History ph... no, post lunghi

nel topic nessuno, ma è sentimento comune (e il discorso dei gas è uno degli eventi a cui ci si appella di più) che solo gli italiani sono stati brutti e cattivi con gli africani

vero, ma ci si dimentica spesso che c’è un motivo se l’Etiopia non è mai stata colonizzata completamente prima del 1936 :asd:
aveva un esercito regolare (anche molto numeroso) ed era armato abbastanza bene, sicuramente non a livello degli stati europei ma nemmeno con archi e frecce

comunque i britannici affrontarono gli zulù con due diversi contingenti da 15-20k uomini (metà circa europei), gli zulu non ressero anche per questo (mi pare che in armi fossero 30k in tutto o giù di lì)

Va ricordato che in quelle guerre coloniali il ruolo delle malattie tropicali a cui le popolazioni autoctone erano ben più resistenti, nel Natal i britannici avevano avuto non pochi problemi e da loro veniva ritenuto il principale ostacolo a un invasione su larga scala di un paese vasto come l’Etiopia quando era entrata nelle mire italiane.

Ma nel '36 avevamo Aldo Castellani che era uno specialista che era riuscito a sconfiggere anche la tirchieria di Badoglio.

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Direi che il peggiore di tutti fu sicuramente Leopoldo II del Belgio

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Intermezzo più pacifico, storico-naturalistico.

Lo stambecco alpino, specie endemica delle Alpi, alla metà del XIX secolo era ormai sull’orlo dell’estinzione dopo secoli di caccia spietata: nell’arco alpino - ed al mondo, ché solo qui vive questa specie - ne sopravvivevano solo una sessantina di esemplari, concentrati in Val d’Aosta, nelle valli attorno al massiccio del Gran Paradiso. A salvare la specie dalla completa estinzione fu paradossalmente proprio un appassionato cacciatore: Vittorio Emanuele II di Savoia.

Il primo re d’Italia era solito condurre battute di caccia tra le montagne valdostane, e non tardò a rendersi conto che se la caccia indiscriminata allo stambecco fosse continuata, di lì a poco di stambecchi da cacciare non ne sarebbero più rimasti per nessuno, nemmeno per lui; pertanto nel 1856 fece istituire nelle valli attorno al Gran Paradiso una riserva di caccia reale, entro la quale solo lui aveva il diritto di cacciare.

Vittorio Emanuele II durante una battuta di caccia allo stambecco

Grazie a questa inconsueta “protezione”, la popolazione di stambecco iniziò una graduale ripresa. Nel 1919 Vittorio Emanuele III, meno interessato alla caccia rispetto al nonno, cedette i territori della riserva di caccia allo Stato, condizionando la cessione all’istituzione in essi di un’area protetta. Questo proposta ebbe attuazione il 3 dicembre 1922, quando lo stesso Sciaboletta firmò il regio decreto con cui veniva istituito su un’area di 71.000 ettari il Parco Nazionale del Gran Paradiso: il primo parco nazionale italiano.

Sopra, il rifugio Vittorio Emanuele II, costruito nel 1884; sotto, il rifugio Vittorio Sella in un’immagine del 1922

Nel 1933 la popolazione di stambecco era salita a 4000 esemplari, ma proprio in quell’anno la Commissione Reale per la gestione del parco venne sciolta, e la gestione venne trasferita direttamente al Ministero dell’Agricoltura. Al posto dei vecchi guardiaparco, il parco venne affidato alla Milizia Forestale: branca della MVSN incaricata della gestione del patrimonio forestale, in sostanza la guardia forestale ma in camicia nera. Il personale della Milizia assegnato al parco veniva in gran parte da altre regioni d’Italia, spesso da zone non montane, mandato lì per punizione: ne conseguì un peggioramento della sorveglianza e la ripresa del bracconaggio, e talvolta la caccia degli stambecchi era ordinata dalle stesse autorità locali in occasione di qualche banchetto importante.

