Visto l’acclamato successo che ha riscosso il thread sui racconti delle imprese dei partigiani che ognuno ha in famiglia, ho deciso di regalarvi gratuitamente la lettura di questo mio raccontuccio che avevo in canna già da tempo. Narra la storia di 3 ventenni, poco più che ragazzini, che si ritrovano catapultati nei fatti della Seconda Guerra Mondiale. E’ una storia vera, è una storia falsa, è una storia Ferguson … chi lo sa, c’è sempre un po’ di verità nella menzogna e un po’ di menzogna nella verità.
L’ho divisa in 8 episodi, pari pari il numero di episodi di una serie tv di successo. Così se Sollima dopo il Mostro di Firenze o Sydney Sibilla dopo gli 883 vogliono, c’hanno già il soggetto pronto. Poi eventualmente con i diritti smezziamo con Cirus che ci offre gratuitamente i server
Ah, premetto, non sono uno scrittore di professione. La mia natura è più quella dello sceneggiatore. Se surclasserò in stile i vari Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Giampaolo Pansa, la cosa non era voluta. Caro lettore tu però non farne un dramma se qua e là la comprensione del testo ti risulterà difficile, o se troverai gravi errori di grammatica o sintassi. Goditi i pochi verbi che ho azzeccato, pensando che nemmeno quelli erano voluti
Ispirato ad una lettera anonima e un articolo di giornale mai uscito
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
CAPITOLO 1 di 8
“Riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria …” Salvatore commosso a stento riusciva a trattenere lo slancio d’entusiasmo, mentre tra una pacca e l’altra con i compagni di sempre Enzo e Rocco, doveva ricordarsi pur sempre di far silenzio perché per tutta Pistoia era pieno di fascisti e già dopo l’annuncio del 25 Luglio, caduta del fascismo, si era fatto più di un mese di carcere per aver organizzato delle manifestazioni contro il Duce. Il professor Corrado Leoni, invece, all’euforia giovanile suppliva con sincere lacrime di gioia. Pensava a sé stesso, agli anni d’insegnamento al liceo di Pistoia provando tra le ostilità dei colleghi a trasmettere ai propri alunni gli ideali di libertà e egualitarismo. Ma soprattutto pensava ai suoi ragazzi che per quasi tutti quei vent’anni di vita erano vissuti sotto un regime che ormai scricchiolava e finalmente riuscivano a scorgere un po’ la luce della speranza. Sapeva però il professor Leoni che le sofferenze non finivano quella sera. Sapeva il professore, ma non se la sentiva d’interrompere quello spettacolo d’entusiasmo.
“E ora?” si chiedevano i ragazzi. “C’è da organizzarsi, da prender l’armi, da far finalmente la rivoluzione” proponeva Salvatore Liberati, il più vigoroso tra i tre. “Si va coi comunisti, sicuramente sono i più organizzati” propose invece Rocco Leonardi, che qualche contatto col partito clandestino aveva iniziato a coltivarlo nei mesi precedenti e che già si faceva chiamare col nome di battaglia di Barabba. E fu proprio Rocco “Barabba” ad organizzare, qualche giorno dopo, l’incontro in una cascina nelle campagne pistoiesi. Barabba per organizzare l’incontro s’era speso la nomea di Salvatore Liberati quale attivo e sincero giovane antifascista, più d’una volta spina nel fianco per gli uomini della Questura già dalla tenera età adolescenziale. Però ben sapeva che comminare quell’incontro era molto difficile. Difficile per la nomea di “anarchico” e “testa calda” che aveva Salvatore. E anarchico lo era davvero, specie per la mentalità del partito comunista clandestino, troppo statico sulle proprie posizioni materialistico-dialettiche e incancrenito da vent’anni di clandestinità e attendismo.
