diego fusaro



Sì ma le sorveglia male perché per dirla con Wittgenstein si fa giocatore e arbitro.

E non potrebbe essere diversamente perché questo organo di sorveglianza potrebbe esistere solo nel caso in cui esista un metalinguaggio.
Ma non esiste un metalinguaggio.

Cioé nessuno ha in mano i criteri per giudicare, ognuno è un filosofo che nel proporre i suoi criteri si espone a sua volta ad una critica.

Al massimo se l'organo di sorveglianza si pone solo come posizione di rompere il coglioni a chi fa affermazioni positive allora i più grandi analitici sono gli scettici postmoderni che sono contrari a tutto per principio.

Ad esempio, questa frase



Ci sono due modi per approcciare la domanda:

1) E' chiederti a tua volta cosa significhe sorvegliare ed epistelogicamente per poi procedere all'infinito fino al "significato di significato". In realtà questa procedura serve per mostrare che chi vuole giudicare è a sua volta incapace di mantenere i suoi stessi standard. Nega, detta in parole spicciole, l'autorità di chi vuole sorvegliare.

Questo perché le parole più che denotare servono a far capire.

E qua si passa alla seconda:
2) Cercare di farti capire confidando che tu non inizi una regressione all'infinito come avrei potuto fare io col punto (1). Allora ti racconterei una narrazione di cosa significa classe media e perché considero disonesto quello che hanno fatto con la classifica dell'università.
Ti parlerei della storia dei valori americani, del manifest destiny, del common sense di Payne, dello scientismo e della teoria delle due culture di C.P.Snow.
Ti parlerei dei club di dibattito dove si scelgono i migliori studenti di filo che poi andranno al dottorato e dove l'importante è compiacere i giudici e non essere corretti e di come le giurie sono fatte in maggioranza di maschi bianchi e benestanti.
E poi detto questo richiamerei l'attenzione su concetti come intuizione e common sense che sono ancora centrali nella filosofia analitica e che non sono mai stati giusitificati nonostante tutti si richiamino costantemente a loro.

Ti direi cose del genere. E poi cercare di sorvegliare i concetti quanto vuoi ma finiresti solo per fraintendermi, perché il discorso è fatto per capirsi, non per rappresentare il mondo.


Io spero solo che tu stia scherzando



Sì è vero, ma la presuzione degli analitici è che ci sia una via di mezzo tra lo scetticismo ad infinitum (tutto è criticabile) e l'anything goes (nulla è criticabile). Il post-modernismo è forse uno strano melange di questi due estremi, e spesso li utilizza alternamente in base a dove si trovi il potere (il potere è sempre criticabile, la debolezza non è mai criticabile: vedi il multiculturalismo, che difende le favole delle "etnie" deboli e condanna la favola dell'"etnia" forte, cioè il progresso).
Dunque gli analitici vogliono una via di mezzo, un criterio, e lo trovano nel senso comune, nel realismo naif, in un criterio di scientificità.
Tu muovi due critiche principali a questa posizione:

1) È una posizione ingenua perché crede che esista un metalinguaggio non criticabile e "evidente". Se è vero che è la posizione più mediocre, non la ridurrei comunque a dabbenaggine, visto che gli analitici comprendono bene che tale criterio è sospeso sul nulla, che è in qualche modo un atto di fede (nella ragione), e che dunque richiede un salto nel vuoto frutto di una meditatazione anacoretica. Un siffatto criterio diventa quasi un imperativo morale: agisci e parla come se una realtà esistesse! (come dunque se le parole e i discorsi potessero essere messi a confronto con il mondo e non solo finalizzati "a capirsi").

