I What If di ngi: Come sarebbe un mondo senza lavoro?

Mi sono chiesto come sarebbe un mondo senza lavoro.

Cioè prendi il mondo così com’è ora e chiedi a Aladino “togli il lavoro”

Taaac, tutti senza lavoro.

Cioè proprio ti svegli e non hai più ne il ricordo e ne il concetto in mente.

Come essere in ferie più o meno. Cioè non hai proprio il pensiero di dover lavorare.

Che faresti?

Come primo pensiero mi è venuto in mente che non ci sarebbe più il traffico, le grandi città si spopolerebbero, la gente morirebbe di emorroidi, cose così.

Poi però mi si accartoccia il cervello.

Non riesco a decifrare meglio come sarebbe.

Cioè dopo un primo momento di assestamento, dopo dove sarebbe il punto di equilibrio?

Forse a ognuno di noi spetterebbe un albero da compagnia?

Io tal caso vorrei un albero di gelsi neri, bello grande, ci giocherei, ci parlerei, ci dormirei, ci farei il colore rosso aspro per dipingermi la faccia, e cantare alla luna.

Poi forse cercherei una Tribù.

La Tribù dei Gelsi Neri.

Una Tribù bellissima, tanti maschi, poche donne, i bambini fanno oh, cani, gatti, un paio di sciamani, poter cacare quando ti pare senza aspettare turni.

Una tribù di dediti alla misurazione di uccelli, al disegno rupestre, cose così.

presumendo che le terre si coltivino da sole e nessuno si ammali mai?

farei l’eremita o un piccolo gruppo di selezionate persone e svariati animali :sisi:

c’è un problema di fondo però
niente videogiochi? solo amatoriali?

Mi troverei un occupazione
Non riesco a pensare di passare la vita a bighellonare

probabilmente impazzirei

altra cosa: Gli scaffali alla coop si riforniscono da soli?

Posso ancora comprare in qualche modo roba di lusso, SUV etc?

La gente si attaccherebbe si visori VR per giocare a giochi dove si lavora

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mi metterei a studiare qualcosa di inutile e velleitario solo per il piacere personale, tipo non so, Fisica

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E darà il voto alla gente che metterà la luce nei campi

Devi prima rimuovere nell’ordine i concetti di ricchezza e potere, e della fame, perché il concetto di sfamarsi facendo un lavoro la cui gerarchia ha in ultima analisi il fine di arricchire sempre più il primo anello della catena, ne è figlio diretto.
Dovresti insomma cambiare l’essere umano per come lo si conosce, un processo peraltro tanto auspicabile quanto dalle conseguenze incerte.

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Stavo gironzolando sul tema e ho trovato sto link stimolante:

Riporto alcuni passaggi ma letto tutto mi è arrivato tragico.

Riepilogo

L’età moderna ha comportato anche una glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una trasformazione dell’intera società in una società di lavoro.[…]E’ una società di lavoratori quella che sta per essere liberata dalle pastoie del lavoro, ed è una società che non conosce più quelle attività superiori e più significative in nome delle quali tale libertà meriterebbe di essere conquistata. […] Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio.” (Arendt 1989, pp. 4-5).

" Arendt dunque si chiede: che cosa cambia della nostra ‘umanità’ se cambiano le condizioni nelle quali essa si trova ad esistere? Ben oltre le certezze empiriche della scienza e della tecnica, l’attività interrogante del pensare muove dalla volontà di non limitarsi alla ripetizione automatica di banalità spacciate per ‘verità’, né di celebrare uno status quo che si nutre della costante speranza di raggiungere un generico ‘altrove’ (lo spazio, l’inconscio, l’utopia dell’assenza di condizionamenti materiali). Dove si colloca, in questa riflessione, la questione della ‘natura umana’? C’è spazio per essa nella riflessione arendtiana relativa alla human condition ?"

La condizione propria del lavoro è, nella provocatoria analisi arendtiana, la vita stessa, nella sua accezione biologica. Il lavoro si fonda su una ciclicità ininterrotta, sul metabolismo del corpo che lavora per sopravvivere, per procurarsi i mezzi di sussistenza che poi consuma nuovamente lavorando. Nel lavoro siamo quindi ‘animali’, identici l’uno all’altro in quanto membri della specie. Ecco perché nel prologo sopra citato l’autrice mette in evidenza la paradossale situazione di una società di salariati, ossessionata dalla centralità del lavoro – e di conseguenza dalla centralità del benessere materiale – che sta per essere liberata dal lavoro stesso, a causa dell’automazione. Tale società è non solo incapace di trovare orizzonti di senso diversi da quelli del produrre e del consumare, ma è anche incapace di comprendere il valore della politica, la sua centralità per la piena umanizzazione. Solo l’azione infatti - e cioè la terza delle attività umane in cui si articola la vita activa secondo la tripartizione arendtiana (la seconda è la sfera dell’opera, dell’agire fabbricativo che costruisce oggetti) - è l’attività attraverso cui possiamo esperire la nostra radicale unicità e insostituibilità – che, per Arendt, sono quintessenza dell’‘umanità’.

Come Arendt dirà nel suo ultimo lavoro, pubblicato postumo, The Life of the Mind , vi sarebbe in ogni essere umano un “impulso all’autoesibizione”, che coinciderebbe con il “reagire con il mostrarsi all’effetto schiacciante dell’essere mostrati” (Arendt 1987, p.102). Il venire al mondo, l’essere mostrati, esposti allo sguardo altrui - una ‘condizione’ nella quale l’umano si trova ad essere, dall’inizio – instillerebbe in ciascuno/a un desiderio attivo di mostrarsi. Le forme che tale iniziativa esibitiva possono prendere sono potenzialmente infinite. Anche qui, è dunque chiaro, ciò che determina l’umano è ciò che in esso più si distanzia da una ‘natura’ intesa come dimensione del dato, dell’immodificabile, del tipico: “Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile” (Arendt 1989, p. 129).