“Ti conosciamo a te… pensi davvero che la rivoluzione si fa con le belle parole? con le belle motivazioni? l’avete mai vista voi una mitragliatrice nemica? ve la siete mai trovata contro?”, come se tutti quei “parrucconi” fossero veterani di chissà quale guerra o azione di guerriglia. C’erano al massimo due reduci della guerra di Spagna, fronte repubblicano, condannati in contumacia dal regime e tornati in patria grazie al caos del post 25 Luglio, e un paio di cinquantenni reduci dalla Grande Guerra, uno dei quali per giunta ex fascista e passato ai rossi solo per guai personali con la giustizia.
“Voi libertari, voi anarchici siete la peggior rovina del proletariato! Utili idioti che fanno solo il gioco della borghesia! Peggio del fascismo! Bisogna attendere, avere la capacità razionale di capire quale sia il momento di agire e quale rimanere nell’ombra. Ciò che voi vivaci anarchici non riuscite proprio a comprendere”. –“Cosa dovremmo attendere? Di andare in prima linea e poi che il compagno Stalin ci faccia bombardare come ha fatto con gli anarchici in Spagna?” provò a ribattere Enzo più per difendere l’amico Salvatore che per andare ad un uno contro uno con i rossi. Quel che i comunisti avevano in mente era che si dipanassero i primi contatti di un accordo di non belligeranza che alcuni ex gerarchi a Roma stavano intrattenendo con il nascituro Comitato di Liberazione Nazionale. Quel che i comunisti non sapevano era però che proprio in quelle ore l’esercito tedesco, in discesa incontrastata verso Roma, aveva stabilito che Pistoia sarebbe stata un importantissimo polo logistico trovandosi proprio difronte quella che avevano stabilito essere la più importante linea difensiva dietro cui trincerarsi: la Linea Gotica.
Salvatore, Enzo e Barabba tornarono nelle rispettive case immaginando che qualcun altro avrebbe combattuto quella guerra al posto loro. Intenti e ideali evidentemente non bastavano a far direzionare la Storia, la grande Storia con la S maiuscola.
Non era ancora la fine di Settembre del 1943 che già apparvero le prime camionette tedesche, l’inconfondibile cadenzato rumore del passo dell’oca, e quegli ordini “Achtung”, “Schnell”, “Los, los” che da soli bastavano ad incutere timore. E poi i fascisti, gerarchi vecchi e nuovi, che di ritorno a Pistoia o in fuga da altre parti d’Italia tornavano a rialzare la testa dopo settimane di oblio sotto le insegne della nuova Repubblica Sociale Italiana. Non erano passati che pochi giorni dall’arrivo in città dei tedeschi che donna Ada, amica di famiglia dei Liberati, bussò con quanta più veemenza possibile. “Aprite, aprite, vogliono portarsi via Salvatore!”. Con un figlio disperso in Russia e un marito mezzo zoppo e a mezzo servizio per la Questura, la povera Ada, che quel Salvatore l’aveva visto crescere, era venuta a sapere dell’imminente rastrellamento di tutti gli schedati come antifascisti da parte dei nazifascisti. E Salvatore, che a sedici anni era stato pestato da figli di gerarchi locali e a diciannove aveva subito il suo primo arresto, non poteva che non essere tra quelli. Salutò mamma e babbo, prese un po’ di pane e l’occorrente per sopravvivere qualche giorno nei boschi, e poi il suo pensiero corse là, al suo mentore: “il professore!”. Troppo tardi, la casa del professore fu la prima ad essere rastrellata. Con una bicicletta “presa a prestito” pedalò, nonostante fosse un ricercato, fino alla centralissima Piazza Duomo e là, proprio sotto la torre del campanile, mentre le prime camionette tedesche stavano per partite gli parve d’intravedere il volto del professore. Ah se solo avesse avuto con sé un mitra, una pistola. Anche da solo, a costo della vita, avrebbe provato a salvarlo. Ma così? Senza nulla, che senso avrebbe avuto? Mogio mogio, sbirciando da dietro un vicolo, mentre il professore si avviava per un viaggio di non ritorno verso Mauthausen, giurò a sé stesso che mai avrebbe più provato quella sensazione di impotenza.
