[Romanzo d'appendicite] Due volte partigiano

Visto l’acclamato successo che ha riscosso il thread sui racconti delle imprese dei partigiani che ognuno ha in famiglia, ho deciso di regalarvi gratuitamente la lettura di questo mio raccontuccio che avevo in canna già da tempo. Narra la storia di 3 ventenni, poco più che ragazzini, che si ritrovano catapultati nei fatti della Seconda Guerra Mondiale. E’ una storia vera, è una storia falsa, è una storia Ferguson :dunno: … chi lo sa, c’è sempre un po’ di verità nella menzogna e un po’ di menzogna nella verità.
L’ho divisa in 8 episodi, pari pari il numero di episodi di una serie tv di successo. Così se Sollima dopo il Mostro di Firenze o Sydney Sibilla dopo gli 883 vogliono, c’hanno già il soggetto pronto. Poi eventualmente con i diritti smezziamo con Cirus che ci offre gratuitamente i server :sisi:
Ah, premetto, non sono uno scrittore di professione. La mia natura è più quella dello sceneggiatore. Se surclasserò in stile i vari Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Giampaolo Pansa, la cosa non era voluta. Caro lettore tu però non farne un dramma se qua e là la comprensione del testo ti risulterà difficile, o se troverai gravi errori di grammatica o sintassi. Goditi i pochi verbi che ho azzeccato, pensando che nemmeno quelli erano voluti :asd:

Ispirato ad una lettera anonima e un articolo di giornale mai uscito

Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.

CAPITOLO 1 di 8
“Riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria …” Salvatore commosso a stento riusciva a trattenere lo slancio d’entusiasmo, mentre tra una pacca e l’altra con i compagni di sempre Enzo e Rocco, doveva ricordarsi pur sempre di far silenzio perché per tutta Pistoia era pieno di fascisti e già dopo l’annuncio del 25 Luglio, caduta del fascismo, si era fatto più di un mese di carcere per aver organizzato delle manifestazioni contro il Duce. Il professor Corrado Leoni, invece, all’euforia giovanile suppliva con sincere lacrime di gioia. Pensava a sé stesso, agli anni d’insegnamento al liceo di Pistoia provando tra le ostilità dei colleghi a trasmettere ai propri alunni gli ideali di libertà e egualitarismo. Ma soprattutto pensava ai suoi ragazzi che per quasi tutti quei vent’anni di vita erano vissuti sotto un regime che ormai scricchiolava e finalmente riuscivano a scorgere un po’ la luce della speranza. Sapeva però il professor Leoni che le sofferenze non finivano quella sera. Sapeva il professore, ma non se la sentiva d’interrompere quello spettacolo d’entusiasmo.
“E ora?” si chiedevano i ragazzi. “C’è da organizzarsi, da prender l’armi, da far finalmente la rivoluzione” proponeva Salvatore Liberati, il più vigoroso tra i tre. “Si va coi comunisti, sicuramente sono i più organizzati” propose invece Rocco Leonardi, che qualche contatto col partito clandestino aveva iniziato a coltivarlo nei mesi precedenti e che già si faceva chiamare col nome di battaglia di Barabba. E fu proprio Rocco “Barabba” ad organizzare, qualche giorno dopo, l’incontro in una cascina nelle campagne pistoiesi. Barabba per organizzare l’incontro s’era speso la nomea di Salvatore Liberati quale attivo e sincero giovane antifascista, più d’una volta spina nel fianco per gli uomini della Questura già dalla tenera età adolescenziale. Però ben sapeva che comminare quell’incontro era molto difficile. Difficile per la nomea di “anarchico” e “testa calda” che aveva Salvatore. E anarchico lo era davvero, specie per la mentalità del partito comunista clandestino, troppo statico sulle proprie posizioni materialistico-dialettiche e incancrenito da vent’anni di clandestinità e attendismo.
“Ti conosciamo a te… pensi davvero che la rivoluzione si fa con le belle parole? con le belle motivazioni? l’avete mai vista voi una mitragliatrice nemica? ve la siete mai trovata contro?”, come se tutti quei “parrucconi” fossero veterani di chissà quale guerra o azione di guerriglia. C’erano al massimo due reduci della guerra di Spagna, fronte repubblicano, condannati in contumacia dal regime e tornati in patria grazie al caos del post 25 Luglio, e un paio di cinquantenni reduci dalla Grande Guerra, uno dei quali per giunta ex fascista e passato ai rossi solo per guai personali con la giustizia.
“Voi libertari, voi anarchici siete la peggior rovina del proletariato! Utili idioti che fanno solo il gioco della borghesia! Peggio del fascismo! Bisogna attendere, avere la capacità razionale di capire quale sia il momento di agire e quale rimanere nell’ombra. Ciò che voi vivaci anarchici non riuscite proprio a comprendere”.“Cosa dovremmo attendere? Di andare in prima linea e poi che il compagno Stalin ci faccia bombardare come ha fatto con gli anarchici in Spagna?” provò a ribattere Enzo più per difendere l’amico Salvatore che per andare ad un uno contro uno con i rossi. Quel che i comunisti avevano in mente era che si dipanassero i primi contatti di un accordo di non belligeranza che alcuni ex gerarchi a Roma stavano intrattenendo con il nascituro Comitato di Liberazione Nazionale. Quel che i comunisti non sapevano era però che proprio in quelle ore l’esercito tedesco, in discesa incontrastata verso Roma, aveva stabilito che Pistoia sarebbe stata un importantissimo polo logistico trovandosi proprio difronte quella che avevano stabilito essere la più importante linea difensiva dietro cui trincerarsi: la Linea Gotica.
Salvatore, Enzo e Barabba tornarono nelle rispettive case immaginando che qualcun altro avrebbe combattuto quella guerra al posto loro. Intenti e ideali evidentemente non bastavano a far direzionare la Storia, la grande Storia con la S maiuscola.

Non era ancora la fine di Settembre del 1943 che già apparvero le prime camionette tedesche, l’inconfondibile cadenzato rumore del passo dell’oca, e quegli ordini “Achtung”, “Schnell”, “Los, los” che da soli bastavano ad incutere timore. E poi i fascisti, gerarchi vecchi e nuovi, che di ritorno a Pistoia o in fuga da altre parti d’Italia tornavano a rialzare la testa dopo settimane di oblio sotto le insegne della nuova Repubblica Sociale Italiana. Non erano passati che pochi giorni dall’arrivo in città dei tedeschi che donna Ada, amica di famiglia dei Liberati, bussò con quanta più veemenza possibile. “Aprite, aprite, vogliono portarsi via Salvatore!”. Con un figlio disperso in Russia e un marito mezzo zoppo e a mezzo servizio per la Questura, la povera Ada, che quel Salvatore l’aveva visto crescere, era venuta a sapere dell’imminente rastrellamento di tutti gli schedati come antifascisti da parte dei nazifascisti. E Salvatore, che a sedici anni era stato pestato da figli di gerarchi locali e a diciannove aveva subito il suo primo arresto, non poteva che non essere tra quelli. Salutò mamma e babbo, prese un po’ di pane e l’occorrente per sopravvivere qualche giorno nei boschi, e poi il suo pensiero corse là, al suo mentore: “il professore!”. Troppo tardi, la casa del professore fu la prima ad essere rastrellata. Con una bicicletta “presa a prestito” pedalò, nonostante fosse un ricercato, fino alla centralissima Piazza Duomo e là, proprio sotto la torre del campanile, mentre le prime camionette tedesche stavano per partite gli parve d’intravedere il volto del professore. Ah se solo avesse avuto con sé un mitra, una pistola. Anche da solo, a costo della vita, avrebbe provato a salvarlo. Ma così? Senza nulla, che senso avrebbe avuto? Mogio mogio, sbirciando da dietro un vicolo, mentre il professore si avviava per un viaggio di non ritorno verso Mauthausen, giurò a sé stesso che mai avrebbe più provato quella sensazione di impotenza.

Un calpestio di foglie riportò sul chi va là Salvatore dalla fase di pre sono. Aveva trascorso due nottate all’agghiaccio nei boschi ad est di Pistoia. La stanchezza si faceva sentire ma il timore che una pattuglia in perlustrazione, un delatore o anche solo qualcuno passato lì per caso potesse scoprirlo era più forte di ogni sfinimento. I passi si fecero sempre più forti ma poi da un albero comparvero visi amici. Era Enzino, era Barabba, e con loro Jacopone, Ettore, e persino Archimede, il compagno d’università lasciata troppo presto per la guerra di mezzo. Pur se nessuno di loro era finito nelle liste nere dell’occupante nazista, avevano contattato la madre di Salvatore, l’unica a conoscere con una qual vaghezza i probabili rifugi del figlio, e l’avevano raggiunto.
“Noi ci siamo” fu l’unica frase che Enzino riuscì a pronunciare, prima che i tre, Salvatore, Barabba e lui stesso si abbracciarono in una stretta fraterna come prima non mai. “Noi ci siamo” fu la frase con cui quei ventenni decisero per sempre di cambiare la vita in un affare più grande di loro.
Messa da parte la commozione e tornata la pragmaticità, Enzino illustrò a Salvatore l’idea sviluppatasi a seguito delle indicazioni di Jacopone. La fortezza di Santa Barbara, dove i tedeschi accatastavano buona parte dell’arsenale per le locali operazioni, era controllata da una minuta guarnigione di repubblichini, per lo più inesperti, che attorno alle 17 erano soliti andare a far baldoria nella taverna dello zio di Jacopone per poi riprendere, mezzi sbronzi, il turno notturno. Tra le 17 e le 20 era il momento perfetto per intrufolarsi nella fortezza e rubare quanta più roba possibile. A disposizione sei ragazzi e una pistola trovata chissà come da Ettore.