2) È una posizione assunta per difendere dei privilegi politici. Questa critica secondo me sottovaluta due aspetti.
Il primo è che gli analitici hanno sempre dato molta importanza alla ricerca di verità, a "salvare" le rappresentazioni del mondo più aderenti al mondo come si presenta, più corrispondenti dunque all'esperienza. Noi possiamo non essere d'accordo con il loro criterio di corrispondenza, ma dobbiamo ammettere che nelle loro ricerche gli analitici sarebbero più disposti a vendere i loro genitori piuttosto che a rinunciare o modificare "i risultati". Esiste un ethos della "verificazione" e derivati (per quanto noi possiamo considerarla un'illusione), che nell'altra sponta non esiste, ragion per cui io considero l'approccio continentale più propenso all'adozione di una concezione pragmatistica della concoscenza e della verità. Questo ovviamente non mette in difficoltà la tua tesi perché si potrebbe sempre sostenere che questo mito della verificazione è sul lungo periodo favorele agli interessi di una classe sociale a cui appertenevano e appartengono gli analitici. Ma nondimeno è importante essere consapevoli della portata simbolica di tali idee (esperienza, verificazione..) e del fatto che tale portata simbolica è riducibile alla difesa di interessi personali solo al costo di adottare una prospettiva radicalmente materialistica (che ridurrebbe a interessi personali anche l'astronomia babilonese). Si può ridurre l'attacco alla metafisica del circolo di vienna agli interessi di carnap, schlick e compagnia? (tra l'altro mill russell e wittgenstein erano tutto tranne che membri della classe media, quale che sia la definizione di classe media che si usa )
Il secondo punto è estremamente complesso e lo abbozzerò solamente: consiste nel fatto che noi siamo figli della tradizione "analitica" (nel senso sopra descritto) almeno in egual misura di quella "continentale". La democrazia è essa stessa il sistema politico più "mediocre" apparso sulla faccia della terra, e il "buon senso" è uno dei suoi valori più importanti (che poi l'instaurazione della democrazia richieda talvolta eroismo e prodezze è un discorso a parte: sarei tentato di dire che tanto più la democrazia ha prevalso grazie a eroi spartani, tanto meno questi eroi, occupati i posti dominanti, accetteranno le regole egualitarie e "vigliacche" della democrazia stessa). Popper, il filosofo mediocre per eccellenza, è anche quello che ha incarnato più puntualmente i valori e i principi della democrazia: apertura universalistica, realismo filosofico, miglioramento delle condizioni a piccoli passetti, critica razionale, via di mezzo tra il pessimismo e l'ottimismo antropologico, via di mezzo tra l'eguaglianza e la libertà. (Egli direbbe che le "grandi interpretazioni" hegelo-marxiste stanno alle critiche epistemologiche come i miti omerici stavano alle critiche dei filosofi della grande generazione greca, soprattutto talete anassimandro permenide e socrate: la filosofia nasce più "continentale" o più "analitica"? non ho gli strumenti per rispondere).
Questo vuol dire che rinunciare alla filosofia "analitica" significa rinunciare almeno parzialmente agli strumenti gnoseologici che permettono lo sviluppo di un sistema democratico. Con questo non sto facendo passare per pacifico un giudizio positivo sulla democrazia. Voglio dire che, se è evidente che la filosofia "analitica" tende a difendere lo statu quo in misura superiore della filosofia "continentale", è anche vero che una parte dello statu quo potrebbe non essere così deprecabile.

Insomma per me i due approcci sono entrambi essenziali e entrambi criticabili (e infatti Preve è pienamente legittimato a muovere le sue critiche, per quanto esse siano totalitarie, poiché mirate alla delegittimazione totale di uno dei due approcci, considerato da lui hors-la-loi).

Non capisco qual è la terza strada che proponi.
Non conosco inoltre questo affare della classifica delle università americane.
Quello che perdi di vista è che la (1) e la (2) sono collegate.

Partono dicendo di vivere come se una realtà esistesse per poi non vedere che la realtà che loro ammettono è solo la loro piccola realtà. Da questa posizione che sembra epistemologicamente rispettabile si passa velocemente, specie se si parla di etica a "vivi come se i tuoi pregiudizi fossero veri".

Ed il problema si ripresenta quando vai avanti. Quando parli nel secondo punto fai due mosse ideologiche:

(a) Parli che loro cercano di essere aderenti al mondo come si presenta a noi. Questo è un claim che loro fanno ma che in realtà risento. Se io capisco le argomentazioni che portano avanti in molti casi il mondo della filosofia analitica non è il mondo come mi si presenta. E questo è il punto che pià mi ferisce: che danno per scontato tutta una serie di cosa che io non posso dare per scontate o che assolutamente non vedo. E' questo il problema del senso comune, è comune solo per loro e non per me o per tanti altri.

