Libro WWII

Ciao, mi consigliereste uno o più libri riguardante la seconda guerra mondiale, in particolare mi interesserebbe leggere delle cronache vere di soldati (anche piloti di aerei o carristi) che hanno combattuto nei vari fronti (quello che mi interessa di meno è il conflitto africano e il giappo-americano), sarebbe anche interessante leggere il punto di vista di un alleato e quello di un nazista.

Grazie in anticipo
Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern
Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi

U-boot di Lothar-Günther Buccheim (c'è anche il film U-boot 96 (das boot) capolavoro)
Non ho capito perché nulla del fronte africano, però fa niente, io te li metto lo stesso:

-Albanaia - Un fascista esemplare di Bianchi Rizzi Augusto, storia di un tenente-medico durante la guerra in Albania;
-Batterie semoventi alzo zero di Davide Beretta, storia dei carristi italiani in Africa;
-Folgore! ... E si moriva. Diario di un paracadutista di Doronzo Raffaele, storia dei paracadutisti italiani in Africa;
-I più non ritornano di Eugenio Corti, storia di una sacca dei soldati dell'Asse formatasi dopo che i sovietici sfondarono il fronte;

Oltre che consigliare già Bedeschi e Stern.
Memorie di generali non te le consiglierei perché potrebbero risultare un po' più pesanti di quello che cerchi (libri come Guerra in Europa di Frido Von Senger und Etterling oppure Panzer General di Guderian).
C'è anche Come mio fratello di Uwe Timm, però riguarda più che altro il rapporto tra l'autore e il fratello arruolatosi volontario nelle SS e il tentativo di comprenderne le motivazioni.
Oppure Kaputt di Curzio Malaparte, però non sono propriamente racconti di guerra e di combattimento, ma è più sulla brutalità e la cornice di violenza della guerra stessa.
Questi i primi che mi sono venuti in mente.

Edit - ne conosco altri che però non ho ancora avuto modo di leggere:

-Urla di vittoria nella steppa di Gaza Giorgio, fronte russo;
-La guerra del soldato Tamura di Shohei Ooka, che riguarda però la guerra nel Pacifico da un punto di vista giapponese;
-Odissea di un sommergibilista di Rapalino Patrizio, storia di un sommergibilista italiano;
-Un sommergibile non è rientrato alla base di Antonio Maronari, come sopra.

Oppure un bel libro è Soldaten di Neitzel e Welzer, ma non è propriamente un diario di guerra o altro, ma è un saggio molto interessante che ha come base le intercettazioni di militari tedeschi prigionieri degli alleati.
Sono catturate le loro conversazioni su vari temi, da azioni di guerra a evoluzioni della stessa, da eventuali crimini compiuti alle sensazioni nell'uccidere o bombardare.
Ne conosco pure qualcuno scritto da fascisti impenitenti, ma diciamo che bisogna turarsi molto il naso per leggerli e altri non li leggerei proprio (a meno che tu voglia fare una "breve incursione in territorio fascista" come scrive Littel nel suo Il secco e l'umido riguardo Degrelle).
gli ultimi letti sul tema sono stati:

- uccidete rommel
- tutta la serie di sven hassel
- le benevole

poi mi vengono in mente l'agnese va a morire, il partigiano johnny, il sentiero dei nidi di ragno, la cruna dell'ago e molti altri di follett, dossier odessa, ma forse rimangono un po' generiche come letture
Mah, mi pare che l'OP avesse chiesto, più che altro, della memorialistica. Pel resto la letteratura abbonda di cronachistica, testimonianze, diari di soldati al fronte.
Quanto all'OP, citavi in particolare piloti di aerei e carristi; non esiste carrista tedesco sopravvissuto che non si sia sentito in dovere di scrivere le proprie memorie. Personalmente la ritengo, nella stragrande maggioranza dei casi, robaccia che non merita d'essere letta: ma se questo cerchi, due autobiografie famose che mi sento in dovere di segnalare sono quelle di Kurt "Panzer" Meyer e Otto Carius. Molto meno famose, ma molto più dignitose (e interessanti), le memorie di Hans von Luck.
Idem per i piloti, i vari Galland, Rudel, etc.

Se dovessi consigliarti solo due o tre libri, ti direi di lasciar perdere la memorialistica nostalgica e optare per documenti che hanno almeno una qualche rilevanza nella ricostruzione del conflitto: pur con tutti gli omissis e le amnesie ridicole sui campi di concentramento, le operazioni di pulizia etnica al fronte, gli ordini di liquidare i commissari politici sovietici della serie "io non c'ero, non potevo sapere, e se c'ero dormivo", le memorie di Guderian (Erinnerungen eines Soldaten, è il Panzer General già consigliato da e1ke) e Manstein (Verlorene Siege, tradotto fedelmente in inglese come Lost Victories) hanno una notevole rilevanza.