La sera del 17 Ottobre 1943 scattò l’operazione. Quando Jacopone ebbe conferma dallo zio che i giovani fascisti erano tutti a bere, i sei ragazzi si avvicinarono alla torre Ovest, quella che stando alle loro informazioni doveva contenere le armi.
“Oh là, l’Enzo Baiocco. E che ci fai tu da queste parti?” pronunciò lo sventurato di guardia financo non si sentì sulla tempia la pistola puntatagli da dietro da Salvatore. Questi con la minaccia di sparare riuscì a farsi aprire. Un secondo repubblichino, dentro la torre a piano terra, fu steso con un cazzotto da Barabba. Aperte delle casse, le prime mitragliatrici, le prime pistole, le prime bombe a mano sembravano oro per i ragazzi. E loro si sentivano pirati. “Prendi questo, no prendi quello, lascia stare quello” impartiva gli ordini Salvatore. E nel frattempo pensava a quanta roba avrebbe dovuto lasciare lì, a quanta roba aveva il nemico e a quanta altra glie ne sarebbe arrivata. E pensò che contro quella moltitudine di tutto si sarebbe dovuto confrontare nei mesi a venire.
Cercando di trasmettere ottimismo ai suoi, fece legare e imbavagliare i due giovani fascisti alle sedie. I quali, mentre il gruppo si avviava all’uscita, divennero presto oggetto di sberleffo. Ma proprio quando il gruppo era sul ciglio della porta della torre gli si piantò difronte un tedesco. Jacopone, scombussolato, fece cadere il proprio sacco con le armi. Il tedesco, più incredulo di loro, riuscì a balbettare qualcosa – “Leise. Nicht schiessen. Nicht schiessen. Doktor … doktor… dottore” .
Salvatore lo guardò negli occhi, la sua mano impugnante la pistola tremava. Poi il tedesco provò ad impugnare un fischietto che aveva attorno al collo. Prima che potesse far partire un segnale Salvatore gli puntò la pistola contro e sparò un colpo secco, dritto in fronte. Il gruppo si allontanò poi borsoni con armi al seguito.

Sei intraprendenti ragazzi erano entrati dentro quella fortezza. Ne erano usciti sei uomini, e tornare indietro non potevano più.

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Eh?

Le facce dei tipi generate con IA sembrano uscite dai goonies :asd:

Allora, capisco che dopo il primo sfavillante episodio non riusciate a trattenervi dal leggere il secondo :asd:, facciamo così, ne pubblicherò 2 a settimana.
Rispettivamente e approssimativamente:

  • il Martedì
  • il Venerdì

Sono di decorazione.
Servono ad abbellire il racconto e a spezzare visivamente il post altrimenti risulta come un wot

CAPITOLO 2 di 8
“Wass soll der scheiss?..” il colonnello Krugmann rimase incredulo difronte la scena che gli si palesava dinnanzi. Sceso dalla camionetta che da Viterbo, scuola paracadutisti, lo aveva riportato nella sua natia Pistoia, Filippo Giotto non appena messo piede a terra aveva immediatamente rotto gli indugi iniziando a presentarsi, a stringere le mani non importa se di gerarchi fascisti tedeschi o semplici inservienti capitati lì per caso, e a dispensare consigli che sembravano quasi ordini.
“La bandiera, la bandiera italiana deve sventolare affianco su nel pennacchio. Si deve vedere! Si deve vedere! … tu, tu, chi sei? chi sei? Mi porteresti gentilmente da chi comanda qui?”. Il colonnello Krugmann e tutto il Kommandantur si aspettavano giungesse da Roma un alto funzionario del partito a svolgere le mansioni di coordinatore tra le truppe tedesche e quelle repubblichine, e invece quello che si trovarono davanti era un ventenne borioso, saccente e arrogante.
“Mi dica maresciallo…” – “No guardi io essere colonnello” – “Va bene, mi scusi colonnello, dicevo, lei dov’è che abita? Dove staziona?” – “Beh io essere qui … con mia guarnigione … insieme mia moglie” – “Cosa? Tiene sua moglie qui con lei? La fa vivere insieme ai soldati? Oh poverina! … No, no, no, mi dia modo di rimediare, e che ci sto a fare qui sennò?”. Tempo mezza giornata e il Giotto riuscì a fornire al colonnello Krugmann e gentile signora una villa poco fuori Pistoia con tanto di piscina e giardino appartenente all’architetto Bizzotto, vecchio nobiluomo caduto in disgrazia e possidente di terreni agricoli per i quali il padre del Giotto era stato in passato mugnaio. Tempo altri tre giorni e Filippo era riuscito ad imbastire traffici di ogni genere. Veniva voce che ai tedeschi serviva un pezzo di qualche motore che a chiederlo al Comando centrale c’era troppo da aspettare? La popolazione ne rimediava un pezzo, lo dava a qualche piccolo gerarca locale che a suo volta lo dava al Giotto che lo rivendeva ai tedeschi. Naturalmente dallo scambio in denaro Filippo tratteneva per sé un’adeguata provvigione per l’intermediarietà. “Sprechen Sie Deutsch?” – “Ehm … nein, no, ma fare io non ti preoccupare”. Nonostante non spiccicasse una parola una di tedesco l’avevano nominato, o meglio si era fatto nominare, traduttore nonché ufficiale di collegamento tra il Kommandantur e il Partino Nazionale Fascista Repubblicano di Pistoia. Indossava fiero la sahariana nera, il fez, e il colonnello Krugmann gli aveva assegnato una sua macchina personale, una Kubelwagen grigio militare con bella svastica nera disegnata sul cofano. Come autista personale s’era poi scelto Orazio, amico di lunga data, col quale nell’adolescenza spendeva lunghi pomeriggi tra una bevuta in osteria e una entrata nei bordelli, sempre rimbalzati, orchestrando stratagemmi vari per fermare il postino che avrebbe dovuto consegnare alle rispettive famiglie la lettera d’espulsione da scuola. Filippo, dopo la stessa, s’era arruolato volontario per la guerra di Spagna. Orazio, più pauroso, aveva vissuto anni d’inedia meno avventurosi a casa.

“Quello c’ha due coglioni così! In Spagna è stato il più giovane combattente di tutta la guerra. Con una sola mitragliatrice è riuscito a catturare un carroarmato comunista” – “Lo so, è stato persino decorato da Mussolini in persona” – “Da Mussolini? Macché, dal generale Francisco Franco vorrai dire?” – “Gli hanno ammazzato il fratello, proprio sotto gli occhi, ma non ha battuto ciglio. Si vede che se potesse li distruggerebbe con una sola mano a quei luridi comunisti!!!”. Di pari passo agli ammiccamenti veniali non mancavano di certo gli elogi genuini, quest’ultimi provenienti soprattutto da quei giovani fascisti che in quel ragazzo giusto un paio d’anni più grande di loro vedevano un simbolo di vitalità e ardente riscatto italiano. Si era creato uno strano cortocircuito per il quale ogni qualvolta Filippo riusciva a portare a termine un “affare”, a trovare un posto di lavoro per qualche giovane disoccupato amico di amici, gli elogi di comodo, quelli provenienti dalla popolazione civile più distante dal fascismo e che in lui vedevano solo un mezzo di prosperità aumentavano. Quando invece Filippo compiva azioni più propriamente militari, rastrellamenti, interrogatori, caccia alle spie, questi ultimi scemavano per autoalimentare il panegirico del Giotto fascista tutto d’un pezzo che tanto piaceva ai giovani miliziani delle Brigate Nere. Già, perché la vita di Filippo non era solo traffici, scambio di favori e ammiccamenti vari ai tedeschi. Il suo ruolo di ufficiale di collegamento per le truppe germaniche lo portava spesso a star fuori tutto il giorno con la sua Kubelwagen facendo da guida locale per i battaglioni tedeschi in cerca di partigiani, disertori, spie o renitenti alla leva.
“Qui ci abita una famiglia con tre figli maschi. Nessuno di loro ha risposto alla chiamata per il lavoro in Germania”, “… parla! parla! Dov’è tuo figlio?” e giù botte, “è meglio che ce lo fai trovare tu che lo troviamo noi!”, “posso scegliere e decidere se far mandare tuo figlio in una fabbrica in Germania o direttamente davanti il plotone d’esecuzione. Dammi i nomi dei tuoi complici!”. Il Filippo Giotto mercante poteva facilmente trasformarsi nel Filippo Giotto giudice e boia, specie se quelli che aveva difronte erano poveracci senza alcuna merce da poter scambiare. Un giorno una batteria della controaerea di Prato era riuscita ad abbattere un Avro Lancaster di ritorno da un’operazione su Firenze, il quale si era schiantato nella periferia sud di Pistoia. Tutti e sette i membri inglesi dell’equipaggio erano sopravvissuti e avevano trovato rifugio presso una chiesetta nel piccolo borgo di Tobbiana. O almeno questa era la voce che era giunta al Comando militare tedesco. Guidando un plotone di SS e Brigate Nere, il Giotto era arrivato nel piccolo borgo di montagna, aveva fatto malmenare il parroco Don Biagio fino a farlo confessare a suon di sganassoni, e una volta scoperti i sette aviatori britannici nascosti nella cripta aveva messo a ferro e fuoco la chiesetta fino a farla bruciare. Il parroco fu subito tratto in arresto e portato in Questura a Pistoia. Per volontà tedesca era stato richiesto al Giotto che i prigionieri, una volta catturati, fossero fucilati sul posto. Le SS tedesche però se ne erano già andate demandando il compito agli italiani. Vedendo quei volti emaciati e impauriti, seppur appartenenti a quelli che fino a qualche giorno prima erano stati dei combattenti, Filippo non provò pietà per loro bensì per sé stesso. Pensò che la vita fosse come una moneta: può uscire testa e vinci, può uscire croce e perdi. E tutti quei bombardieri che giorno dopo giorno aumentavano sempre di più sopra le loro teste, il fronte che si avvicinava, beh forse era il segno che stava per uscire croce e lui era dalla parte sbagliata della Storia. Fucilare quei prigionieri in barba ad ogni regola di guerra non avrebbe di certo aiutato. Eppure andava fatto. Così fingendo di dover tornare urgentemente a Pistoia demandò pure lui a sua volta il compito della fucilazione ai giovanissimi miliziani delle Brigate Nere. Quest’ultimi, più avvezzi alla forza bruta che al fine pensiero, non capirono e la presero come una promozione. Umbertone e Robby, due dei miliziani più ferventemente ammiratori di Filippo, radunarono i sette prigionieri dietro il muro di cinta della chiesetta in fiamme, li misero in fila, e poi Robby con una scarica di mitra li falciò.

Tornato a Pistoia Filippo Giotto fu prima richiamato dal questore, Achille Ferrazza. Gli chiese cosa bisognasse fare con Don Biagio. “Gli si dia una legnata a mo’ di lezione e lo si lasci pure andare” fu il proprio suggerimento. Poi fu la volta di confrontarsi con il colonnello Krugmann. Convocato direttamente nella sede del Kommandantur, Filippo si trovò faccia a faccia col colonnello da solo nel suo studio.
“Tu fatto fucilare prigionieri da tuoi uomini e no fatto fucilare parroco. Perché?”. Filippo provò a balbettare le prime giustificazioni che gli venivano in mente, capendo il repentino cambio d’umore del colonnello non più così amichevole con lui.
“Voi italiani tutti così. Non ci si può fidare mai. Anche tu essere uno voltafaccia, Filippo?” e gli puntò in fronte la sua Luger. “Io sapere che tu rubato oro destinato a nostra Germania. Tu essere amico o traditore Filippo? Amico o traditore?”. Al colonnello erano evidentemente giunte le voci dalla Jugoslavia, voci risalenti a circa un anno prima, al 1942. Il giovane Filippo Giotto era stato infatti inviato in Jugoslavia e qui, alle dipendenze del generale Anzoni capo dell’intelligence militare nei balcani e pistoiese anch’egli di nascita, era riuscito a sottrarre un carico d’oro appartenente al re jugoslavo e sul quale sia Roma sia Berlino avevano messo gli occhi addosso. Lo stratagemma di Filippo per portare quell’oro in Italia era stato tanto rocambolesco quanto geniale. Aveva messo le casse d’oro dentro ad un finto treno trasportante malati di tifo. Ad ogni posto di blocco la Wermacht, impaurita, si era rifiutata di perquisirlo.
Con la Luger puntatagli contro Filippo pensò al peggio. Poi il colonnello si calmò. “Se io mi accorgo che pure tu essere un traditore io ti ammazzo. Ti ammazzo con le mie mani, capito?”. E riposò la pistola nella fondina.

Licio Gelli is not amused

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CAPITOLO 3 di 8
“Boia ma che tu fai Orazio?”. Di ritorno dall’ispezione per i lavori di una trincea della Linea Gotica, ispezione che aveva bigiato limitandosi ad un controllo superficiale, Filippo si stava godendo il panorama già un po’ innevato dell’Appenino tosco emiliano quando il suo autista frenò bruscamente. Non servì però dire altro. Orazio, tremante, già aveva alzato le mani in alto con il motore ancora acceso. Una mezza dozzina di partigiani, mitra in pugno, avevano già circondato la Kubelwagen. “Sono … E’ la banda del comandante Salvatore” riuscì solamente a balbettare ancora Orazio. Il nome Salvatore Liberati però ricordò a Filippo un episodio occorsogli solo qualche settimana prima. Facendo l’inventario della Fortezza di Santa Barbara si era accorto che mancavano armi e munizioni. Chiesto spiegazioni ai suoi due sottoposti amici, Umbertone e Robby, costoro a denti stretti gli avevano confidato che quattro mesi prima, ad Ottobre, vi era stata un’incursione della banda di Salvatore, poi autoproclamatasi “Squadre Ribelle Anarchiche”. Sia per evitare rappresaglie sulla popolazione civile, sia soprattutto per tacere le evidenti negligenze delle guardie fasciste, l’episodio era stato messo a tacere facendo passare la morte del medico tedesco per un delitto passionale e non informando l’alleato germanico della sottrazione delle armi. Ciò era stato espressamente richiesto da alti funzionari del Partito a Salò, e a macchinare l’inganno era stato un famoso regista e amico personale del Duce. Capendo non fosse il caso di pestare i piedi a gente importante Filippo non disse nulla al colonnello Krugmann. Ma ora, difronte il pericolo di essere ammazzato come un cane, provò a giocarsi quella disperata carta. Guardò in faccia quei sei uomini provando ad annusare dal suo comportamento, dai suoi gesti, dall’espressione del viso, chi fosse chi comandava lì. “Chi è tra voi il capo qui?”“Non abbiamo capi e capetti qui. Siamo tutti uomini liberi noi”. Filippo capì che quello che aveva risposto era il capo. E che era Salvatore quindi.
“Anche se stiamo da due parti diverse non è detto che dobbiamo farci per forza la guerra. Non siamo noi i nemici. La guerra è degli altri, dei tedeschi, degli americani … noi siamo tutti italiani. Non ci dobbiamo mica ammazzare tra di noi”. “E’ il fascista Giotto. Il peggio del peggio, sparagli Salvatore, sparagli” provò ad intervenire il Barabba vedendo l’esitazione che stava iniziando a manifestarsi nell’amico. Ma Salvatore esitò, e esitò ancora, lasciandosi trasportare dalle balle che palesemente Filippo inventava all’istante pur di salvarsi la vita. O forse, pur riconoscendo la natura farsesca di quelle implorazioni, non se la sentiva di ammazzare così un uomo, pur se un fascista, pur se nel mezzo di una guerra così sporca. Non aveva preso le armi per togliere vite umane con troppa facilità. Non era fatto così Salvatore, non era nella sua natura.
“Sono stato io a non dire ai tedeschi del furto d’armi. Ho salvato le vite di tanti pistoiesi, e pure le vostre. E posso farlo ancora. Conosco le operazioni dei rastrellamenti dei tedeschi in anticipo, vi posso avvisare io, lo posso fare … vi prego, credetemi!”. Si giunse quindi ad un compromesso. Filippo Giotto si impegnò a far arrivare la voce di futuri rastrellamenti a Salvatore in modo che le persone finite nel taccuino nero di tedeschi e fascisti potessero essere messe in salvo dai partigiani dello stesso. In più Filippo si impegnava ad avvisare con anticipo possibili grosse manovre tedesche sul territorio. In cambio ebbe salva la vita.

Alcuni giorno dopo, un membro delle “Brigate Patrioti”, una formazione partigiana operante tra i monti di Lucca e Pistoia, raggiunse il gruppo di Salvatore invitandolo ad incontrarsi con il loro di comandante, il comandante Alberto Manoli.
Il comandante Alberto, a differenza di Salvatore e della gran parte dei suoi, pur se solo di un anno più grande era un combattente esperto. Aveva cioè imparato l’uso delle armi, non direttamente sul campo, ma trascorrendo diversi mesi arruolato di leva presso una caserma dell’Abruzzo, prima che lo cogliesse la notizia dell’armistizio e decidesse di tornare nella sua Lucca a combattere per la Resistenza. A riprova dell’abilità militare del comandante Alberto, il fatto che numerosi ex militari e carabinieri, nonché prigionieri americani e inglesi abbattuti e sfuggiti all’arresto, pur se graduati, ben volentieri accettavano di stare sotto Alberto. Addirittura, la Brigata Patrioti aveva un rapporto privilegiato con il comando Alleato. In più di un’occasione gli americani avevano paracadutato apposta per loro viveri e munizionamento. Tale scelta degli Alleati era dovuta anche alla posizione politica di Alberto. Pur accettando tutti nella sua formazione, purché non si parlasse di politica durante la vita in clandestinità, l’ideologia di Alberto era chiaramente di ispirazione repubblicana e liberale. Il rapporto privilegiato di Alberto con gli alleati era malvisto dalle formazioni comuniste, che in più di una occasione avevano provato a “sottrargli” i rifornimenti.
In una fredda mattinata di fine Febbraio Salvatore si recò all’appuntamento fissatogli dalle Brigate Patrioti. Era una vecchia stalla abbandonata sull’altopiano del Pizzorone a quasi 1000 metri d’altezza sui monti lucchesi. A differenza di Salvatore, che operava prevalentemente in pianura e nelle campagne di periferia del pistoiese, la formazione di Alberto preferiva trovare rifugio sulle montagne. Avevano quindi l’attrezzatura giusta per destreggiarsi anche d’inverno sulla neve a quelle quote.
Salvatore si portò all’appuntamento gli inseparabili amici di sempre, Enzino e Barabba, più altri quattro dei suoi tra cui Jacopone e Ettore. Salvatore sentiva il freddo gelido entrargli nelle ossa ad ogni passo che faceva sulla neve. Eppure il suo pensiero era di gratitudine. Gratitudine perché un pezzo grosso della resistenza come l’Alberto Manoli lo voleva incontrare.
Appena entrati nella stalla Salvatore vide Alberto seduto al centro provando ad attizzare il fuoco. Ma alle spalle, accanto al muro della porta almeno sette o otto uomini gli puntarono i fucili contro. Tutti gli uomini di Salvatore, che erano venuti per lo più disarmati nel disgraziato caso si fossero imbattuti in qualche controllo, non poterono che alzare le mani in segno di resa. L’unico che estrasse la sua pistola fu Barabba. Ma non la puntò contro quegli uomini, bensì contro la testa del suo fraterno amico Salvatore. Barabba fece un segno a Salvatore di sedersi accanto ad Alberto e questi capì tutto. Era una trappola. Barabba si era messo precedentemente d’accordo con gli uomini di Alberto affinché potessero “processare” Salvatore. Era in discussione il suo operato, la sua eccessiva esuberanza, e non ultimo, la sua presunta “alleanza” con Filippo Giotto.
Cercando di mantenere un aplomb il più calmo possibile, Alberto iniziò il suo interrogatorio: “ci sono giunte voci che ora te la fai coi fascisti”
“Comandante Alberto, permettimi di spiegarmi. Quel Giotto beh, è vero, è probabilmente uno dei peggiori vermi che si possano incontrare. E’, o almeno era, un fascista convinto, ma se c’è una cosa che questa guerra mi ha insegnato è che si può cambiare, La gente può cambiare
” – e qui Salvatore guardò Barabba sperando capisse che il messaggio era diretto anche a lui, ma in negativo – “… combattiamo per un mondo migliore … beh per cosa combattiamo a fare se non siamo i primi noi a dare l’esempio, a credere che veramente cambiare si può, che creare un mondo migliore sia possibile?”
“Tu sei tutto matto Salvatore. Invidio la tua passione, il tuo idealismo. Ma la guerra è anche cinismo, pragmatismo, ragione. Se segui solo il cuore finirai per farti ammazzare, e far ammazzare i tuoi compagni”
“Beh, converrai con me che se non è pragmatismo arruolare un fascista …”
- e qui i due scoppiarono in una fragorosa conciliante risata – “quel Giotto può esserci utile. Utile davvero”
Dopo più di due ore in quello che era iniziato come un interrogatorio e era finito come un colloquio amichevole, Alberto si convinse dell’effettiva bontà dell’operato di Salvatore. Questi non era assolutamente accusabile di collaborazionismo solo per aver cercato un aggancio pragmatico nell’altra sponda. E non era nemmeno accusabile di sciatteria al comando, di irresponsabilità nel condurre azioni, come invece correva voce soprattutto tra le formazioni comuniste. Salvatore in quattro mesi di lotta partigiana aveva perso solamente un uomo, e aveva sempre anteposto la salvaguardia dei suoi uomini ad azioni di vana gloria. Una volta era persino tornato da solo per salvare l’amico fraterno Barabba, proprio lo stesso che ora lo voleva processare, perché rischiava di rimanere accerchiato da un plotone tedesco. A dimostrazione del nobile animo che lo muoveva, Salvatore propose e insistette affinché la formazione di Alberto, a corto di armi a causa di una spiata a dei depositi, ottenesse da esso una parte delle proprie. La “scapestrata” Banda dei Ribelli Anarchici non si faceva premura di offrire quel poco che aveva all’alleato in quel momento in difficoltà.
Gli uomini di Salvatore, liberi da ogni accusa, poterono finalmente tornare ai loro rifugi. Tutti tranne uno: Barabba. Non ancora soddisfatto della pseudo collaborazione col fascista Giotto, decise di arruolarsi con la formazione di Alberto, abbandonando quella dell’amico.
Al ritorno, Salvatore e i suoi trovarono una piacevole sorpresa. Il partigiano Archimede li informò che un emissario del Giotto era venuto a contattarli, avvisando che l’indomani la zona dove loro tenevano le armi sarebbe stata perlustrata e che due padri di famiglia di Fiano sarebbero stati arrestati e deportati. Archimede senza aspettare l’arrivo dei suoi aveva già provveduto a spostare le armi e a far fuggire i due antifascisti ricercati. Salvatore sorrise: la mossa Giotto si era rivelata vincente. Di quel fascista, forse, ci si poteva veramente fidare.