(b) La giustificazione della rigorosità epistemologica su basi politiche è deleteria perché infrange quella vigilanza che tu invocavi prima. Si inizia parlando del rigore come modo per salvare la verità o la capacità di critica e poi si fa del rigore epistemologico uno strumento politico e non un fine. E il discorso politico secondo me muore lì, perché ciò che è deprecabile o meno dello status quo dipende solo da quali interessi e posizione sociale uno ha.
Non dimentichiamo che filosofi 'continentali' non sono solo Sartre o Heidegger, ma anche personalità come Habermas, teorico della democrazia partecipativa, che fonda la propria teoria del discorso su di un argomento trascendentale (per inciso, la teoria del discorso di Habermas riconosce: tanto la natura non interamente convenzionale del linguaggio - il linguaggio vuole fare riferimento a qualcosa di esterno ad esso; quanto l'importanza del consenso - non c'è discorso senza accordo sulle regole fra i partecipanti al discorso).

Un fiorente filone di filosofia giuridica e politica contemporanea di matrice democratica e liberale, è appunto legato all'idea della norma come argomentazione. L'impossibilità di giustificare ontologicamente le norme di valore non impedisce che queste siano giustificate mediante un'argomentazione.
All'interno di questo filone, le norme di valore possono imporsi non perché ontologicamente 'giuste' o 'vere', bensì in ragione della loro pubblica difendibilità attraverso l'argomentazione.
Non mi pare che Habermas sarebbe giunto altrimenti alla sua teoria della democrazia partecipativa (una democrazia che esalta il momento comunicativo instaurato da partiti e associazioni), se non partendo dall'idea dell'etica (e del diritto) come argomentazione.

E' questo un filone di pensiero che si collega a quello del cosiddetto diritto mite (in tanto argomentativo in quanto non coercitivo), dominante almento fino al 9/11.
Questo, il considerare l'importanza del consenso, è importante secondo me da un punto di vista giuridico in quanto hai il problema pratico e fattuale di costituire una società minimamente organica nei suoi giudizi legali e quindi anche se tagli qualche angolo con l'accetta non fa niente.

Filosoficamente l'argomentazione per consenso però non è sostenibile. Non puoi inserire all'interno della filosofia valori e giudizi in vista della loro pubblica difendibilità.


Mi fai degli esempi? per vedere se intendo ciò che hai in mente

si è vero il mio punto celava una grossa contraddizione; direi, per correggermi, che la rigorosità epistemologica non nasce per ragioni (strettamente) politiche e interessate, ma piuttosto per un etica (gesuitica) del limite, del rigore, della correttezza (so di non sapere); ma che tale rigorosità ha poi avuto una portata emancipativa quando ha smascherato le favole e le ideologie, dando vita per così dire ad un sistema politico basato sul "controllo" razionale (check and balances è la formula) - che è una favola tra le altre, come si sa.

Quindi il rigore epistemologico è sia fine, sia strumento, io personalmente ne apprezzo di più i caratteri finalistici, ma credo che ci siano delle ragioni per salvaguardarne anche la "funzione" a livello politico.

Non sono d'accordo con te quando dici che la deprecabilità di un sistema dipende solo dagli interessi e dalla posizione sociale di una persona. È una posizione eccessivamente relativistica che non permette alcun dialogo (la comunicazione di habermas, appunto!), perché suppone che non si possa valutare il sistema "al di là della propria situazione"; per me un sistema in cui tutti - me compreso - hanno 10 è meglio di un sistema in cui io ho 100 e gli altri hanno 5, e ciò nonostante che vada contro il mio "interesse" o la mia posizione sociale.


Habermas non lo conosco abbastanza per collocarlo in uno dei due ambiti. Sicuramente ha sempre condannato il positivismo degli analitici, ma da quel che ho letto non lo associo all'idea che ho in mente di filosofia continentale, e senza dubbio non alla filosofia delle "grandi interpretazioni" storicistiche e totaliste a cui fa riferimento Preve.