Milite della Milizia Forestale nel parco

La situazione peggiorò ulteriormente con la seconda guerra mondiale, che spinse i valligiani a riprendere la caccia per ragioni di mera sussistenza. Alla fine del conflitto la popolazione di stambecchi del Gran Paradiso (e del mondo) era crollata a 400 esemplari.

Nel 1947 il parco fu affidato ad un neocostituito Ente Parco presieduto dal professor Renzo Videsott, alpinista, veterinario e naturalista, tra i pionieri dell’ambientalismo in Italia. Videsott aveva lavorato per ricostruire l’organizzazione del parco, a titolo “privato” e volontario e con il beneplacito del Comando Alleato, già dal 1945, appena cessate le ostilità; ne rimase presidente per più di vent’anni, fino al 1969.

Guardie del PNGP negli anni Cinquanta

Nei decenni successivi, datosi il parco un assetto definitivo e finita l’era dei grandi stravolgimenti, la popolazione degli stambecchi progressivamente esplose; dalla val d’Aosta gli stambecchi tornarono ad espandersi nelle regioni confinanti, ed attraverso il trasferimento di esemplari prelevati dal parco, vennero reintrodotti anche nel resto dell’arco alpino.

Oggi si stima che circa 55.000 stambecchi vivano nelle Alpi; tutti discendono dalla sessantina che sopravviveva in Val d’Aosta due secoli fa.

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Up, grande :lode:
Possiamo quindi dire che i savoia hanno fatto anche cose buone

accidentalmente per loro tornaconto :asd:

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9 dicembre 1940, con l’attacco a Nibeiwa inizia l’operazione “Compass”, la Caporetto del deserto.

Esattamente tre mesi prima, il 9 settembre, la X Armata italiana, dopo lunghi e motivati tentennamenti, aveva invaso l’Egitto dalla confinante Libia, avanzando per un centinaio di chilometri senza incontrare grande resistenza (i britannici, in netta inferiorità numerica, avevano preferito ripiegare su posizioni più difendibili senza dare battaglia) fino ad attestarsi presso la cittadina di Sidi el Barrani. Qui l’armata si era fermata in attesa del completamento di una nuova strada e di acquedotti necessari per alimentare un’ulteriore avanzata verso Marsa Matruh, prevista per metà dicembre.

Alcune immagini dell’avanzata italiana in Egitto. Carri M11/39…

….carretti armati L33…

anche con lanciafiamme!

…truppe autocarrate…

…ma i più avanzavano a piedi. Italiani…

…e libici.

Comandante della X Armata era il generale Mario Berti, ma di fatto le operazioni erano gestite direttamente dal governatore della Libia e comandante in capo delle forze italiane nell’Africa settentrionale: il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che era al contempo anche capo di Stato Maggiore del Regio Esercito. Tra i protagonisti della storia militare italiana durante il ventennio fascista, Graziani aveva alle sue spalle una carriera sviluppata quasi interamente in Africa, dove aveva espanso i domini coloniali italiani a suon di crimini di guerra: prima con la decennale campagna di “pacificazione” della Libia, ottenuta mediante eccidi, deportazioni, esecuzioni sommarie che gli avevano valso il soprannome di “macellaio del Fezzan”; poi con la conquista dell’Etiopia, dove in qualità di viceré aveva represso con brutalità la resistenza degli Arbegnoch ed ordinato, in rappresaglia per un attentato nel quale era rimasto ferito, l’eccidio di Debra Libanos. A differenza del suo diretto superiore (ed altrettanto criminale di guerra) Pietro Badoglio, un opportunista pronto a servire pedissequamente il regime ma in ultimo fedele in primo luogo ai Savoia, Graziani era di sicura fede fascista e lo avrebbe mostrato anche dopo l’8 settembre, diventando ministro della Difesa di Salò mentre Badoglio, caduto il regime, era stato nominato da Sciaboletta primo ministro del nuovo governo. Da ultimo i due, che avrebbero meritato entrambi di penzolare da una forca, avrebbero condiviso la totale impunità.