Ragazzi capisco vogliate fare binge reading ma datemi tregua, ve l’ho detto, 2 episodi a settimana :dunno: :asd:

CAPITOLO 4 di 8
Il giovane Nello guardò per un’ultima volta il cielo prima di spirare, disteso su un prato, circondato dai suoi compagni, a due passi dalla linea ferroviaria di Castagno, a nord di Pistoia. Diciassette anni appena compiuti, cugino del partigiano Jacopone, si era unito alle Brigate Anarchiche Ribelli da poche settimane, diventandone presto la mascotte. L’azione a quel miniconvoglio di due vagoni era per Nello, fin lì semplice custode delle armi, la prima vera azione di guerriglia. Salvatore aveva deciso di attaccarlo sia sapendo fosse difeso da meno di una manciata di Brigate Nere, facilmente fatte scappare con qualche raffica di mitra, sia perché conteneva armi e qualche cassetta di banconote. Soldi che potevano essere utilizzati per corrompere qualche gerarca sull’orlo del cedimento ideologico, o dati a famiglie di informatori partigiani affinché potessero sopperire l’assenza di un loro congiunto comprando viveri al mercato nero. Ma ciò che più sconvolse quella banda, che già quel giorno aveva perso l’elemento loro più caro, fu la scoperta all’interno di uno dei due vagoni di due prigionieri. Un uomo e una donna, l’uno accusato di essere un filocomunista, l’altra un’ebra. I due erano stati detenuti per settimane nel carcere di Villa Le Grazie, torturati, e infine messi sul treno dal questore pistoiese Achille Ferrazza per mandarli nel campo di smistamento di Parma. Da lì la destinazione a morte in qualche campo dell’Europa occupata sarebbe stato il finale passo successivo. A colpire, più che la storia, furono i lividi ancor ben visibili delle torture subite. E a sentire i loro racconti pareva che nel carcere di Villa le Grazie ci fossero almeno un altro centinaio di sventurati ad attendere la stessa sorte. Nemmeno una manciata di minuti dopo aver visto Nello morire e già Salvatore aveva trovato la forza morale per una nuova azione: attaccare Villa le Grazie. La forza morale, ma non quella fisica. Perché Salvatore iniziò a tossire e sentirsi male e le operazioni del gruppo dovettero subire un improvviso stop. Era successo che la lunga marcia sotto la neve per incontrare il comandate Alberto delle settimane precedenti si era fatta sentire, e ora Salvatore aveva la febbre alta. Febbre tifoidea gli aveva diagnosticato un dottore visitato clandestinamente.

Mentre Filippo Giotto ispezionava casse di munizioni e banconote in lire da spedire al Nord, provando a fare la cresta a queste ultime quando non visto, gli arrivò la voce “clandestina” della malattia di Salvatore. Una staffetta partigiana, incurante del pericolo, si era recata direttamente al Kommandantur per chiedere a Filippo in persona delle medicine. Sulle prime questi aveva rifiutato, adducendo la scusa dell’enorme rischio che correva. Poi l’aveva licenziata lasciandole una briciola di speranza: ci avrebbe provato.
Filippo incaricò i sottoposti Umbertone e Robby acché si interessassero dell’inventario medicinale del pistoiese, in special modo sui medicinali per il tifo. Sulle prime i due ci risero sopra, ricordando le gesta del treno merci coi lingotti d’oro del loro “camerata eroe”. Ma capendo che la richiesta era seria si misero subito al lavoro. Filippo per imbrogliare le acque disse ai due che a Milano stava per scoppiare il tifo e dal capoluogo lombardo chiedevano aiuto a Pistoia. La scarsità di medicinali, vista la guerra e il fronte che si avvicinava, inficiò la ricerca di Umbertone e Robby. Lato italiano, quello più facile da corrompere pensava Filippo, la situazione di penuria era tragica. Ma lato tedesco no, loro avevano tutto quello che occorreva. Il prontuario medico della Wermacht aveva quei farmaci, e ne aveva anche in abbondanza. “Rubarne un po’ e non se ne accorgerà nessuno” pensò il Giotto, ma anche “meglio mandarci Orazietto però”. Trovando il giusto compromesso tra l’aiutare sinceramente Salvatore, che gli aveva salvato la vita, e quell’attacco di codardia mista a pratico cinismo, Filippo mandò il suo autista a rubare le medicine al comando tedesco. Falsificò la richiesta a firma del questore Ferrazza, e difronte le perplessità di Orazio, fece capire a quest’ultimo che era per un giro di prostitute. Un paio di prostitute, da cui lui ci guadagnava su, si erano ammalate. Prostitute che erano solite frequentare i tedeschi, quindi fonte di alto guadagno. Se queste guarivano il giro, e i guadagni, riprendevano. E una fetta poteva spettare pure ad Orazio. Talmente era ruffiano e con le mani in pasta dappertutto, che Orazio non esitò a credere alla cosa. Il tutto era perfettamente plausibile col personaggio del Giotto.
Recuperate le medicine Filippo contattò la staffetta partigiana e fissò un appuntamento per la consegna. Voleva consegnarle direttamente a Salvatore. Questo avrebbe voluto significare svelare uno dei nascondigli della banda. Il braccio destro del comandante, Enzino, era categorico nel suo rifiuto. Poteva essere una trappola. Ma ancora una volta Salvatore convinse i suoi a fidarsi del Giotto.