Tra l'altro, ecco cosa pensa Preve di Habermas: http://www.youtube.com/watch?v=IrWAEC2iPdM

su kant e il neo-kantismo: http://www.youtube.com/watch?v=X2Zqou8TtrE&feature=related
A prescindere da come vogliamo classificare Habermas (abbastanza peculiare nei suoi interessi ma che peraltro è considerato esponente della 'scuola' continentale), volevo solo sottolineare che, rispetto alla teoria democratica e liberale, esiste un proficuo e diffuso approccio noncognitivista che non può essere riferito alla scuola analitica.




Certo, non lo metto in dubbio, infatti il mio punto era mostrare semplicemente che i valori democratici e umanisti - spesso associati all'approccio continentale - si sono sviluppati anche grazie alla scuola analitica. Comunque è palese che questa distinzione è totalmente insoddisfacente e vada chiarificata. Se vogliamo riferirci alla distinzione di Preve parlerei di "rigore epistemologico" versus "grandi interpretazioni".
Mi verrebbe da chiedere: al giorno d'oggi, come si potrebbe immaginare di fare filosofia ignorando l'apporto delle scienze fisiche e naturali? Come si potrebbe fare filosofia pensando di contraddire le neuroscienze o la fisica? Che senso, che credibilità, che attualità avrebbe una ricerca filosofica del genere?

D'altro canto, abbiamo davvero bisogno di miti? (Fermo restando che, anche laddove ne avessimo bisogno, al di là della dimensione liberamente allegorica, l'apporto delle scienze dovrebbe sempre essere considerato e non contraddetto).
E qual è l'apporto dei miti alla politica, al diritto, all'etica, cioè alla filosofia pratica? Parafrasando un blogger del NYRB che si riferiva ad altro contesto, se di qualcosa abbiamo bisogno, è di qualche narrazione in meno, non di qualcuna in più. Il mito americano, l'Islam, il cristianesimo, lo stesso mito delle scienze esatte che tutto possono risolvere, non sono altrettante grandi narrazioni / interpretazioni? Il mito delle scienze esatte, in particolare, sebbene smantellato da filosofi della scienza come Kuhn (guarda caso un analitico), forse non fra i più dannosi, è tuttavia fra i più resistenti. E dove portano se abbracciate ciecamente, in quanto narrazioni che ripudiano il confronto con la realtà e la chiarificazione logica? La domanda è retorica.

Quindi, ben vengano le teorie del discorso che ammettono la necessità di procedimenti argomentativi non strettamente logici (Habermas, Toulmin). Quello che per Iroel non è sostenibile, per me è un compromesso abbastanza elegante per dare ragione di fenomeni che non sono spiegabili mediante il ricorso ai metodi delle scienze esatte.
Ma se, dalle teorie del discorso argomentativo non strettamente logico, passiamo al piano delle 'grandi interpretazioni', allora anche io sono scettico circa la loro bontà e utilità.

D'altro canto, una grande narrazione esiste ed è abbracciata da molte persone di senno e di buon gusto. Non trova il suo fondamento nella teoria del discorso di Habermas, né in qualche convenienza politica degli analitici, e la descriverò usando le parole di uno studioso di filosofia politica tratte dall'introduzione di un libro Laterza:

Il liberale non è un uomo dai convincimenti fiacchi e svigoriti, pronto a cedere agli argomenti dei suoi contraddittori; anche il liberale coltiva una precisa visione del bene, anche il liberale non è disposto a compromettere sul piano intellettuale il suo vero e il suo bene con il vero e il bene degli altri. Dall'intransigenza intellettuale, però, egli non deriva l'intolleranza giuridica. Il liberale non accetta che la sua verità divenga causa di restrizione dell'altrui indipendeza, e perciò non si arroga il diritto di imporre alcunchè a suon di pugni o di randellate. Difende, questo sì, l'inflessibilità - o se più piace chiamarla così - l'«intolleranza» intellettuale ma respinge l'intolleranza giuridica. E la respinge non già perchè le idee altrui gli siano indifferenti: no, la respinge perchè egli non riconosce a nessuno, nemmeno a se stesso, il diritto di imporre la virtù e la felicità con la forza. La virtù è veramente tale se nasce dallo sforzo consapevole che ciascuno compie per perseguirla. Imposta con le baionette abbrutiusce e perverte la dignità dei singoli. Ecco donde origina la tolleranza: dalla sollecitudine per la dignità morale dell'altrui persona. Non dall'indifferenza, dunque, e neppure dalla disponibilità a rivedere le proprie certezze, ma dal convincimento profondo che in ogni individuo vi è qualcosa di irragiungibile e di inviolabile.
Quali che siano i suoi valori, quali che siano le sue credenze, l'individuo è sacro e come tale va rispettato e protetto: questo è il principio assoluto della civiltà liberale. Il liberalismo, dunque, è una fede. Una fede come le altre, che come le altre fedi soddisfa l'ansia di assoluto. A differenza delle altre, però, questa liberale è una fede che non ammazza perchè è una fede che comanda di rispettare non la fede degli altri, ma gli altri qualunque sia la loro fede.