Se c’è quindi un proprium dell’umano, potremmo concludere, esso coincide con una vocazione all’esibizione . Quasi che, in fondo, Arendt, pur rifiutando la domanda sulla ‘natura umana’, voglia comunque qualificare l’umano in una sua peculiare ‘essenza’, e lo faccia immaginandolo come il vivente che desidera venire riconosciuto nel suo mostrarsi. Un vivente già da subito tormentato dall’irrealtà, dal dubbio di ‘non contare’, di essere ‘superfluo’, bisognoso quindi di essere confermato nella sua esistenza, affamato di concretezza. Se questa è la più ‘essenziale’ delle condizioni a cui l’umano è consegnato, secondo Arendt, diviene allora chiaro come tutta la sua produzione teorica sia finalizzata non solo ad emendare le pretese filosofiche di stabilire una ‘natura umana’, ma anche a rintracciare un’ineludibile dell’umano , a cui è necessario, tanto più dopo gli esperimenti totalitari che miravano a negare l’unicità e sancire la superfluità di molti esseri umani, dare risposte. La sua risposta politica è che l’agire insieme ad altri, di concerto, è ciò che dà concretezza – e persino felicità, come dirà in Sulla Rivoluzione (Arendt 1983) - alla pulsione esibitiva di ciascuno/a, le conferisce senso legandola a un “mondo”

Ciò mi pone un quesito lacerante:

ma siamo davvero pronti a un mondo senza lavoro?

la risposta alla domanda c’è già

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viaggerei in giro per il mondo a provare cucine esotiche.

Uno scenario quantomeno intrigante ma al tempo stesso ingannevolmente utopico a mio avviso, e persino potenzialmente pericoloso, perchè sarebbe prima da determinare cosa comporti il concetto di lavoro rispetto all’ambiente popolato e specialmente alla direzione verso cui le opere degli individui, singolarmene e collettivamente, agiscono per modificarlo; quindi, quanto profondamente e capillarmente l’automazione avrebbe ruolo nelle vite dei singoli ? Al suo estremo passa da essere una liberazione ad una schiavitù.

Pianificazione, organizzazione, costruzione, progettazione sono tutti indubbiamente lavori, anche e persino l’interazione sociale stessa, con i suoi obblighi, e dottrine, e regole e codici assume i connotati di un ruolo da cui ci si aspetta di conformarsi, ma pure sono mezzi di espressione e di definizione della personale, ed insieme generale, proiezione del mondo, dal concetto all’oggetto e viceversa quando si confligga con la risposta al proprio stesso operato. Il rischio rimane sempre quello di finire nell’equivalente sociale di una vasca di deprivazione sensoriale oppure una gabbia dorata il cui modello di funzionamento rimane opaco ad ogni analisi.

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Dipende molto da come definiamo “lavoro” in primo luogo. Intendiamo il lavoro salariato destinato all’accumulo di materiale, o qualsiasi forma di attività atta alla produzione di necessità per la sopravvivenza? Dove tracciamo la linea di cosa è necessità per la sopravvivenza, quando una società complessa come la nostra ne crea di nuove? Dovremmo tornare a una forma di primitivismo per escludere queste variabili? Il lavoro di natura sociale (ad esempio l’intrattenimento) è lavoro? Il lavoro di cura, è lavoro?

Parlare di un mondo senza lavoro mi sembra difficile perché non riesco a inquadrare il lavoro in una prospettiva essenzialista, quanto piuttosto come un costrutto definito dal contesto. Ci sono contesti in cui un’attività è un lavoro, e contesti in cui non lo è. Una cosa è certa: fra pollice opponibile, pattern recognition particolarmente sviluppata, socialità, l’essere umano non sa stare con le mani in mano, e tante cose che in questo contesto fa per “lavoro”, continuerebbe a farle in ogni caso, così come agli albori inventava strumenti, si prendeva cura dei soggetti deboli della propria comunità, dipingeva sulle caverne e inventava miti e storie senza che nessuno lo pagasse per farlo.

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Hai presente Solaria con la gente che vive in solitudine? :asd:

Da The Naked Sun forse ? Lo conosco, mai letto fino a questo momento però. Comunque per ricapitolare per me il problema diviene insormontabile quando il processo teorizzato di automazione arrivi al punto in cui i soggetti non abbiamo più voce in capitolo nel determinare la loro proiezione di scelta.

Insomma, è ben differente avere un’auto a guida autonoma od un’auto, o per meglio dire un intero sistema, capace di decidere per te dove andare; ancora peggio se per esempio nessuno avesse neppure ipotizzato il concetto di automobile pur tu trovandoti su una di esse, però è anche vero su scala più vasta potrebbe comunque già essere così. :asd:

fondamentalmente, qualunque “occupazione” è dipendente dalla volontà e dall’attitudine del singolo, che vive in enormi ville/latifondi governati e lavorati da robot.

la co-protagonista è una scultrice se non ricordo male, ma lo fa solo per passatempo.

E chi cucina?

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robot ovviamente.

o esseri umani se c’hanno cazzi di farlo.

io mica smetterei di cucinare :dunno:

Hai presente Bender che cucina? :asd: