il grado di capitano di corvetta di complemento, destinato nel doppio a diventare famoso come comandante dello sfortunato transatlantico Andrea Doria (che, ironia della sorte, era anche il nome della gemella della Duilio). Tamponata la falla, venne rimorchiata a Genova nel gennaio 1941 per le riparazioni, sopravvivendo indenne al bombardamento navale di quella città di qualche settimana dopo. Tornò in servizio nel maggio 1941. Insieme alla gemella Andrea Doria fu una delle due corazzate lasciate dall’Italia dal trattato di pace; ormai obsoleta, fu impiegata nell’addestramento fino alla demolizione, avvenuta nel 1957.

La corazzata Littorio, ben più grande e moderna di Cavour e Duilio e nave di bandiera dell’ammiraglio Inigo Campioni, incassò ben tre siluri, due a prua sulla dritta ed uno a poppa sulla sinistra, che distrusse il timone. Gran parte delle pompe principali furono messe fuori uso dalle esplosioni , impedendo di arginare adeguatamente gli allagamenti; il comandante Massimo Girosi chiese ed ottenne dall’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante della IX Divisione Navale cui la Littorio apparteneva, l’autorizzazione a portarla all’incaglio, manovra completata alle 6.25. La prua della Littorio fu sommersa fino all’altezza della prima torre del calibro principale.
Rattoppata, disincagliata e rimorchiata in bacino nel dicembre 1940, la Littorio tornò in servizio nel marzo 1941. Ribattezzata Italia dopo la caduta del fascismo, fu demolita nel 1948 per disposizione del trattato di pace.

Il generale del Genio Navale Umberto Pugliese, uno dei più brillanti ingegneri della Regia Marina, progettista tra l’altro delle corazzate classe Littorio ed ideatore del sistema di difesa subacquea in uso sulle corazzate italiane. Espulso dalla Marina nel 1938 perché ebreo, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, ci si rivolse però a lui per organizzare il recupero delle corazzate silurate a Taranto; accettò a patto di poter tornare ad indossare la sua vecchia divisa. Successivamente, nel 1941, fu riammesso in Marina grazie ad una clausola delle leggi razziali che permetteva l’esenzione di ebrei che si erano distinti per “meriti eccezionali”, ed anche decorato. Arrestato dalle SS a Roma dopo l’armistizio, riuscì a farsi rilasciare persuadendoli di essere “ariano”, dopo di che si nascose fino alla fine della guerra. Perse invece la sorella, deportata ad Auschwitz. Morì nel 1961.

L’ammiraglio Inigo Campioni, comandante della flotta da battaglia italiana all’epoca dell’attacco a Taranto. Meno di un mese dopo fu sostituito dall’ammiraglio Angelo Iachino, perché ritenuto troppo cauto; nominato sottocapo di Stato Maggiore della Marina, divenne poi governatore del Dodecaneso, ruolo che ancora ricopriva all’armistizio dell’8 settembre 1943. Per aver opposto resistenza all’occupazione tedesca dell’arcipelago fu condannato a morte dalla repubblica di Salò con un processo farsa e fucilato il 24 maggio 1944.

Gli ammiragli Bruto Brivonesi, Carlo Cattaneo e Carlo Bergamini (da sinistra a destra), comandanti della V, VI e IX Divisioni Navali cui appartenevano rispettivamente Cavour, Duilio e Littorio. Brivonesi fece danni a Taranto e ne avrebbe fatti ancora in seguito; sopravvisse alla guerra. Campioni, passato al comando della I Divisione Navale, morì il 29 marzo 1941 nella battaglia di Capo Matapan. Bergamini, promosso al comando della squadra da battaglia, morì all’indomani dell’armistizio quando la sua nave ammiraglia, la corazzata Roma, esplose colpita da una bomba-razzo tedesca.

Il cacciatorpediniere Libeccio mostra i lievi danni, riparati in pochi giorni, causati dalla bomba che lo colpì senza esplodere. Il Libeccio fu affondato quasi esattamente un anno dopo, il 9 novembre 1941, da un siluro lanciato dal sommergibile HMS Upholder mentre raccoglieva naufraghi di navi affondate nel Mediterraneo centrale.

L’incrociatore pesante Trento, anch’esso colpito da una bomba che non esplose. Fu affondato il 15 giugno 1942, durante la battaglia di Mezzo Giugno, dapprima immobilizzato da un aerosilurante e poi finito dal sommergibile HMS Umbra, con la perdita di 570 dei 1151 uomini dell’equipaggio.

Il cacciatorpediniere Emanuele Pessagno, leggermente danneggiato da bombe esplose in mare a poca distanza. Fu affondato il 29 maggio 1942 dal sommergibile HMS Turbulent, durante la scorta ad un convoglio diretto in Libia, portando con sé 159 dei 245 uomini dell’equipaggio.

Gli ammiragli Andrew Browne Cunningham (sopra), comandante in capo della Mediterranean Fleet, ed Arthur Lumley Lyster, comandante delle portaerei della Mediterranean Fleet ed autore del piano d’attacco contro Taranto.

La portaerei britannica Illustrious, che lanciò gli aerei che attaccarono Taranto. Nuova di zecca (era entrata in servizio meno di sei mesi prima), pochi mesi dopo l’attacco a Taranto fu gravemente danneggiata da bombardieri tedeschi e mandata negli Stati Uniti per le riparazioni. Operò successivamente in Oceano Indiano per poi tornare in Mediterraneo nel 1943, per partecipare allo sbarco a Salerno. Gli ultimi due anni di guerra li passò operando contro i giapponesi.