Da parte sovietica si è scritto molto ma pochissimo è stato tradotto in qualche lingua occidentale: inoltre si tratta di memorie spesso pubblicate fra la fine degli anni '40 ed i primi degli anni '50 quando Stalin era ancora in vita, quindi documentazione che brilla per l'estremo grado di conformismo, per l'impostazione fortemente ideologica à la "noi incarniamo il modello politico-sociale perfetto e non potevano non vincere la guerra contro i fascismi reazionari", per la tendenza a sorvolare sugli errori attribuendo, per contro, i maggiori meriti alla guida illuminata di Stalin, etc. Tant'è vero che quando la nuova generazione di storici del fronte orientale (uno su tutti, Glantz) si è accinta a riscrivere in dettaglio la storia di quella guerra, a partire dagli anni '90 si è giovata soprattutto della parziale apertura degli archivi russi, saltando a piè pari gran parte della memorialistica ufficiale, di dubbia utilità.
Per schiettezza fanno eccezione le memorie di Čujkov, il comandante sovietico a Stalingrado, che infatti mi par siano le uniche di un comandante superiore ad aver visto traduzioni anche in altre lingue (le trovi in italiano, inglese, tedesco, etc. e meritano).
Inoltre già negli anni '80 un sovietologo come Seweryn Bialer aveva curato un'antologia di scritti di generali sovietici sulla Grande guerra patriottica - selezionando i più utili al netto dei problemi di cui sopra - intitolato Stalin and His Generals; lo trovi anche in traduzione italiana.

Personalmente, l'ultima cosa veramente meritevole d'essere letta che io abbia consultato, è proprio sulla guerra del Pacifico: la Naval Institute Press americana ha ripubblicato nel 2008 la traduzione dei diari dell'amm. Ugaki Matome, Capo di S.M. di Yamamoto. Lo trovi sotto il titolo di Fading Victory. Sempre la Naval Institute Press ha pubblicato un classico delle testimonianze di guerra come le memoria di Hara Tameichi, l'unico comandante giapponese di cacciatorpediniere ad essere sopravvissuto al conflitto: il titolo è Japanese Destroyer Captain.


Grazie per aver segnalato le memorie di Čujkov che non conoscevo e che cercherò di procurarmi, anche perché non ho mai avuto modo di leggere memorialistica di guerra sovietica (l'unico breve testo che ho letto di un autore sovietico è stato L'inferno di Treblinka di Vasilij Grossman).
Sì, in realtà sto continuando ad editare man mano che mi vengono in mente altre referenze bibliografiche (v. Bialer).


Meglio così, terrò d'occhio tutti gli aggiornamenti
non credevo che sarebbero fioccate così tante risposte così velocemente, grazie a tutti delle segnalazione e comincio a vedere quali libri posso procurarmi velocemente, devo dire che non avevo valutato il punto di vista giapponese della guerra che può rivelarsi quello più interessante...
non sono d'accordo con la lettura di guderian e manstein senza basi di storia militare ( e del prussianesimo ), strategia, logistica, e tattica.
è dieci volte più difficile che leggere un Cesare senza capire cosa siano una coorte o un manipolo, come al liceo si legge for fun, non conosco professori che alzano il culo dalla sedia per disegnare alla lavagna la disposizione dei soldati


Mah, trovo che sia molto più difficile comprendere Cesare; quantomeno perché si tratta, contrariamente all'ultimo conflitto mondiale, di un periodo, di una mentalità e di un modo di far la guerra estremamente differenti rispetto a quella che è la nostra percezione e la nostra esperienza.
Inoltre, se scopo dei memoriali di qualunque generale è quello di magnificare le proprie imprese se vittorioso, giustificarsi se sconfitto, quantomeno Guderian e Manstein tengono a fornire un quadro preciso della situazione strategica; mentre ciò raramente accade nel caso di Cesare, che nel De bello ha tutt'altre finalità.
Ma soprattutto, Guderian e Manstein sono - contrariamente a Cesare - figli di una civiltà quantitativa, la civiltà post-industriale del numero, della stima esatta: mentono quando vogliono mentire, mentre Cesare è necessariamente impreciso anche su tutti quei fatti che non avrebbe avuto alcun particolare interesse ad occultare o sfumare: le cifre che fornisce, quelle ad esempio sul numero dei navigli diretti in Britannia, o sulla struttura del ponte sul Reno, o sulle linee di circonvallazione e controvallazione ad Alesia, le fornisce più perché consapevole della loro capacità di esaltare ulteriormente imprese di cui coglie perfettamente la grandezza, che non per scrupolo professionale.