L’appuntamento fu per una notte di fine Marzo. Faceva ancora freddo che quell’inverno del 1944 sembrava non volesse finire mai. Filippo chiese al suo autista d’accompagnarlo verso i monti dell’Acquerino. Lo liquidò alle ore 20 dicendo di rivedersi l’indomani, come al solito, a Pistoia. Dovette più volte vincere l’insistente curiosità di Orazio, riuscendolo finalmente a convincere solo quando gli fece intuire trattavasi di un appuntamento amoroso, nonostante fosse ormai noto a tutti che il Giotto avesse iniziato a frequentare una certa Viola. Rimasto poi solo, due partigiani si fecero vivi, e lo accompagnarono attraverso un sentiero fin su un casale. Al suo interno Salvatore, sdraiato davanti il fuoco di un cammino acceso, avvolto dall’unica coperta disponibile, e tremolante dal freddo. Filippo lo guardò, guardò Enzino e quasi sembrò chiedere se Salvatore sarebbe riuscito a superare quella nottata. La domanda se la chiedevano un po’ tutti lì dentro.
Filippo estrasse dalla tasca le medicine e le diete al dottore fatto chiamare apposta. Una prima puntura, poi una seconda un’ora dopo. Il dottore prima di andarsene diede segnali incoraggianti, lasciando però capire che quella notte sarebbe stata fondamentale. Il partigiano Enzino fece per riaccompagnare via anche Filippo ma questi disse che per motivi di scuse dette ai suoi non poteva andarsene, sarebbe stato molto più sospetto. Lo stesso Salvatore, nonostante la sua debolezza, voleva discutere proprio con Filippo.
I due passarono la notte davanti al fuoco parlando, fiacchezza permettendo, delle loro vite, dei loro ideali, di come si immaginavano l’Italia a guerra finita.
“Ti riprenderai Salvatore” gli rincuorava Filippo “ti riprenderai e vincerai questa guerra. Spetterà a quelli come te organizzare la nostra bella e sciagurata Italia. Spero solo lo facciate con lealtà e magnanimità”
“Magnanimità?”
chiedeva Salvatore tra un tremolio e l’altro – “la stessa magnanimità che ci avreste dato voi se avreste vinto? Ma non ti preoccupare, il nostro obiettivo è di liberare per sempre il paese dai padroni. I padroni di ogni forma, di ogni colore. Gli stessi padroni a cui pure tu, figlio di un mugnaio, hai dovuto dire sì per tutta la vita. Non è solo un caso che io e te, mio caro bel fascista, siamo stati in due parti diverse a combatterci. E’ quello che hanno sempre fatto … la classe dominante … dividere la classe dei lavoratori, degli sfruttati, degli ultimi. Qualcuno si ribella come me, e a qualcun altro danno una bella divisa, come a te, per mettere il primo a tacere”.
“Io non ho una parte”
trasaltò Filippo in uno dei suoi rari momenti di sincerità in cui, davanti ad un moribondo, poteva finalmente sentirsi libero di essere sé stesso - “senza una parte si vive meglio. La differenza tra me e te è che tu sei un idealista. Un giocatore. Vivi, combatti e muori per ciò che reputi sia la parte giusta. Tutto un dualismo: bianco o nero, testa o croce. Beh, se esce croce perdi, se esce testa … beh credimi Salvatore, gli idealisti, i puri come te, anche nella vittoria cercheranno una nuova battaglia da combattere fino poi a perderla. Io non voglio giocare a testa o croce, voglio entrambe i lati della medaglia. Vuoi un mondo senza padroni? Beh io ti dico che un mondo senza padroni non esiste. Possono cambiare, possono essere sostituiti da chi in precedenza era un idealista come te. Ma i padroni esisteranno sempre. E se esisteranno i padroni dovranno pure esistere chi su loro i padroni si affideranno per mantenere il proprio potere”.
“Tu mi fai paura Giotto!” –
sghignazzò sardonicamente Salvatore – “in fondo in fondo sei una brava persona, ma è per evitare che a quelli come te sia affidato il futuro della nuova Italia che noi combattiamo”
“Beh, allora ti augurò con tutto il cuore di vincerla questa partita”
concluse Filippo.
Era ormai l’alba, e Salvatore sembrava star già meglio. Prima di lasciar andare via il Giotto, però, volle informarlo del suo piano di attaccare Villa le Grazie. Filippo annuì con finto stupore ai racconti di quelle torture. Sapeva essere veri, ne aveva preso parte in passato. Riuscì però a stoppare gli intenti di un già di nuovo vigoroso Salvatore. L’operazione era difficile, c’erano tanti uomini, sarebbe stato uno spargimento di sangue. Ma Salvatore aveva un piano. Un piano astuto. Ma serviva il ruolo fondamentale di Filippo per porlo in atto.

Il giorno seguente, mentre era diretto per un’ispezione, l’autista Orazio accostò l’auto. “Le medicine per il tifo? Le prostitute? L’amante? Io lo so dove sei stato ieri sera! Ti ho visto! Ti sei incontrato con i partigiani della banda degli anarchici!”.
Preso da un improvviso attacco di panico, quasi come un automa che non capiva più nulla e che vedeva il suo castello di carte da doppiogiochista cadere, Filippo Giotto estrasse dalla fondina la sua pistola e sparò alla gamba di Orazio. Ci vollero secondi affinché Filippo rientrasse e in sé, e in lui rientrasse la sua naturale propensione ricattatoria. Minacciò Orazio di gravi conseguenze se avesse parlato. Quel poveretto, spaventato, rimase in silenzio. L’episodio fu fatto passare per un incidente e Orazio congedato dal servizio poco dopo.
Forse Filippo Giotto aveva finalmente scelto, questa volta, su quale faccia della moneta puntare le sue fiches. Forse aveva anche lui una parte per cui sinceramente patteggiare ora.

CAPITOLO 5 di 8

“Alt!” gridò una delle due guardie piantonate davanti l’ingresso principale di Villa le Grazie, graziosa dimora settecentesca di tre piani nel bel mezzo dell’isolata campagna pistoiese, adibita dal 1943 a prigione-torturificio per chiunque fosse stato schedabile come nemico del regime. La giovane guardia repubblichina vide chiaramente l’automezzo della Wermacht, una Kubelwagen Typ 82, con a bordo almeno sei uomini in divisa tedesca e armati di tutto punto che procedeva a passo d’uomo verso l’ingresso della villa. Solo che a quell’ora, le 22 passate, non si aspettava nessuna visita né era stata informata di ciò dall’alto comando tedesco. “Ma è il Giotto!” esclamò l’Umbertone, uscito a prendersi una boccata d’aria e fumarsi una sigaretta dopo il turno di torture e sevizie ai prigionieri del carcere. Il Giotto rispose al saluto dell’Umbertone alzando il braccio, alché l’Umbertone stesso con ampi gesti fece cenno affinché si aprissero le porte al mezzo in arrivo. Poi Umbertone andò a salutare meglio il suo amico Filippo, ancora seduto dentro l’auto, ma appena avvicinatosi a non meno di qualche metro uno dei tedeschi gli puntò la pistola sulla tempia. E a ben guardare quello non era un tedesco, era un partigiano in divisa da tedesco. A meglio guardare era proprio Salvatore Liberati, il comandante delle Squadre Ribelle Anarchiche. Ma era troppo tardi per dare l’allarme. Le porte erano ormai aperte, e sia gli uomini in uniformi tedesche sia altri partigiani usciti dalla boscaglia circostante, imbracciarono i rispettivi mitra e, qualche scarica al cielo giusto per avvertimento, la banda era già dentro il carcere e si faceva strada per liberare tutti al suo interno. Ai quindici uomini delle Brigate Nere non restava che alzare le braccia e arrendersi. Non un solo uomo perso, non un solo nemico ucciso. Pochissimi colpi sparati, per lo più d’avvertimento. L’operazione da cavallo di Troia della banda era stato un successo strategico partorito nei mesi precedenti da Salvatore.

Già dai primi di Maggio, rimessosi completamente dalla febbre tifoidea, Salvatore stava studiando l’operazione di liberazione delle carceri di Villa le Grazie. La villa si trovava a nord di Pistoia, ben fuori il centro storico, e abbastanza distante da richiedere del tempo affinché, una volta venuti a conoscenza della battaglia, sia il Comando italiano che quello tedesco potessero inviare uomini. Anche per fronteggiare a questa eventualità poi, si sarebbe potuto organizzare un plotone sulla piccola e poco asfaltata Via di Collegigliato, una via di comunicazione tra il centro cittadino e la Villa. Oppure si sarebbero potute organizzare piccole operazioni diversive per tutto il pistoiese per quella stessa giornata. Ma per fare questo serviva a pieno l’appoggio del CNL. Appoggio che la banda di Salvatore non aveva. E non che Salvatore non ci provò. Le formazioni di ispirazione comunista si tirarono fuori presto dal progetto. Esse ancora mal sopportavano la presunta “insolenza” di Salvatore nel condurre operazioni a dir loro troppo spregiudicate. Inoltre, essendo quello Anarchico il gruppo più politicamente vicino a quello comunista, le dissimilitudini dottrinali finivano per aprire solchi insormontabili ben più rispetto a formazioni tra loro ideologicamente più distanti. Dissimilitudini dottrinali e di vedute che finivano per creare invidie anche personali.
Ben più cordiale furono invece le trattative con la Brigata dei Patrioti del comandante Alberto. Il comandante si dimostrò sensibile alle sofferenze dei poveri prigionieri e ben lieto di far qualcosa per loro. Ma fece anche capire che la gran parte delle loro armi era di provenienza Alleata e questi mal tolleravano un loro utilizzo per operazioni non coordinate con americani e britannici. Inoltre Alberto e i suoi proprio in quei giorni stavano studiando un’operazione molto più importante, almeno agli occhi degli Alleati: l’agguato ad un ammiraglio giapponese in visita a Pistoia.
Ciò significava quindi che le Squadre Anarchiche Ribelli erano da sole. E con i pochi uomini a disposizione Salvatore sapeva non poter affrontare la seppur altrettanto esigua guarnigione a difesa della Villa. Al primo assalto i fascisti si sarebbero trincerati dentro, e magari per ripicca avrebbero pure iniziato ad ammazzare ad uno ad uno i prigionieri. Fu però nella difficoltà e nella inarrestabile voglia di aiutare quei disgraziati, la cui sorte sembrava non interessare a nessuno, che Salvatore ebbe la geniale idea. Ma per farla funzionare serviva ancora una volta la collaborazione di Filippo Giotto. Questa volta una grande collaborazione: sarebbe stato lui a fornire le uniformi militari tedesche.
Filippo, sentendo la proposta, si tirò subito indietro. Non si trattava più di informare sotto banco le iniziative o i luoghi dei rastrellamenti tedeschi. Né di salvare qualche povero disperato dai lavori forzati in Germania. Si trattava di fornire un aiuto diretto ad un’azione militare. Però anche dire di no in maniera diretta a Salvatore poteva essere pericoloso. Neanche troppo velatamente Enzino, il braccio destro di Salvatore, aveva minacciato il Giotto che se questa volta non l’avesse aiutati avrebbe fatto la spia informando i tedeschi del suo doppio gioco. Filippo era incastrato. Così, erano i primi di Maggio, iniziò a traccheggiare, inventando sempre nuove scuse, anche convincenti, sperando di poterne uscire in qualche modo. A convincere Filippo però non furono nuove minacce, bensì le notizie che giungevano dal fronte. Ad inizio Giugno Roma era stata liberata, gli Alleati erano sbarcati in Normandia, e il fronte era a non meno di cento chilometri. Decise quindi di accettare la proposta di Salvatore ma ad una condizione: c’era da corrompere le guardie italiane che custodivano la sartoria dove erano sistemate le uniformi da rubare. Ottenne 15 mila lire. Ma non era vero, per prendere quelle uniformi non serviva corrompere nessuno. Non aveva resistito ad una nuova opportunità di lucro.
L’operazione fu fissata per il 21 di Giugno. Ma c’era un problema: bene le divise, bene la macchina tedesca, ma serviva anche un volto familiare, qualcuno di noto alle guardie. Serviva in sostanza Filippo Giotto in persona. Questi, sentito il nuovo piano, si tirò di nuovo indietro. Partecipare direttamente all’azione significava fare direttamente il salto della quaglia e addio ad ogni doppiogioco. E dove avrebbe atteso Filippo la fine della guerra? Quale rifugio poteva per lui essere sicuro a quel punto? Eppure il fronte ora era a soli 70 chilometri.
Decise quindi di far visita a sua sorella Ilaria e a suo cognato Nestore. Soprattutto a Nestore. Aveva con i due interrotto i rapporti da anni ormai. Nestore era un convinto socialista. Ritiratosi a vivere tra i monti del Mugello aveva però cessato d’interessarsi attivamente alla politica attiva, e solo per questo era stato risparmiato dalle persecuzioni. Ritrovatosi un giorno all’improvviso il redivivo cognato sull’uscio della porta gli fu fatto credere da questi che se era vivo era stato solo grazie all’intervento sottobanco di Filippo, che più volte lo aveva tolto dalle liste dei rastrellamenti. Non che Nestore ci credesse gran che. Pur non frequentandolo da anni, si ricordava delle ciance narcisistiche del cognato. Ma, per rispetto per la propria moglie, si adoperò lo stesso contattando vecchi amici e procurandogli un posto sicuro. Filippo poteva unirsi alla Banda Giulianello, una piccola formazione autonominatasi di ispirazione comunista. La formazione non è che si immischiasse in chissà quali attività di guerriglia. Prevalentemente stazionava per i monti in un perenne stato di attesa, offrendosi ogni tanto di custodire armi altrui o di accompagnare a mo’ di guardia armata un qualche capo partigiano da una zona ad un’altra non di sua competenza o conoscenza. La Banda Giulianello era quindi il rifugio sicuro per coloro i quali, ricercati dai nazifascisti, volevano darsi alla macchia senza troppo credere nella lotta di Resistenza. La Banda Giulianello era quindi il rifugio prediletto per ex balordi e fascisti pentiti. E nonostante ciò Nestore dovette spendere la propria credibilità affinché, ancora scosso dagli eventi del passato, nessuno torcesse un capello al cognato.
Ottenuta quindi una via di fuga Filippo poté dare l’assenso alla propria partecipazione all’operazione a Salvatore. Non prima però d’essersi fatto consegnare altre 80 mila lire dalla banda: “ad operazione finita io perderò tutto e sarò il ricercato numero uno in Toscana… sarò condannato a morte certa … quei soldi mi servono per sparire dalla circolazione, giammai ci riuscirò…”.