Il pensiero liberale, a ben guardare, è una narrazione. Non c'è strumento analitico che imponga il rispetto dell'altro in quanto persona. L'intangibilità della persona, il suo mistero, è una narrazione. Il concetto stesso di persona è scientificamente indefinibile. Abbiamo bisogno d'altre narrazioni?

Probabilmente sto divagando


No, è un bellissimo intervento
Mi viene da risponderti che tutto è una narrazione, un mito: la scienza, il liberalismo, il cristianesimo, la filosofia continentale e quella anlitica etc.
E visto che è oramai una tautologia definire un fenomeno culturale "narrazione" o "mito" (un po' come il termine "sociale"), tanto vale confrontare tutte queste narrazioni e vedere quali valgono più delle altre, quali narrazioni sono preferibili e così via.

Ora tu sei favorevole alla "narrazione" liberale e umanista e lo sono in buona parte anch'io, ma quello che Preve e il ragazzo prodigio sostengono, è che una narrazione nell'ambito della produzione filosofica (si tratta quindi un discorso metafilosofico come diceva Iroel) è più legittima e migliore di un'altra, namely quella delle grandi narrazioni e interpretazioni su quella che si limita a vagliare la validità epistemologica di ogni affermazione e pone come criterio un'isola di realtà piuttosto solida.

Il punto forte della prospettiva delle "grandi interpretazioni" è la profondità, il fatto che cerca di circoscrivere ogni limite o criterio per cogliere il tutto, e soprattutto stimola con decisione all'azione, aprendo nuovi orizzonti di possibilità. Per esempio, la grande interpretazione di Preve sulla tirannia del capitalismo globale, sul fatto che delle elites capitalistiche globalizzate ci sfruttano (e il suo significato nel corso della storia universale) è un'interpretazione che subirebbe molte critiche da parte di un'epistemologia rigorosa, ma ciò nonostante che essa stimolerebbe all'azione in un senso che molti di noi potrebbero ritenere valido.

Il punto debole, è che talvolta queste grandi interpretazioni stimolano all'azione nella direzione sbagliata. Pensate a quel tipo in norvegia che ha ammazzato 70 persone, anch'egli aveva dato la sua "grande interpretazione delle cose", ie "gli islamici ci attaccano", sostenendola con moltissime citazioni e interpretazioni di filosofi classici e altre informazioni "epistemologicamente sospette". La sua interpretazione, mai messa in dubbio, ha stimolato la sua azione orribile. Ovviamente la persona in questione non era un filosofo, ma questa vicende mostra comunque le conseguenze di quella grande attività d'interpretazione, mai messa in discussione o criticata epistemologicamente, che conduce all'azione.

Per questo io sostengo la necessità di entrambi gli approcci e rido delle pretese totalitarie di Preve (almeno in Italia, ma aggiungerei anche in tutta Europa): le grandi interpretazioni devono fiorire perché aprono spazi di possibile, nuovi orizzonti, danno profondità al sapere, ma essere devono essere continuamente messe in discussione e criticate dal sapere epistemologico realista (nel senso che quando tu dici "gli islamici ci attaccano", questa affermazione è sottoposta a critica, nella stessa maniera in cui quando dici "viviamo in un tempo accelerato" - tesi di Fusaro in un suo libro - questa affermazione deve ugualmente essere sottoposta a critica).