E infatti, andando a sfogliare un po' di commenti moderni all'opera, è tutto un fiorire di congetture che allignano sulla più disperante indeterminatezza quanto a luoghi, a tempi, a distanze percorse: riscontri con topografie che non coincidono in lunghe ricerche sul campo (come quelle di un commentatore famoso delle campagne cesariane come T.A. Dodge), tempistiche che non tornano, decisioni incongrue rispetto alle premesse che Cesare ha la bontà di raccontarci ed in cui occorre necessariamente leggere qualcosa di più, o quantomeno qualcosa di diverso. Su questo è molto istruttivo il volume del col. Giuseppe Moscardelli dell'Ufficio Storico SME (lo stesso che nel '45 venne incaricato di raccogliere le testimonianze di tutti i sopravvissuti della divisione Acqui a Cefalonia): Moscardelli non è un grande scrittore, ma intende bene il latino, è molto pignolo, ha ovvia dimestichezza con la topografia militare e presenta sempre le possibili alternative, prima di selezionare quella più congrua.

Su Guderian e Manstein, mah; un minimo di background è sempre consigliabile, ma non mi pare davvero indispensabile. Alla fine le dottrine d'impiego che loro propugnavano sono - con tutti i dovuti aggiornamenti del caso - le medesime ancora oggi portate avanti dalla US Army. Credo che per un neofita sia estremamente più difficile comprendere la realtà della prima guerra mondiale, delle trincee, degli assalti di truppe incolonnate come in piazza d'armi ma sotto il fuoco delle mitragliatrici (stile inglesi a La Somme, per intenderci) e del perché si combattesse così, che non il modo in cui è stata combattuta la seconda.
verissimo Cesare moltiplicava i nemici, tanti nemici tanto onore.

questo è il post che avevo scritto prima di cambiarlo per renderlo meno aggressivo*, vedo che più o meno la pensiamo allo stesso modo sopratutto sulla ww1.



*a volte rileggo, poi se vedo che è troppo aggressivo faccio copy, sopratutto quando parlo di F1, avrò 200 post salvati ahaha
Boh, come post non mi pare nemmeno particolarmente aggressivo, ma personalmente sono contro qualsiasi politica tesa a minimizzare le divergenze.

Quanto alla sostanza, in parte concordo con quel che hai scritto, in parte no; nel senso che sì, se vogliamo considerare Guderian e Manstein come il prodotto di un certo ambiente sociale, di una certa tradizione culturale e professionale, Moltke e Clausewitz sono indispensabili. O per meglio dire, è indispensabile Moltke ma - io credo - non Clausewitz.
Il Clausewitz che fa scuola nell'esercito prussiano, poi in quello imperiale, quindi nella Reichswehr postbellica e da ultimo nel Heer hitleriano, non è il Clausewitz del Vom Kriege; è il Clausewitz reinterpretato da Moltke che, notoriamente, poco si curava del vero cardine del pensiero clausewitziano, ossia il rapporto fra guerra e politica, fra vertici politici e militari (e qui il riferimento dovuto va al monumentale studio di Gerhard Ritter sui rapporti fra guerra e politica in Germania, da Federico il Grande sino al crollo del Reich guglielmino).

Nel pensiero di Moltke, invece, vi sono tutti i punti di forza come le debolezze e le storture della German Way of War (per citare un bel libro di Robert Citino): l'azione rapida e risolutiva, tesa ad abbattere un nemico più forte prima che possa mobilitare le sue risorse superiori; ma anche l'angusta prospettiva professionale tale da contemplare solo quella che oggi verrebbe chiamata strategia operativa, trascurando la grand strategy appannaggio della politica; la noncuranza verso la componente marittima del pensiero strategico (ma questa trascuratezza, a onor del vero, è già in Clausewitz); la propensione a lasciare ampia discrezionalità nell'esecuzione delle direttive ai comandanti presenti sul posto (insomma, l'Auftragstaktik: punto di forza della tradizione germanica, ma anche debolezza qualora i subordinati siano degli incompetenti o tradiscano lo spirito delle direttive superiori, vedasi il caso di Steinmetz a Gravelotte-Saint Privat).