Prigionieri politici, qualche partigiano di questa e quell’altra formazione politica, staffette partigiane, ebrei, qualche piccolo ladruncolo, persino qualche militare americano catturato negli ultimi giorni. Tutti volti emaciati, spaventati, sofferenti, eppure con gli occhi grondanti lacrime di gioia. Tutti a ringraziare Enzino, Jacopone, Ettore, Filippo e Salvatore, i loro liberatori.
Salvatore prese le liste di tutti i ricercati dai nazifascisti nel pistoiese e li bruciò. Jacopone radunò nel cortiletto davanti l’entrata i quindici fascisti, li mise al muro e chiese a Salvatore il permesso per iniziale la fucilazione. Uno dopo l’altro li avrebbe uccisi, anche da solo. Troppa era ancora la sofferenza per il cugino Nello morto solo pochi mesi prima. I repubblichini, spaventati, guardavano l’ex idolo, ora traditore, Filippo, affinché facesse cenno e li salvasse. Ma quel cenno non arrivò da Filippo, bensì da Salvatore: “oggi non morrà nessuno!”. E li fece disperdere con una raffica in aria.
Enzino e gli altri partigiani si prodigarono nell’accompagnare nei boschi i prigionieri e poi, successivamente, condurli per una via sicura verso la zona liberata dell’Italia.
Davanti a Villa le Grazie, ormai libera e disabitata, Salvatore e Filippo si guardarono e si abbracciarono per un’ultima volta. Avevano iniziato la guerra da due sponde opposte. Si erano annusati, si erano capiti, l’uno aveva captato le debolezze e i punti di forza dell’altro. Chi per idealismo, chi per opportunità, per altruismo o egoismo, si erano ritrovati seppur per poco dalla stessa parte. Per un attimo sapevano che in quella notte entrambi avevano fatto la cosa migliore della propria vita. Con quell’ultimo abbraccio si augurarono buona fortuna e di ritrovarsi presto in un’Italia migliore.

CAPITOLO 6 di 8

“Noi ti abbiamo salvato la vita, da dieci mesi rischiamo di morire ogni giorno, e voi ci fate questo?”.
Gli occhi di Salvatore erano ciechi di rabbia. Avrebbe voluto sparare lì sull’istante a quell’infame di Lazzaro se le implicazioni anche politiche del suo gesto non avessero avuto ripercussioni sia sull’andamento della guerra partigiana sia sulla popolazione pistoiese stessa. Era successo che proprio Lazzaro, modesto bracciante anteguerra, viveur d’espedienti ai limiti della legalità durante la stessa, s’era fatto capetto di una piccola banda di balordi che aveva rapinato le cascine del pistoiese. Piccoli furti, radio, fisarmoniche, valigie con vestiti, qualche pollo. Nulla di che. Se non che quei furti erano avvenuti con armi della stessa banda di Salvatore, e a nome e per nome delle Squadre Ribelle Anarchiche. Era successo infatti che Lazzaro, già arrestato per furto e ricettazione, era stato uno dei salvati dall’incursione al carcere di Villa le Grazie. Aveva poi successivamente chiesto di unirsi al gruppo.
“Ma erano tutti fascisti quelli che abbiamo rapinato …” e qui, all’ennesima falsa e insulsa giustificazione, Salvatore fece partire un ceffone. Per l’interrogatorio-processo a Lazzaro, Salvatore volle come testimoni e giudici anche uomini di altre formazioni partigiane. Rispose all’appello solo la formazione del comandante Alberto che inviò un suo uomo, Vittorio.
“Dovremmo ammazzarlo come un cane a quel traditore” confidò Salvatore. S’era sempre battuto per la correttezza morale dei suoi uomini, della sua lotta, e ora rischiava di veder infangato il suo nome per un gruppo di balordi.
“Considerate la delicata questione politica. Se ammazziamo quell’uomo ciò provocherà una rottura coi comunisti, e ora come ora non possiamo permettercelo” provò a ragionare Vittorio, l’uomo del comandante Alberto. Oltre a Lazzaro infatti la banda dei rapinatori, ribattezzata “Banda del Ponte”, comprendeva uomini o imparentati o che sporadicamente collaboravano con le formazioni comuniste. Alcuni erano finiti pure nella Banda Giulianello. Il Partito Comunista, non inviando uomini a quel processo clandestino, aveva lasciato intendere qual era la propria posizione. In fin dei conti alcuni dei rapinati erano effettivamente pseudocollaboratori del regime. O almeno lo erano stati nel passato.
“Se ammazziamo quegli uomini ci comporteremo come i nazisti”, furono invece le parole di Enzino, il braccio destro, sicuro di colpire al cuore in quel modo l’amico Salvatore. Era infatti successo che anche i tedeschi si erano mossi contro la Banda del Ponte e le sue rapine. Il colonnello Krugman aveva fatto arrestare quattro di quei balordi e ne aveva preteso un processo da tenersi nella piazza centrale di Pistoia, affinché tutta la cittadinanza vedesse e si rendesse conto di che pasta erano fatti i cosiddetti combattenti partigiani. L’operazione propagandistica del colonnello era però riuscita a metà. La giuria popolare era stata selezionata tra i pistoiesi fedelissimi al regime, o loro stretti familiari, eppure per trovare uomini s’era dovuto faticare. In tanti volevano rinunciare, ben consci che da lì a qualche settimana al più i tedeschi se ne sarebbero andati e i giudici sarebbero stati esposti alle ritorsioni. Il colonnello ricorse perciò alle minacce. Anche alcuni rapinati, per gli stessi identici motivi, volevano rifiutare di rendere testimonianza. Il colonnello ricorse ancora alle minacce. Il processo durò il tempo di una giornata. Alla fine tre dei quattro imputati furono condannati a morte e fucilati. Al terzo, Brunello, fu risparmiata la vita solo dopo che il colonnello Krugman lo interrogò a porte chiuse, lontano dalle orecchie di italiani e fascisti vari. Brunello fu comunque condannato ai lavori forzati alla linea Gotica. Lavori dai quali riuscì a scappare dopo soli due giorni e ritrovar rifugio tra le campagne pistoiesi.
Salvatore ritornò dentro la cascina ove Lazzaro attendeva la sua sentenza, ormai rassegnatosi al peggio. Salvatore tirò fuori la sua pistola, puntandola contro il poveretto ormai inginocchiatosi e piangente. “Le Squadre Ribelle Anarchiche, dopo attenta valutazione dei fatti, ti dichiarano colpevole di rapina e alto tradimento verso il popolo italiano e l’armata di liberazione nazionale. Ciò detto ti condanniamo a morte…” – Lazzaro chiuse gli occhi, ma Salvatore continuò – “ciò detto ti concediamo la grazia a patto che tu e i tuoi ci riconsegnate la refurtiva e noi la ridaremo al popolo”.
Lazzaro scoppiò in un pianto, stavolta liberatorio, e dalle tasche, per l’euforia, si levò già le prime 5 mila lire per riconsegnare spontaneamente già quelle. Lazzaro diede poi appuntamento alle ore 14 del 29 Luglio nelle campagne di Montechiaro per la riconsegna definitiva di tutta la refurtiva.