Un aerosilurante Fairey Swordfish, prodotto per la prima volta nel 1934. Nonostante l’aspetto tutt’altro che moderno, questo biplano diede alla Royal Navy parecchie soddisfazioni, cogliendo diversi successi in Mediterraneo (dove furono in assoluto i primi aerosiluranti della storia ad affondare una nave, il cacciatorpediniere italiano Zeffiro, pochi mesi prima di Taranto) ed azzoppando in Atlantico la corazzata tedesca Bismarck, consentendo così alle forze di superficie della Royal Navy di raggiungerla ed affondarla. Rimase in servizio fino alla fine della guerra, superando in longevità alcuni modelli di aereo progettati per sostituirlo.

Il relitto di uno dei due Swordfish abbattuti, quello pilotato dal capitano di corvetta Kenneth Williamson con osservatore il tenente di vascello N. J. Scarlett. I due membri dell’equipaggio sopravvissero e, raggiunto a nuoto un bacino galleggiante, furono fatti prigionieri. Non ebbe la stessa fortuna l’equipaggio dell’altro Swordfish abbattuto, tenenti di vascello Gerald Bayly ed Henry James Slaughter; del primo fu recuperato il corpo, sepolto con gli onori militari a Taranto, mentre il secondo non fu mai trovato.

Il tenente di vascello Frederik Michael Alexander Torrens-Spence, asso degli Swordfish. A Taranto fu tra i siluratori della Littorio; qualche mese dopo, a Capo Matapan, silurò l’incrociatore italiano Pola ponendo le basi per la vittoria britannica in quella battaglia. Nordirlandese, dopo la guerra ed il congedo dalla Royal Navy fu funzionario di polizia e poi comandante di battaglione nell’Ulster.

Ufficiali della Marina imperiale giapponese parlano con colleghi italiani durante una visita a Taranto, maggio 1941. Gli alleati del Sol Levante erano interessati a saperne di più sull’attacco per via di una loro ideuzza che accarezzavano da qualche tempo circa una base navale statunitense nelle Hawaii.

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Alla faccia, dei trattati :lode:

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Taranto fu il primissimo esempio di quanto chi componeva Supermarina (e Superaereo :asd:) fossero inadeguati, una figura di merda mastodontica

i Brivonesi :rotfl:

fa sorridere inoltre che per i trattati ci lasciarono le corazzate più vecchie mentre per la Littorio\Italia fu imposto lo smantellamento :asd:

Il periodo fascista fu il più patetico di sempre nella storia italiana dal punto di vista militare, pari forse solo alla precedente guerra di Abissinia, quando i Savoia si erano messi in testa di diventare una potenza coloniale e invece l’esercito del regno d’italia perse malamente la Battaglia di Adua, prima “potenza” coloniale europea a perdere così male contro truppe africane, ci presero per il culo per anni in tutta Europa :rotfl:

Ad essere pignoli un’altra potenza coloniale, nientemeno che l’impero britannico, le aveva già prese dagli Zulu ad Isandlwana, nel 1879. Zulu che tra l’altro erano proprio armati con lance e frecce, a differenza degli abissini cui intelligentemente avevamo venduto i fucili prima d’invaderli. La differenza fu che dopo Isandlwana gli inglesi tornarono in forze e fecero il culo agli Zulu, mentre dopo Adua l’Italia lasciò perdere perché aveva problemi interni più gravi di cui occuparsi, che avrebbero dovuto sconsigliare un’avventura coloniale (le proteste di Milano, la strage di Bava Beccaris e l’uccisione di Umberto I dovevano seguire a stretto giro).

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Per non farli gasare troppo li abbiamo gasati noi :unsisi:

ma lasciagli credere che solo noi eravamo cattivi e consideravamo l’Africa popolata da scimmie

appunto :asd:

Le immagini di navi del genere che affondano mi fanno danno critico ogni volta.
La quantità di intelletto, materiale, ore di lavoro manuale, trasformato tutto in spazzatura (e pure potenzialmente inquinante).

Beh però quali erano i numeri in gioco nel caso di inglesi e zulù e quali nel nostro :asd: ?

Ma chi ha detto fossimo solo noi?

Non farti infinocchiare da Vecchioni “ad Adua si era in mille conto duecento negri” :asd:

Se caso era il contrario, gli inglesi erano più in svantaggio numerico di quanto lo eravamo noi, ma lascio la parola all’esperto @Deo :asd:

Allora: Adua: 17.000 italiani (anzi, italiani ed ascari, c’erano quasi 7000 soldati eritrei e tigrini che se catturati fecero una triste fine) contro 80.000-100.000 etiopi, quindi rapporto di circa cinque ad uno a ns sfavore; Isandlwana, 1800 inglesi (anche qui, un buon migliaio erano ascari) contro 15.000-20.000 Zulu, quindi rapporto di circa dieci ad uno a sfavore dei britannici.

Se non ricordo male i eritrei e tigrini venivano trattati come pezze da piedi e schiavizzati dagli Etiopi non era difficile reclutarli in zona.

Ma la vera differenza è che gli inglesi persero una battaglia, il Regno d’Italia perse malamente una guerra.