[QWFWQFcoso segnale] Peter Heather

In questi giorni sto leggendo Empires and Barbarians: Migration, Development and the Birth of Europe di Peter Heather.

Vorrei sapere se qualcun altro l'ha letto e cosa ne pensate della sua interpretazione. Qwfwq, se non sbaglio questo è pane tuo
Conosco altri contributi di Peter Heather ma non ho letto in particolare questo libro.

Heather propone una lettura della fine del mondo antico e dell'impero romano opposta rispetto alle interpretazioni che si sono andate affermando allorché, a partire dagli anni '60 del secolo scorso, entrava in crisi la narrativa tradizionale precedentemente elaborata dalla scuola tedesca del XIX secolo. In contrasto con la scuola viennese (Pohl, Wolfram) e con la gran parte delle scuole angloamericane (orientamenti condensatisi nella prestigiosa collana The Transformation of the Roman World edita dalla Brill a partire dal 1997), Heather cerca di recuperare la tesi di una rottura violenta fra l'antichità e il medioevo, con protagoniste le invasioni barbariche. Tieni presente che, negli ultimi decenni, non si parla più di vere e proprie 'invasioni' e spesso neppure di 'barbari'.

Personalmente propendo per la tesi della continuità, dell'integrazione e dell'accomodamento quasi-pacifico e, dalle recensioni che ho letto in giro, non mi pare che quest'ultimo libro di Peter Heather sia capace di produrre chissà quali argomentazioni o evidenze che giustifichino una ripresa del vecchio paradigma. Naturalmente si tratta di un'opera comunque meritoria, poiché credo che alcuni studi di scuola recente esagerino nel minimizzare la componente violenta degli stanziamenti 'barbarici', ed è bene che si mantenga un dialogo scientifico con la tesi opposta. Ma, nel complesso, non condivido l'interpretazione di Heather e certo non lo consiglierei come autore sul tardoantico

Stante il fatto che non ho letto il libro in questione, se hai domande su questioni specifiche, fai pure.
Ogni epoca storica avanza il proprio paradigma interpretativo della tarda antichità e della fine dell'impero romano, ed a mio avviso questo plurisecolare filone storiografico, con le sue cicliche oscillazioni, in definitiva parla più dei tempi che di volta in volta rispecchia, delle loro idee ed inclinazioni, che non della storia che tenta di ricostruire. Ma questo è un giudizio personalissimo.
Penso che nell'accantonamento, circa un trentennio fa, del vecchio paradigma della rottura traumatica, nell'affermazione delle tesi che pongono l'accento sulla continuità in termini spesso sin troppo rosei ed ottimistici, abbia molto influito la coeva cultura occidentale - e specificamente anglosassone - con la sua fiducia nel coevo mito del melting pot: il concetto dell'assimilazione è il primo e fondamentale puntello per poter parlare di simile continuità. Ed alla fine son proprio gli anglosassoni che hanno spesso e volentieri adoperato la storia antica (ed in special modo quella romana) come cartina al tornasole per riflettere sul proprio presente: tendenza particolarmente spiccata negli USA, peraltro. I padri fondatori come Jefferson amavano dilettarsi di storia repubblicana, da un decennio a questa parte va particolarmente di moda quella imperiale esattamente come andava di moda, un secolo fa, nella trionfante Gran Bretagna vittoriana.
A me questa interpretazione ottimistica in termini di continuità, di cui il massimo rappresentante vivente è sicuramente Peter Brown, non ha mai particolarmente convinto. E penso che a Brown il grande amore per sant'Agostino abbia dato un po' troppo alla testa, sino a dimenticare che l'utilizzo della cultura classica, in Agostino come in Orosio - giusto per fare un paio d'esempi correlati - ebbe finalità puramente strumentali: un martello per schiacciare un chiodo, al più. Già nella filosofia della storia agostiniana, tracciata nel De civitate, l'età romana è liquidata come un mo(vi)mento ormai superato della historia salutis; la sua suprema indifferenza verso la resa di Roma di fronte ad Alarico non è indizio di un evento che tutto sommato dovette essere meno traumatico di quanto si disse, ma spia di una drammatica rottura ideale già consumatasi. E troppe sono queste rotture traumatiche, certe soluzioni di continuità istituzionali, giuridiche e culturali per poter accettare in toto un paradigma del genere: una transizione che comporti il disperdimento del novanta per cento (stima a spanne) del patrimonio librario greco-romano, e della cultura da esso veicolata, difficilmente potrebbe dirsi soft, e men che meno essere posta nei termini di una continuità. E sovente si dimentica il collasso delle istituzioni educative, la drammatica contrazione dei commerci e della mobilità in generale; si ha un bel dire che il diritto romano non sia mai stati dimenticato, nella parte occidentale, se si omette che raramente esso venne applicato, lasciando spazio a codici barbari (di nome e di fatto, se ci si prendesse la briga di leggerli), come la Lex Visigothorum.
Non concordo con Number Six quando sostiene che Heather si limiti a riproporre, in donchisciottesca solitudine, un paradigma ormai superato e in controtendenza con interpretazioni ormai ampiamente radicate ed accettate; a mio avviso è proprio il pendolo storiografico che oramai sta vigorosamente oscillando in direzione contraria. Detto un po' semplicisticamente, se prima imperavano gli storiografi figli dell'incrollabile fiducia nel melting pot, ora stanno prendendo piede gli accademici consapevoli del fallimento di quell'ideale che preferiscono piuttosto, più o meno inconsapevolmente, dichiararsi figli dell'huntingtoniano paradigma dello scontro di civiltà. Non mi erano particolarmente simpatici i primi, così come non mi convincono particolarmente i secondi; ambedue gli schieramenti hanno le loro aliquote di ragioni e di torti, fermo restando un punto fondamentale che i secondi hanno il merito di sottolineare con forza: i barbari si dimostrarono un elemento dirompente perché inassimilabile. E la percezione di quell'inassimilabilità, ch'è già nella Germania di Tacito, è anche virtuale negazione di ogni facile continuità.
Citava sempre Number Six quello che per me è un mostro sacro, quantunque conosciuto quasi ai soli addetti ai lavori, come il professor Herwig Wolfram; anni fa ebbi il piacere di intrattenermici un poco a latere di una conferenza sul concetto di etnogenesi (vero punto di forza fra le proposte uscite dalla scuola di Vienna): ebbene il punto testè citato, a Wolfram, è ben chiaro, come peraltro si evince dalla sua Storia dei Goti (lettura quantomai consigliata). Guai a confondere l'utilizzo strumentale che Teoderico fa della cultura romana in un'ottica di passaggio delle consegne, di traslazione del potere da mano romana a mano barbarica, con un'accettazione della cultura - nel senso più ampio del termine - romana da parte degl'Ostrogoti.
Di Heather ho letto con molto piacere il volume sulla caduta dell'Impero romano, ha il raro pregio di ricollocare nella loro giusta dimensione eventi, come la dissoluzione del limes renano ed il caos irrimediabile in cui piombarono la Gallia e poi la Spagna, che l'ultima generazione di storici ha provveduto alacremente a levigare con accanimento alquanto sospetto. Ho letto con molto minore interesse anche il volume sui barbari cui fai riferimento: non aveva nulla da aggiungere al suo volume precedente (in ordine di pubblicazione, successivo in ordine di concezione) e la periodizzazione eccessivamente ampia mi pare un errore, ad iniziare dal fatto che i regni altomedievali, contrariamente all'impero d'Occidente, sopravvissero alle invasioni di magiari e vichinghi istituzionalmente intatti. In definitiva, in materia di questa revisione di paradigmi interpretativi da parte di uno storico decisamente appartenente alla "nuova" corrente, che poi mi pare la parte più storiograficamente stimolante dell'intero dibattito, penso che il libro da leggere fra quelli recentemente pubblicati sia il volume di Ward Perkins: almeno ha il merito di esporre con chiarezza i punti nodali dell'interpretazione di chi sta operando il recupero del "vecchio" paradigma della caduta traumatica di Roma.