Ma l’ondata di furti, rapine, soprusi, ad opera di partigiani veri o dell’ultima ora non contaminò solo la formazione di Salvatore. Anche la formazione del comandante Alberto fu interessata dal fenomeno. Fenomeno che forse aveva la sua spiegazione nel fatto che, a poche manciate di chilometri dal fronte e con ormai i tedeschi latitanti, alcuni uomini semplicemente accusavano stanchezza e dopo tante sofferenze provavano ad ottenere qualche guadagno che pensavano gli fosse dovuto per quella vita grama al servizio della liberazione e che nessuno in futuro gli avrebbe mai più riconosciuto. Altri, ladri di natura, semplicemente coglievano al volo l’opportunità che il caos dava loro.
Il compagno Barabba fu sorpreso con un anello d’oro al dito. Anello appartenente ad una cassa, con altri preziosi al suo interno, sequestrata ad un russo ex prigioniero di guerra dal fronte est e poi arruolato con le truppe naziste. Il comandante Alberto aveva affidato a Barabba quella cassa. Sentitosi tradito lo cacciò poi via dalla formazione. E così Barabba, già passato dalla formazione di Salvatore a quella di Alberto, effettuò un nuovo cambio e passò alla Banda Giulianello, più vicina ai suoi iniziali ideali leninisti. Qui, oltre ad esponenti del secondo o terzo ordine del PC tenuti appositamente lontani dai ranghi del partito che contano, e ex fascisti ricredutisi più per opportunità che per altro, Barabba rincontrò Filippo Giotto. Curiosa circostanza volle che fu proprio per l’accusa di troppa vicinanza col Giotto che Barabba volle allontanarsi da Salvatore.
“Il caro compagno Rocco Barabba, e bravo il nostro ladruncolo …” Filippo sembrava informato su taccheggi e tutte altre azioni di cui si andavano macchiando le varie formazioni partigiane. Nelle sue settimane con la Banda Giulianello Filippo era diventato una sorta di capo occulto. Leader de facto. Pur sapendo tutti le sue gesta fasciste passate, a lui si appoggiavano perché lui conosceva ogni segreto del territorio. Tenendo lontana la banda da ogni azione di guerriglia., la Banda Giulianello era diventata una sorta di metà sicura per chi voleva semplicemente attendere l’imminente liberazione. La liberazione di Firenze, in quel fine Luglio 1944, era appena iniziata. Ogni tanto la banda prestava suoi uomini a mo’ di scorta armata per partigiani e membri del partito comunista da una zona all’altra del pistoiese. Quella era la tipologia di azione più pericolosa che il Giotto si concedeva. Ma Filippo percepiva, e ciò non poteva essere altrimenti, che la macchia fascista non se ne andava dagli occhi dei quadri dirigenti del PC pistoiese. Ogni notte sognava che, una volta avvenuta la liberazione, sarebbe stato consegnato alle autorità e giudicato da un tribunale di guerra locale. O peggio ancora ammazzato alle spalle da qualche comunista con ancora il dente avvelenato. Perciò cercava in ogni modo di rendersi utile, di offrire quanti più servigi possibili, fintanto che la guerra ancora in corso glie lo concedeva.
Ad esempio Filippo Giotto era venuto a conoscenza dell’odio viscerale che i quadri del PC pistoiese provavano verso la figura di Salvatore Liberati. Anche due uomini della Banda del Ponte, la banda di rapinatori, fuggiti alla rappresaglia tedesca e a cui ora Salvatore andava chiedendo la restituzione della refurtiva, si erano riuniti alla Banda Giulianello.
“Se solo Salvatore ti vedesse ora, caro Barabba. Uno dei suoi amici più fidati, divenuto un reietto, un ladro, un soppressore del popolo …” .
Barabba chinò la testa e annuì.

Salvatore e i suoi si concessero un panino per pranzo in quel 29 Luglio. Una piccola scampagnata, tutti radunati in un breve scorcio di baldoria. Sembravano quasi ragazzi normali in quel pranzo.
Sentendo le cannonate provenienti dalle batterie di contraerea di Firenze, Salvatore immaginava già la fine della guerra, che sarebbe venuta da lì a qualche giorno. Guardò Archimede sonnecchiare all’aperto con una margherita in bocca e pensò che presto avrebbe ripreso gli studi. Guardò Ettore far scherzi a Jacopone, e pensò che il primo sarebbe riuscito ad imboccare la sua passione, diventare giornalista, mentre il secondo avrebbe continuato l’attività di fornaio dei genitori. Guardò Enzino, suo fraterno amico e compagno di tante battaglie, e pensò che sarebbe divenuto un ottimo politico, uno a cui affidare la ricostruzione di quella martoriata patria, pur se lo stesso non faceva che ripetere che voleva diventare un contadino. Chi non riusciva a guardare Salvatore era sé stesso. Cosa avrebbe fatto a guerra finita non lo sapeva nemmeno lui. Dopo tanti anni, senza più un fascismo e un regime da combattere? E poi, ciò che sarebbe venuto dopo, ciò che tutti chiamavano libertà, gli sarebbe veramente piaciuto? Avrebbe trovato il suo spazio di serenità o avrebbe trovato nuovi motivi, nuove battaglie per combattere anche lì? Ci sarebbero stati nuovi padroni contro cui combattere e nuovi sfruttati da difendere?
Ad un quarto alle 14 Salvatore richiamò tutti i suoi all’ordine. Si incamminarono verso Via del Crocifisso per raggiungere località Montechiaro, dove Lazzaro e altri della Banda del Ponte avrebbero riconsegnato la refurtiva. Ma volle che tutti prestassero la massima attenzione. Pur non confidando nulla a nessuno, Salvatore fece capire ad Enzino che oltre a quei ladruncoli aveva un altro appuntamento, ben più importante. E a tal motivo si era portato dietro documenti importantissimi.
Arrivati con largo anticipò al luogo dell’incontro Salvatore fece disperdere i suoi affinché controllassero quante più vie d’accesso possibili. Solo Jacopone gli rimase a suo fianco. Poi silenzio, solo silenzio, vento e rumore di foglie. Finché a squarciare quel silenzio una mitragliata che colpì in pieno Salvatore. Cadde atterra, insanguinato, morendo quasi all’istante. Erano gli uomini del colonnello Krugman giunti sul posto preparati di tutto punto. Jacopone fu il secondo, dopo Salvatore ad essere colpito. Si rialzò, anche grazie al pronto intervento di Enzino che uscì, fucile in pugno, dalla boscaglia. Ma Enzino poté poco, venendo colpito alla spalla e dovendosi poi dare alla fuga come tutto il resto della formazione. Troppa era la superiorità di uomini e di fuoco dei nazisti. Jacopone fuggì fino ad una cascina abbandonata, ivi provando a trovarvi rifugio. Ma fu raggiunto dagli uomini del colonnello e fucilato all’istante. Gli altri, più fortunati, trovarono rifugio qua e là.
Quel 29 Luglio, vittima di un’imboscata, finì per sempre l’eroica storia delle Squadre Ribelle Anarchiche.

CAPITOLO 7 di 8

Il questore Achille Ferrazza, nervosamente, accostò nei pressi del torrente Ombrone, campagna ovest di Pistoia. Era lì, in quel luogo isolato, l’appuntamento concordato con il partigiano Vittorio, braccio destro delle Brigate Patrioti del comandante Alberto. Consegnando le liste dei collaborazionisti italiani dei tedeschi ai partigiani, il questore sperava di aver salva la vita in un futuro prossimo, quando anche tutto il nord Italia sarebbe stato liberato e la guerra conclusa con l’inevitabile sconfitta nazifascista. Era ben conscio che in quelle liste c’erano anche le sue di malefatte, ma in quelle ore di tradimenti era una carta che valeva la pena giocarsi.
A mezzogiorno circa Achille Ferrazza consumò anche l’ultima delle sigarette rimastegli. Aveva preso la macchina, abbandonata, in un’officina dove i tedeschi, ormai già andati via, lasciavano in riparazione i propri mezzi. Alle 18 di quel 27 Agosto c’era l’ultimo treno in partenza per Bologna, dietro la linea gotica, poi i tedeschi avrebbero chiuso tutte le linee di comunicazione col resto della Toscana. Il questore doveva far presto, in stazione c’era la sua famiglia ad aspettarlo. Poi finalmente dalla boscaglia iniziarono le foglie a muoversi, e i primi partigiani col mitra ad uscire allo scoperto. Achille Ferrazza lì guardò, non erano quelli della Brigata Patrioti, quelli che aspettava lui. Erano quelli della Banda Giulianello. Poi una raffica di mitra. Il questore Achille Ferrazza morì trucidato all’interno dell’abitacolo. Uno della banda prese la borsa con all’interno i documenti del questore e li consegnò a Filippo Giotto che aveva assistito a tutta la scena da diverse centinaia di metri di distanza. Quando il Giotto ebbe tra le mani quella borsa pensò che finalmente uno spiraglio di sopravvivenza, in quella guerra ormai giunta alla conclusione, si potesse intravedere. Pensò che in quella borsa, oltre alle sue di malefatte come collaborazionista, c’erano tanti nomi da poter dare ai comunisti o agli americani che da lì a qualche giorno sarebbero giunti a Pistoia. E con quei nomi ci si poteva comprare la salvezza da un’eventuale fucilazione per essere stato, almeno inizialmente, dalla parte degli sconfitti in quella guerra. La soffiata giuntagli dal partigiano Barabba era stata eccezionale, e in quel modo aveva potuto anticipare sul tempo la Brigata Patrioti. Dopotutto anche i comunisti volevano la morte di quella “feccia col manganello” del fascista Ferrazza. Era stato un gioco venutogli naturale far credere che la morte del questore era in primis un atto politico.