Un calpestio di foglie riportò sul chi va là Salvatore dalla fase di pre sono. Aveva trascorso due nottate all’agghiaccio nei boschi ad est di Pistoia. La stanchezza si faceva sentire ma il timore che una pattuglia in perlustrazione, un delatore o anche solo qualcuno passato lì per caso potesse scoprirlo era più forte di ogni sfinimento. I passi si fecero sempre più forti ma poi da un albero comparvero visi amici. Era Enzino, era Barabba, e con loro Jacopone, Ettore, e persino Archimede, il compagno d’università lasciata troppo presto per la guerra di mezzo. Pur se nessuno di loro era finito nelle liste nere dell’occupante nazista, avevano contattato la madre di Salvatore, l’unica a conoscere con una qual vaghezza i probabili rifugi del figlio, e l’avevano raggiunto.
“Noi ci siamo” fu l’unica frase che Enzino riuscì a pronunciare, prima che i tre, Salvatore, Barabba e lui stesso si abbracciarono in una stretta fraterna come prima non mai. “Noi ci siamo” fu la frase con cui quei ventenni decisero per sempre di cambiare la vita in un affare più grande di loro.
Messa da parte la commozione e tornata la pragmaticità, Enzino illustrò a Salvatore l’idea sviluppatasi a seguito delle indicazioni di Jacopone. La fortezza di Santa Barbara, dove i tedeschi accatastavano buona parte dell’arsenale per le locali operazioni, era controllata da una minuta guarnigione di repubblichini, per lo più inesperti, che attorno alle 17 erano soliti andare a far baldoria nella taverna dello zio di Jacopone per poi riprendere, mezzi sbronzi, il turno notturno. Tra le 17 e le 20 era il momento perfetto per intrufolarsi nella fortezza e rubare quanta più roba possibile. A disposizione sei ragazzi e una pistola trovata chissà come da Ettore.
La sera del 17 Ottobre 1943 scattò l’operazione. Quando Jacopone ebbe conferma dallo zio che i giovani fascisti erano tutti a bere, i sei ragazzi si avvicinarono alla torre Ovest, quella che stando alle loro informazioni doveva contenere le armi.
“Oh là, l’Enzo Baiocco. E che ci fai tu da queste parti?” pronunciò lo sventurato di guardia financo non si sentì sulla tempia la pistola puntatagli da dietro da Salvatore. Questi con la minaccia di sparare riuscì a farsi aprire. Un secondo repubblichino, dentro la torre a piano terra, fu steso con un cazzotto da Barabba. Aperte delle casse, le prime mitragliatrici, le prime pistole, le prime bombe a mano sembravano oro per i ragazzi. E loro si sentivano pirati. “Prendi questo, no prendi quello, lascia stare quello” impartiva gli ordini Salvatore. E nel frattempo pensava a quanta roba avrebbe dovuto lasciare lì, a quanta roba aveva il nemico e a quanta altra glie ne sarebbe arrivata. E pensò che contro quella moltitudine di tutto si sarebbe dovuto confrontare nei mesi a venire.
Cercando di trasmettere ottimismo ai suoi, fece legare e imbavagliare i due giovani fascisti alle sedie. I quali, mentre il gruppo si avviava all’uscita, divennero presto oggetto di sberleffo. Ma proprio quando il gruppo era sul ciglio della porta della torre gli si piantò difronte un tedesco. Jacopone, scombussolato, fece cadere il proprio sacco con le armi. Il tedesco, più incredulo di loro, riuscì a balbettare qualcosa – “Leise. Nicht schiessen. Nicht schiessen. Doktor … doktor… dottore” .
Salvatore lo guardò negli occhi, la sua mano impugnante la pistola tremava. Poi il tedesco provò ad impugnare un fischietto che aveva attorno al collo. Prima che potesse far partire un segnale Salvatore gli puntò la pistola contro e sparò un colpo secco, dritto in fronte. Il gruppo si allontanò poi borsoni con armi al seguito.
Sei intraprendenti ragazzi erano entrati dentro quella fortezza. Ne erano usciti sei uomini, e tornare indietro non potevano più.