Sopra, il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, comandante in capo delle forze italiane in Africa Settentrionale. Sotto, il generale Mario Berti, comandante della X Armata. Aveva comandato le truppe italiane in Spagna durante la guerra civile; era in pessimi rapporti con Graziani, che di fatto prese ogni decisione al suo posto per poi destituirlo dopo poche settimane dall’inizio dell’offensiva britannica.

Bersaglieri in motocicletta

Camicie nere della divisione “3 gennaio” a pranzo nel deserto

Ufficiali del Regio Esercito e della Regia Aeronautica nel settembre 1940. Tra di essi il generale Nino Sozzani ed il colonnello Attilio Biseo, capo di stato maggiore della 5a Squadra aerea di stanza in Libia. Una curiosità: Biseo, già pilota di fiducia di Mussolini e trasvolatore atlantico, era cugino di Charles Ponzi, quello dello schema di Ponzi.

La X Armata, stanziata in Cirenaica, era forte di ben 150.000 uomini, 1600 cannoni e 600 mezzi corazzati, divisi in quattro corpi d’armata per un totale di cinque divisioni di fanteria italiane, due divisioni libiche (ufficiali italiani e truppa indigena) e tre divisioni di camicie nere, oltre a reparti minori. Disgraziatamente, alla forza numerica non corrispondeva una eguale efficacia bellica. L’addestramento della truppa lasciava molto a desiderare (circolano storie di soldati mandati in Africa dopo aver sparato pochi caricatori contro un bersaglio fisso, o di “meccanici” assegnati a tale ruolo senza conoscere le parti di un motore); gli automezzi disponibili erano in numero insufficiente per trasportare questa masssa d’uomini, che doveva pertanto spostarsi - nel deserto - principalmente a piedi; i pezzi d’artiglieria erano in massima parte antiquati e soprattutto i mezzi corazzati, che avrebbero giocato un ruolo cruciale nella guerra nel deserto, erano assolutamente ridicoli: carr(etti) armati leggeri L3, chiamati “scatole di sardine”, armati solo con una doppia mitragliatrice e vulnerabilissimi per via della scarsa corazatura; carri medi M11/39, con cannone fisso e non in torretta, così da costringere l’intero mezzo a girare verso ciò contro cui doveva fare fuoco. Erano delle autentiche bare di ferro; i più recenti e validi M13/40 stavano iniziando ad arrivare, ma erano pochi e come se non bastasse, non riuniti in una grande unità corazzata ma divisi in reparti minori dove non potevano fare numero.

Genieri italiani fanno manutenzione ad un palo telegrafico

Piloti della Regia Aeronautica studiano una mappa

Rasatura nel deserto

Ufficiali della Divisione “3 gennaio” si fanno un cicchetto

Ad avanzare fino a Sidi el Barrani era stato il corpo d’armata libico del genere Sebastiano Gallina, con le due divisioni libiche, la divisione camicie nere “3 gennaio” ed il raggruppamento Maletti, un reparto misto composto da un battaglione di carri armati, quattro battaglioni di fanteria libica, un battaglione motorizzato “sahariano” concepito specificamente per le azioni nel deserto e reparti minori di artiglieria, mortai e Genio. Quest’ultimo era probabilmente il reparto dell’armata meglio preparato per la guerra nel deserto, e ne costituiva infatti l’avanguardia; lo comandava il generale Pietro Maletti, vecchio collaboratore di Graziani nelle sue campagne africane ed esecutore materiale della strage di Debra Libanos. Graziani e Maletti non erano i soli criminali di guerra in seno alla X Armata; anche il comandante del corpo d’armata libico, generale Gallina, ed il comandante della Divisione “Marmarica”, generale Ruggero Tracchia, erano stati responsabili di eccidi ed esecuzioni sommarie in Etiopia.