L’8 Settembre 1944 le forze Alleate entrarono a Pistoia.
Accanto alle camionette americane sfilarono per le vie di Pistoia anche i partigiani di quasi tutte le formazioni. C’erano quelle più strettamente legate al CNL, i badogliani, i repubblicani, i comunisti, le Brigate Patrioti del comandante Alberto Manolo. Mancavano solo gli elementi delle Squadre Ribelle Anarchiche di Salvatore Liberati. A loro, la memoria della Resistenza avrebbe lasciato solo un marginale ruolo da comprimari, relegati allo stereotipo delle “teste calde”.
Mancava alla parata anche Filippo Giotto. Ebbe il buon senso di non presentarsi. E non che in quel nugolo eterogeneo mancassero ex fascisti della penultima ora. Semplicemente era troppa la paura che qualche pistoiese con la memoria buona mal digerisse il salto della quaglia anche di quel giovane borioso che tanto amava girare con l’uniforme da SS.
Eppure alcuni partigiani, armi alla mano, vennero lo stesso a disturbarlo nella cascina dove aveva appena trovato rifugio insieme alla fidanzata Viola. Erano membri del Partito Comunista, ormai non più clandestino, e tra loro c’era anche il “compagno” Barabba. Tutti loro si ricordavano di quelle storie che, in quelle settimane di macchia, Filippo amava raccontare sull’oro recuperato in Jugoslavia e sottratto con l’inganno ai tedeschi. Scremate le evidenti boriosità egocentriche, volevano che quella storia la raccontasse anche a qualcuno di molto in alto. Qualcuno a Roma. E così Filippo, Barabba e altri due comunisti a fare da scorta, si incamminarono in un viaggio di fortuna verso la Capitale, attraversando un’Italia distrutta e appena liberata. A complicare il viaggio ci si misero poi le due guide, evidentemente più interessate a varcare i posti di blocco controllati dal CNL che non quelli controllati da americani e britannici.
Giunti a Roma Filippo soggiornò in una bettola semidistrutta dai bombardamenti. Ma l’appuntamento era invece nel ben più lussuoso Hotel Excelsior. Di stanza in stanza, di lusso in lusso, seppur relativo allo stato di indigenza in cui versava il resto della città, Filippo poté capire l’importanza dell’uomo che andava incontrando. Pensò che il potere di un uomo di dimostrava anche da queste apparenze.
E poi infine, eccolo, Ercole Antani, il segretario generale del Partito Comunista italiano. L’uomo venuto dal freddo, da Mosca. Il Segretario lo fece accomodare, gli offrì da bere, e dopo i convenevoli vari andò subito dritto al punto, cinicamente e pragmaticamente come solo un uomo sopravvissuto a dieci anni di purghe sotto Stalin poteva fare: voleva l’oro. Parte di quell’oro jugoslavo era stato ritrovato, ma evidentemente ne mancava dell’altro. Ecco che le boriosità egocentriche di Filippo improvvisamente avevano un senso. Acquisivano lo status di realtà fattuale. Il patto fu che se Filippo avesse consegnato l’oro al Partito Comunista i suoi meriti da fiancheggiatore partigiano gli sarebbero stati riconosciuti, e i suoi “demeriti” del passato fascista dimenticati.
“Si ricordi che gli americani vanno, noi comunisti siamo qui per restare” furono le sibilline parole del Segretario pensando che anche gli americani potessero a loro volta aver offerto la stessa cosa al Giotto. Ma Filippo restò sul vago. Disse di apprezzare l’offerta, che al momento quell’oro non era nelle sue disponibilità ma che si sarebbe dato da fare per rimettersi in contatto con i vecchi gerarchi imprigionati per l’Italia. Pretese però dal Segretario che i dirigenti comunisti pistoiesi gli rilasciassero un lasciapassare. E, memore della fama che ebbe quando sui giornali fascisti scriveva delle sue gesta nella guerra di Spagna, pretese che i giornali comunisti del pistoiese scrivessero articoli in cui il cittadino Filippo Giotto veniva descritto come un effettivo aiutante del movimento di Liberazione.

Tornato a Pistoia, e ottenuto il lasciapassare dei comunisti, poco ci poté con quello però quando Filippo fu fermato da una pattuglia americana. Ai soldati alleati il Filippo Giotto risultava ancora come un ex funzionario della Repubblica Sociale. Trattato con asprezza, fu recluso per tre giorni ad acqua e brodaglia fetida in un carcere fiorentino. Attribuì quella rigidità ai rastrellamenti contro i piloti alleati abbattuti sul pistoiese. Pensò a quella fucilazione dei piloti inglesi nella cripta di Don Biagio. Pensò di essere ad un passo dalla forca per crimini di guerra. E in quella circostanza i comunisti non avrebbero potuto salvarlo.
“Chisto me pare nu fess…” sogghignò con quell’accento a metà tra il napoletano e il marsigliese l’uomo paffuto. “Fuck, don’t be a pain in the ass…” controbatté l’ufficiale americano smunto che con quegli occhialoni e quelle orecchie a sventola sembrava più un topo di biblioteca che non un soldato. L’americano era Arthur Fisher, arruolato con l’OSS, il servizio segreto americano. L’uomo paffuto era invece Amalio Godone, ex vicecommissario di pubblica sicurezza durante il fascismo e diventato poi spia al servizio degli americani già nel 1943, a guerra in corso. Il Godone era ben presto diventato il braccio destro di Fisher e con questi aveva iniziato a sgominare le cellule di resistenza che i nazisti lasciavano dietro le linee nemiche mentre si ritiravano sempre più a Nord. Chiaro che uno con il passato di Filippo Giotto non potesse che non allertare i due. Che il Giotto potesse lavorare ancora al soldo dei nazisti? O magari conoscere chi lo facesse?
Quando Filippo capì che i due, più che metterlo alla berlina per i propri crimini, erano più interessati alle sue informazioni, svuotò subito il sacco. Consegnò la lista dei collaborazionisti del questore Ferrazza, sorvolando sulle circostanze sul come ne era venuto in possesso. Raccontò dei suoi legami con ex membri del servizio segreto fascista e le sue gesta con l’oro jugoslavo. Millantò sul suo vitale contributo alle formazioni partigiane di Salvatore Liberati e della Banda Giulianello, salvo però correggersi piuttosto frettolosamente tenendo a precisare che lui comunque no, non era affatto comunista. I comunisti gli avevano ammazzato il fratello in Spagna. A dirla tutta lui non si definiva nemmeno fascista, erano state le “sfortunate circostanze della vita” a fargli indossare la camicia nera prima e quella delle SS dopo. Si vedeva bene semmai in una futura società civile italiana ricostruita, sicuramente liberale, repubblicana o monarchica che fosse, sicuramente vicina agli ideali democratici per i quali migliaia di americani erano morti per liberare la sua nazione. Morti per i quali, confessò, piangeva ogni sera. Quando poi le risate di Godone o l’interesse di Fisher iniziarono a calare, Filippo si ricordò della fucilazione degli inglesi. Ora che se li stava facendo “amici” sarebbe stato un peccato se loro avessero tirato fuori quella storia. Va bene mandare ai campi di concentramento poveri contadini toscani, ma soldati degli alleati no, quello era imperdonabile. E cercò così d’agire d’anticipo.
“Poi, ecco … ci sarebbe… ci sarebbe quella brutta storia della chiesa di Tobbiana. Ma io, io, con la fucilazione degli inglesi non c’entro nulla. Pure il parroco, Don Biagio, ve lo potrà confermare. Io alla loro fucilazione mi ero opposto con tutto me stesso. A volerli vedere ammazzati, e a comandare il plotone, furono due giovani e scalmanati fascisti, Umbertone e Robby. Furono loro!”. Filippo diete poi le indicazioni su dove i due, a Verona, si erano rifugiati per continuare la guerra. Indicazioni che i due, fidandosi, avevano confidato al loro amico prima di partire e prima che Filippo svelasse il suo doppiogiochismo con i partigiani nella liberazione del carcere di Pistoia. Con tali indicazioni, rigirate ai britannici, Robby fu catturato qualche mese dopo e fucilato per crimini di guerra. Andò un po’ meglio ad Umbertone, preso invece dagli americani. Se la cavò giusto con un po’ di botte e un anno di carcere.
Non convinto del tutto Godone, ma completamente ammaliato Fisher, Filippo Giotto riuscì ad ottenere la fiducia del Comando militare alleato. Fisher iniziò a vederlo come una potenziale risorsa da arruolare. Per prova fu messo nella stessa cella con il Principe Nero, l’ex comandante della X Flottiglia MAS. Il Principe si era arreso spontaneamente agli alleati ma aveva rifiutato ogni qualsiasi forma di collaborazione attiva con gli stessi. Bastarono due giorni accanto a Filippo, la sua prosopopea, e la sua persuasione, che il Principe si ricredette. Filippo fece leva sul forte senso di anticomunismo del Principe. Ovviamente omise di dire che lui, coi comunisti, ci era andato a braccetto fino ad un mese prima.
Già, i comunisti. Se prima la sfida di Filippo era capire quale parte della moneta, fascismo o antifascismo, sarebbe uscita vincitrice dalla guerra, ora la nuova moneta che veniva lanciata aveva le due facce dell’antifascismo: americani e liberali o comunisti. Pensò però che forse questa volta era meglio non sfidare ancora la sorte. Usufruendo della momentanea benevolenza di ambo le parti, utilizzando sia il lascia passare dei comunisti che quello degli americani, chiese ed ottenne dai Carabinieri il permesso di trasferirsi in Sardegna. Non prima però di aver sposato la sua amata fidanzata Viola. Lì, in Sardegna, sarebbe stato al riparo da tutto. Dal dover scegliere se servire gli americani o i comunisti, dalle vendette trasversali degli antifascisti pistoiesi o dei fascisti traditi, dai possibili processi sugli ultimi giorni di guerra. Finalmente una vita in pace e lontana da ogni gioco sporco.