Ne ho tanti. Da molti assunti sulla base empatica dell'etica, alla posibilità della giustizia o anche il semplice fatto che il mondo sia una collezione di oggetti.

E' una domanda difficile da rispondere in realtà perché sono sempre assunzioni relativamente sottili e si presentano sempre come un non aver pensato un'alternativa.

Un ottimo esempio di nuovo è il mondo come collezione di oggetti che wittgenstein pone subito all'inizio senza discuterlonel tractatus e che poi quando capisce che non è necessario gli crolla l'edificio.

Ma sono tanti e sottili. Tipo un altro che mi viene in mente in un saggio contro il pragmatismo diceva una cosa del tipo che è senso comune che "la ricerca scientifica per esistere deve avere la possibilità di arrivare ad uno conoscenza assoluta".

Mi dispiace di non poter essere più preciso, ma gli anni si fanno sentire.



Sì ma questo non elimina il problema.
Resta che non è un discorso rigoroso.

E' tipo uno che parla di rigore gesuitico dell'onestà e poi dice che è "onesto finché gli conviene".

Perché se il rigore viene portato fino in fondo non porta necessariamente al liberalismo, anzi porta a posizioni politiche nietzscheane, cioé che la democrazia e la morale sono una farsa e le si predica perché al criminale conviene esser circondati da onesti.




No non vuol dire che non si riesce a vedere oltre alla situazione, si capisce benissimo qual è l'interesse dell'altro ma non necessariamente ti interessa.

Per te un sistema in cui tutti stanno bene 10 è preferibile ad uno in cui hai 100 e gli altri 5.

Un americano preferisce un sistema in cui qualcuno abbia 100 e tutt gli altri 5 perché il suo interesse è sognare che suo figlia diventerà quel 100.

Molti conservatori a inizio 900 dicevano che è meglio che la gente muoia di fame perché l'egalitarismo strozzava le grandi menti. Non per tutti il benessere economico generalizzato è il valore più importante.

Ognuno ha i suoi interessi. C'è chi vuole un mondo in cui la nobiltà è rispettata, chi vuole che si producano scrittori, chi vuole avere la possibilità di arricchirsi il più possibile, chi vuole che i poeti possano fiorire e sono pronti a fare campi di concentramento perché questo succeda.
E senza una scala oggettiva di valori (tipo "è meglio che tutti mangino piuttosto che avere un buono scrittore") non è possibile giudicare quale posizione sia migliore o meno (se non dal tuo personalissimo punto di vista).




Questo è qualcosa con cui sono in disaccordo sia con i liberali sia con i postmoderni.

Il problema non è che le ideologie portano nella direzione sbagliata. Il problema è che alcune ideologie sono stupide.

Secondo me l'errore di Brevik non è diverso da quello di un ingegnere che ha sbagliato i calcoli e gli è cascata la casa. Ha interpretato male i dati, non perché la sua mente era distorta da un'ideologia, ma perché la sua posizione era parziale, come quella di un qualsiasi uomo, ed il terreno su cui si applicava era molto più vago dei principi di ingegneria.

Anche se prendi Hayek, che con il suo scetticismo Humeano e il suo amore per le costruzioni dal basso non sei privo di una ideologia. La sua è un'altra grande narrazione che mischia etica anglosassone, incertezza epistemologica e ammirazione per il commonwealth. E i suoi danni non sono stati minori di quelli di Breivik, anzi sono stati addirittura superiori se pensi a tutte le persone che hanno sofferto per le politiche Thatcheriane e Reaganiane (e non mi venire a dire che la loro era un'interpretazione ideologica di un pensiero molto più moderato).

La ragione è che le narrazioni sono necessarie perché non c'è nessuna continuità tra i fatti e il mondo. Come dice wittgenstein tra la regola e la sua applicazione c'è sempre una decisione.

Ed è la ragione per cui nonostante le sue pretese di rigore, la filosofia analitica non risulta più rigorosa di qualsiasi altra filosofia. Basta vedere, ormai quasi un secolo, la sua storia e si nota come essa non abbia prodotto risultati più stabili o meno affetti dalla moda di qualsiasi altra scuola filosofica.
E infatti, di nuobo, ormai è diventata solo una cosa: il difensore dell'uomo della strada dalle strambe idee francesi.