Sopra, il generale Pietro Maletti; sotto, il generale Sebastiano Gallina

Poco saggiamente, le truppe che occupavano Sidi el Barrani avevano stabilito una serie di accampamenti fortificati nel deserto, troppo distanti tra loro per poter intervenire in reciproco soccorso in caso di attacco: a Nibeiwa il raggruppamento Maletti; a Maktila la prima divisione libica; a Tummar la seconda; mentre il comando di corpo d’armata e la Divisione “3 gennaio” erano a Sidi el Barrani. In posizione più arretrata, a ridosso del confine libico, c’erano le due divisioni fanteria del XXI Corpo d’armata, “Cirene” e “Catanzaro”.
In tutto le truppe italiane in territorio egiziano ammontavano a circa 60.000 uomini (il resto della X Armata era rimasto in Cirenaica, a presidio delle piazzeforti di Tobruk e Bardia).

Sopra, Sollum e sotto, Sidi el Barrani durante l’occupazione italiana

Accampamento della Divisione “3 gennaio”

Ascari libici in una buca

Il generale Armando Pescatori, comandante della 2a Divisione libica, nel suo accampamento

Postazioni difensive della divisione “3 gennaio”

Ufficiali ed ascari della 2a Divisione libica accampati nel deserto

Una delegazione tedesca giunta in visita nell’autunno 1940

I britannici avevano passato gli ultimi tre mesi a rafforzare le loro posizioni in Egitto, facendo affluire truppe da Australia ed India e soprattutto facendo arrivare i nuovi carri da supporto fanteria “Matilda”, mostri da 27 tonnellate la cui fortissima corazzatura li rendeva pressoché invulnerabili a qualsiasi cannone anticarro italiano disponibile all’epoca in Africa settentrionale. Quando ritennero d’essere sufficientemente pronti, passarono al contrattacco. In totale la Western Desert Force, al comando del brillante generale Richard O’Connor, contava meno di 40.000 uomini, ma molto meglio armati, addestrati e, soprattutto, motorizzati rispetto ai corrispettivi italiani. Inoltre, in termini di mezzi corazzati i britannici avevano un vantaggio sia numerico che qualitativo rispetto ai 120 carri e… carretti armati italiani presenti a Sidi el Barrani e dintorni. Il piano era semplice: sfruttare la frammentazione delle forze italiane nei vari campi fortificati per attaccarli in forze uno per volta, annullando così la superiorità numerica italiana. Secondo il piano originario, “Compass” doveva durare cinque giorni e ricacciare gli italiani oltre il confine libico. Le cose sarebbero andate un po’ diversamente.

Un carro “Matilda”, mezzo che ebbe un peso determinante nel successo di “Compass”

Sopra, il generale Richard O’Connor e sotto il suo diretto superiore, generale Archibald Wavell, comandante in capo delle forze britanniche in Medio Oriente.

La dislocazione delle truppe italiane

L’attacco fu sferrato nelle prime ore del 9 dicembre 1940. Cinquemila soldati dell’11a Brigata indiana, appoggiati da 47 carri “Matilda”, assaltarono Nibeiwa, tenuta dai 4100 uomini e 28 carri del Raggruppamento “Maletti”; mentre la fanteria indiana conduceva un attacco diversivo sul lato orientale del campo, i carri armati attaccarono da quello occidentale, cogliendo di sorpresa i difensori. Gli equipaggi dei carri italiani vennero falciati mentre correvano verso i loro mezzi, alcuni dei quali vennero catturati intatti; quelli che riuscirono a mettere in moto vennero rapidamente distrutti dai ben più grandi e meglio armati carri britannici. Il generale Maletti, svegliato di soprassalto, fu colpito a morte mentre ancora in pigiama sparava sugli attaccanti con una mitragliatrice (fu il primo generale italiano ad essere ucciso in combattimento durante la seconda guerra mondiale). Gli artiglieri italiani videro con orrore che i loro colpi non facevano che graffiare la vernice dei “Matilda”; qualcuno tentò di attaccare i carri armati con bombe a mano e bombe molotov, ma senza molto successo. Entro le undici del mattino era tutto finito: 819 italiani giacevano sul terreno e 1338 erano stati feriti; duemila i prigionieri. Perdite britanniche: 56 morti e 27 carri fuori uso, parte per le mine e parte per le avarie.