Ma soprattutto, in Moltke e nei suoi successori v'è già la tendenza ad ingerirsi negli affari della politica, nel tentativo di dettare ai vertici civili un'agenda politica in funzione delle esigenze militari; tendenza che con Moltke è arginata dalla presenza forte e ingombrante di Bismarck, ben deciso a mantenere le redini della conduzione della guerra nelle mani della politica; ma che produce un'usurpazione di fatto coi deboli successori di Bismarck, sino a quella sorta di dittatura militare informale che si stabilisce a partire dal 1917 col duo Hindenburg-Ludendorff. È noto il modo in cui Ludendorff, risalendo ad una illustre tradizione, interpretasse la famosa ed abusatissima citazione clausewitziana della guerra come continuazione della politica con altri mezzi: ossia, che laddove iniziava la guerra, la politica dovesse abdicare cedendo la mano ai militari.

E questa è un'interpretazione che dimostra come l'establishment politico-militare germanico avesse - da sempre - capito decisamente poco degli insegnamenti clausewitziani: perché i precetti di Clausewitz in materia di strategia e tattica sono ovviamente transeunti, di una validità legata alle pratiche, alle tecniche ed agli strumenti della stagione napoleonica; e questa era consapevolezza già dei teorici militari guglielmini alle prese con le lezioni - per certi versi scioccanti nonostante la vittoria - della guerra franco-prussiana. Allora si impose la necessità di superare gli insegnamenti clausewitziani in materia di tattica e di strategia, o quantomeno di adattarli alle mutate esigenze del campo di battaglia (come sottolineato da Antulio Echevarria nel suo After Clausewitz).
Mentre è il cuore politico delle sue tesi quello che mantiene la sua validità ed attualità; proprio quello che in Germania ci si ostina a non comprendere. Clausewitz afferma chiaramente la primazia della politica, non solo nel decidere la guerra, ma anche nel condurla una volta dichiarata; è la politica a dover stabilire i grandi obiettivi di un conflitto, a decidere passo dopo passo quali sacrifici siano proporzionati o sproporzionati al loro conseguimento. Egli afferma, testualmente, che la direzione politica è la sintassi, la strategia militare la grammatica; alla politica è richiesta solo una comprensione delle regole proprie della strategia, o per meglio dire delle esigenze della condotta di guerra, di modo da non finire per chiedere allo strumento bellico risultati che sono al di là delle sue possibilità (o dei suoi scopi). Ma il Clausewitz politico, l'erede di una tradizione di pensiero che risale sino a Machiavelli (di cui Clausewitz aveva studiato i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio) è da sempre il più trascurato.

Pure, sino alla seconda guerra mondiale, tutti i generali tedeschi, e tutti i politici, invocano Clausewitz pur senza capirlo - e senza applicarlo - perché questa possibilità risale alle caratteristiche stesse del Vom Kriege; un'opera farraginosa, lasciata incompiuta dalla morte prematura dell'autore e che si presta, pertanto, ad essere piegata alla giustificazione delle tesi più svariate, persino antitetiche. E così le tesi clausewitziane sui rapporti fra guerra e politica vennero chiosate - come s'è visto nel caso di Ludendorff - per fungere da puntello a costruzioni politiche militariste; e lo stesso Claseuwitz divenne un profeta della guerra totale solo perché egli, kantianamente, nel suo libro prende in considerazione la possibilità teorica di un'ascesa verso gli estremi della violenza bellica in mancanza di elementi di moderazione politica: ossia di quella politica che, come detto, ha il compito di stabilire gli obiettivi dello sforzo bellico e la posta in gioco, evitando che la guerra proceda a briglia sciolta.
Poco importa che in alcune specifiche sezione del Vom Kriege Clausewitz contempli - e tratti - anche la possibilità della guerra limitata, ossia di uno sforzo contenuto per il conseguimento di obiettivi limitati ad esso commisurati. Distorsione interpretativa, questa, che a partire dai commentatori tedeschi passò poi per osmosi anche a quelli inglesi che dai primi dipendevano, non avendo mai letto direttamente il Vom Kriege: e fra questi anche il famoso Liddell Hart che, del tutto arbitrariamente, definì Clausewitz come il profeta delle masse e dei massacri.

Insomma, aveva ragione Blumentritt, dopo la guerra, a dichiarare che mettere Clausewitz in mano ad un generale era come mettere un rasoio affilato in mano ad un bambino: evidentemente Blumentritt riconosceva, con la sua battuta, questa capacità dell'opera clausewitziana - sia per la sua incompletezza, sia per le sue dimensioni estremamente corpose - a prestarsi da puntello alle tesi più svariate. Ma per le stesse fondate ragioni io negherei che la tradizione militare prussiana, poi germanica, sia compiutamente una tradizione clausewitziana; perché, se sotto molti aspetti Clausewitz è il prussiano di cui parla Gian Enrico Rusconi, sotto molti altri si configura come un'anomalia rispetto a quelli che saranno poi gli assi portanti della costruzione politica tedesca fra Otto e Novecento.