Ecco, è proprio a questo proposito che non ritengo possibile fare filosofia oggi senza tenere in considerazione i metodi, gli strumenti e i risultati delle scienze (matematiche, fisiche, naturali o storico-sociali, a seconda del campo d'indagine della ricerca filosofica).

Nel VI secolo a.C., Senofane poteva dire:

Ma se i buoi < e i cavalli > e i leoni avessero le mani
o potessero disegnare con le mani e compiere opere come quelle che gli uomini compiono,
i cavalli simili ai cavalli, e i buoi simili ai buoi
dipingerebbero figure di dèi e plasmerebbero corpi
come quelli che hanno ciascuno di loro.

Ed era un'osservazione acutissima per quello stadio di civiltà.
Ora, lasciando perdere il fatto che Senofane non è un filosofo sistemico e che i versi qui sopra non fanno parte di un'opera sistemica, ci sono due modi per sviluppare un pensiero del genere dal punto di vista sistemico: il primo metodo consiste nell'elaborare una narrazione che segue le proprie intuizioni e immaginazione ma che non dimostra quanto affermi.
Il secondo metodo consiste nel prendere in considerazione i risultati dell'antropologia, della scienza delle religioni, della psicologia, secondo i metodi loro propri e seguendo un metodo comparativo sincronico e diacronico, arricchendo il tutto con le prorpie intuizioni e illuminando collegamenti prima inesplorati.

Ecco, a mio avviso, al giorno d'oggi, c'è ben poco spazio per una ricerca filosofica del primo tipo. La filosofia non nasce come opinione, come chiacchiera da bar. Nell'era postmoderna, ogni settore del sapere umano è occupato da una coltre altamente specifica ed elaborata di indagini e riflessioni, le quali possono essere ignorate soltanto per pigrizia o perché quel che si vuole porre in essere sono chiacchiere da bar, opinioni, appunto: va bene per Paolo Del Debbio, non per il filosofo.

Pitagora non credeva ad un'indimostrabile esistenza dell'anima perché fosse un mistico, ma perché la mistica (seppure integrata con l'osservazione in modi non più attuali) era il modo di spiegare il mondo e la fonte del sapere.
Fare i 'mistici' nell'era postmoderna non significa essere filosofi, allo stesso modo in cui, a voler fare i medici applicando i trattati ippocratici, non si è medici ma soltanto coglioni.

Etc. Vado a mangiare.
E' anche vero che fra scienza e filosofia c'è uno scambio, se non altro perchè il metodo scientifico nasce dalla filosofia, così come l'interpretazione dei risultati scientifici non è arbitraria e meccanica ma sempre qualitativa e soggetta a un discorso di senso, e quindi aperta all'indagine filosofica.
La filosofia non può ignorare la scienza e i suoi risultati, ma non nel senso che tali risultati determinino delle verità, nel senso che questi dati fanno parte, sono tasselli e oggetti fra gli altri, del discorso filosofico e degli strumenti interpretativi che abbiamo a disposizione per capire il reale.

Rileggendo il tuo intervento per vedere se ci fosse altro da poter aggiungere alla discussione, noto questo particolare e credo di dover sottolineare che non ho mai parlato di verità.

Non contrappongo le scienze all'opinione nel senso di una contrapposizione fra aletheia e doxa. Semplicemente, nel momento in cui si indaga un determinato oggetto, bisognerebbe usare i metodi più appropriati (metodi che appunto, a mio avviso, sono offerti dalle varie discipline scientifiche).
Perdonatemi la resurrezione del topic ma questo esige una discussione.


Ma gli articoli li hai letti? Chi ha ragione dei due?

Comunque, per chi non conoscesse la Nappi, il personaggio è praticamente questo (Not Safe For Work):

Non sapevo che fosse diventata anche una blogger di Micromega
Gli articoli non li ho letti ma recentemente Diego se ne è uscito con sparate omofobe degne dei vecchi stalinisti.
Tempo fa ha fatto una conferenza presso la mia Università, ma ero in Finlandia e me lo sono perso
Boh, magari chiederò al prof. di Filosofia di invitare la Nappi, la prossima volta