Un soldato della 4a Divisione indiana, che ebbe un ruolo centrale nella prima fase di “Compass”

Dopo Nibeiwa fu il turno di Tummar, diviso in due accampamenti (est ed ovest): una volta fatto rifornimento, i carri attaccarono per primo Tummar ovest nel primo pomeriggio del 9, preceduti da un’ora di tiro d’artiglieria e seguiti dalla fanteria. I Matilda fecero agevolmente a pezzi i carretti L3 e la fanteria libica lanciatasi al contrattacco; entro le quattro l’accampamento era in mano inglese e gli attaccanti passarono a Tummar est, che fu preso prima di notte. Oltre 1300 uomini della 2a Divisione libica erano rimasti uccisi, i superstiti furono in massima parte catturati.

La 1a Divisione libica, ormai all’erta, riuscì invece a ripiegare da Maktila a Sidi el Barrani. Reparti motocorazzati britannici avevano intanto aggirato la cittadina e raggiunto la strada che la collegava alla Libia, tagliando la principale via di comunicazione; la confusione che regnava nei comandi italiani è testimoniata da un ordine di Graziani delle 17 del 9 dicembre, in cui si ordinava al (defunto) generale Maletti di andare in soccorso della (già distrutta) 2a Divisione libica.

All’alba del 10 dicembre ebbe inizio l’attacco a Sidi el Barrani: il primo assalto britannico venne respinto dall’artiglieria italiana, ma gli inglesi tornarono alla carica appoggiati oltre che dai Matilda, anche dalla RAF e da cannoniere della Royal Navy che bombardarono Sidi el Barrani dal mare. Verso le 13.30 le camicie nere che tenevano i lati sud ed ovest del perimetro difensivo iniziarono ad arrendersi, dando il via ad una resa di massa; solo alcuni reparti d’artiglieria continuarono a combattere fino a sera. Due nuclei isolati di camicie nere e fanti libici resistettero fino al mattino dell’11, quando furono sopraffatti. Anche il generale Gallina fu catturato insieme a tutto il suo stato maggiore, come pure Tracchia (che sarà poi rilasciato durante la cobelligeranza: invano gli etiopi ne chiederanno poi la consegna per processarlo).

Il generale Gallina arriva prigioniero al Cairo. Rilasciato nel 1943 perché impazzito durante la prigionia, morirà in un bombardamento aereo in Piemonte nel 1945.

Dinanzi a questo sfacelo, Graziani ordinò alle divisioni “Cirene” e “Catanzaro” di ripiegare verso il confine libico; la prima ci riuscì dovendo però abbandonare quasi tutto il materiale pesante, mentre la seconda fu catturata per due terzi da reparti motocorazzati britannici mentre si ritirava a piedi lungo la strada costiera.

Prigionieri italiani, scortati da truppe britanniche, marciano lungo la “Via della Vittoria”, la prosecuzione in terra egiziana della Via Balbia costruita tra il settembre ed il dicembre 1940 per agevolare l’ulteriore avanzata italiana in Egitto. Servì invece agli inglesi per avanzare verso la Libia.

Immagini della vittoria in un giornale britannico

Nell’arco di tre giorni i britannici avevano respinto gli italiani al confine egiziano, inflitto migliaia di morti e feriti e preso 38.000 prigionieri, tra cui cinque generali, perdendo 624 tra morti e feriti. Il 12 dicembre Graziani scrisse a Mussolini “riterrei mio dovere, anziché sacrificare la mia inutile persona sul posto, portarmi a Tripoli, se mi riuscirà, per mantenere almeno alta su quel Castello la bandiera d’Italia, attendendo che la Madrepatria mi metta in condizioni di continuare a operare”; il dittatore non lo destituì soltanto perché appena due settimane prima aveva silurato Badoglio, ritenuto responsabile del contemporaneo disastro in Grecia, e pensò che destituire un altro maresciallo d’Italia a così poca distanza di tempo avrebbe avuto un effetto negativo sul morale.

Prigionieri italiani dopo la battaglia

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Dato il successo oltre le aspettative del suo attacco, O’Connor decise di espandere “Compass” per oltrepassare il confine e lanciare un’offensiva in Cirenaica…

(continua…)

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