Henri vs post-Henri

Che cosa avete ereditato?
Split dello split sulla mucca schizofrenica che vuole essere colta intuitivamente per essere liberata dall'insanità di un sistema produttivo.

Ora si parla dello zio Henri, chi ha colto il suo slancio?


Lapsus?


'Superiore' nel senso semplice di espressione: più chiara, più convincente, più vicina all'intuizione e quindi più capace di indurla. E dunque proveniente da un'intuizione sostenuta.
La filosofia, in quanto conoscenza disinteressata, non va dai concetti all'intuizione. L'intuizione - che è l'oggetto in sé, oggetto della filosofia, come il concetto in quanto "etichetta suggerisci azione" applicata all'oggetto filosofico è a sua volta oggetto della scienza - non può essere costruita combinando concetti o ricavata da essi. I concetti sono tracce che indicano, suggeriscono, il movimento del pensiero il quale per essere colto richiede sempre e comunque uno sforzo d'intuizione.
L'intuizione è una realtà colta dall'interno (una durata, continuità eterogenea che precede e comprende i concetti di unità e di molteplicità, movimento reale nella sua interezza). Non è un punto di vista sull'oggetto, è l'oggetto. Il punto di vista sull'oggetto è prospettiva di azione nei suoi confronti, l'etichetta applicata ad esso, il concetto.


Per favore approfondisci questo punto. Entriamo nello specifico


Diciamo che non mi ha mai deluso.
Non un paio ma tutte le opere principali. Non solo lette ma studiate, ad eccezione de "il riso" e "le due fonti" che finora ho letto una sola volta, con le altre sono alla 3° se non 4° rilettura.


Blah, blah,
In soldoni non so quale sia la tua concezione di 'mente' ma si conosce veramente solo attraverso l'intuizione.
Ognuno intuisce sé stesso più di ogni altra cosa.
Bravo, hai fatto bene ad aprire una nuova discussione.


Non ho idea di cosa tu abbia capito di quello che ho detto.



Bergson è critico di quegli approcci filosofici tendenti a identificare il nome con l'oggetto, ed è promotore di una metafisica come scienza che ambisce a liberarsi dal linguaggio (concepito come simbolo) per cogliere l'assoluto, cioè il puro oggetto (attraverso l'intuizione della/nella durata).
Il problema è che questo genere di critica del linguaggio è una sorta di dualismo debole, essendo connesso alla concezione e alla pratica di un metodo filosofico che ambisce a valicare il confine che normalmente divide il linguaggio dalla realtà. Cioè – assume Bergson – s'è vero che il linguaggio non corrisponde alla realtà, noi possiamo liberarci del linguaggio e cogliere l'assoluto attraverso l'intuizione della durata. E come avviene tutto questo? Attraverso il linguaggio
Cioè, assodata la non corrispondenza del linguaggio all'oggetto, Bergson assume che l'impresa metafisica, se condotta correttamente, possa liberarsi del linguaggio e cogliere l'oggetto. Nel fare questo, però, Bergson assume un punto di vista pre-critico sull'essenza linguistica della stessa impresa metafisica e del suo metodo, che in realtà non si sono affatto liberati dal linguaggio.

Il metodo e l'impresa filosofica di Bergson, in altre parole, sono criticabili secondo la prospettiva suggerita per la prima volta da Heidegger in Sein und Zeit, anche se sono stati poi Derrida e i teorici della cosiddetta svolta linguistica a svilupparla. Ebbene, con Heidegger, la filosofia occidentale prende coscienza del fatto che l'intera tradizione filosofica occidentale è viziata dalla pretesa di poter ottenere un accesso immediato al significato, la quale pretesa è in realtà perseguita attraverso la posizione di premesse metafisiche implicite; queste premesse, sulla scorta di Heidegger, sono identificate da Derrida in una serie di dualismi (presenza/assenza, essere/non-essere, essenza/apparenza, etc.), i cui termini interni sono postulati come sussistenti in un rapporto gerarchico gli uni con gli altri (cioè, al pregiudizio ontologico, si accompagna un pregiudizio assiologico: l'essere è 'meglio' del non-essere, la presenza dell'assenza, e così via).
Non entro ulteriormente nel merito, ma il punto, al fine della nostra discussione, è che queste premesse sono a propria volta costrutti linguistici, sebbene la tradizione filosofica occidentale le assuma quali dati di fatto dell'essere (essere che, a propria volta, è un altro costrutto linguistico, fondato appunto sulla sua opposizione al cosiddetto non-essere). E' peraltro interessante notare come Heidegger critichi esplicitamente Bergson e, in particolare, la sua concezione del tempo come essenzialmente aristotelica, fondata cioè sul dualismo presenza/assenza.

Poste queste premesse, il problema è questo: la filosofia di Bergson non comunica con quel filone del pensiero filosofico che, soprattutto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, ha rivoluzionato l'approccio al problema del rapporto fra linguaggio e realtà, superando tanto il problema del dualismo inteso alla maniera bergsoniana, quanto le velleità di cogliere l'oggetto oltre il linguaggio coltivate dalla tradizione metafisica occidentale (di cui Bergson è appieno esponente): la realtà è essenzialmente creata dal linguaggio; è questo l'assunto centrale dei teorici della cosiddetta svolta linguistica, assunto al quale poi possono darsi tante diverse declinazioni. Non è solipsismo, il solipsismo è un'altra cosa.
E' semplicemente l'idea che la realtà sia esclusivamente accessibile attraverso il linguaggio, perché è il linguaggio stessa a costruirla; non è possibile superare il linguaggio e accedere alla realtà al di fuori del linguaggio, perché la stessa realtà è un costrutto linguistico; ed è la consapevolezza del fatto che i tentativi di accedere alla realtà al di fuori del linguaggio sono stati in realtà fondati su premesse linguistiche implicite e non riconosciute come tali (quindi assunte precriticamente). Non solo i concetti del linguaggio quotidiano, i rapporti sociali, le istituzioni, sono costrutti linguistici, ma anche la metafisica, inclusa quella di Bergson, è un costrutto linguistico, la quale costruisce, anziché scoprire, il proprio oggetto (e un importante filone filosofico, nell'ambito della cosiddetta svolta linguistica, è infatti devoto a scoprire perché la realtà, in un dato momento storico, sia stata costruita in un certo modo anziché in un altro con la convinzione che già fosse in quella maniera e la si stesse solo scoprendo).

Ora, tutto questo non l'ho scritto per convincerti, ma solo per informarti, visto che il mio post precedente era di necessità troppo generico. Non pretendo di poter riassumere cent'anni di filosofia in un singolo post: se vuoi essere convinto (o, meglio, se vuoi mettere la posizione da me descritta nella condizione di poter dialogare persuasivamente ed esaurientemente con te e con le tue conoscenze pregresse), quei cent'anni di filosofia te li devi studiare da te Il mio post non pretende di convincerti, ma sono naturalmente aperto all'ulteriore approfondimento di singoli punti, nei limiti delle mie conoscenze.

Alla fine la bottom line è che non puoi venire a interpretare la realtà in termini bergsoniani, quando la filosofia di Bergson non corrisponde più al linguaggio filosofico corrente, e molte delle questioni sollevate da Bergson appaiono persino ridicole sulla base di una conoscenza degli sviluppi successivi. Per quanto mi riguarda produci lo stesso effetto che se entrassi in una discussione sui materiali parlando di flogisto; oppure se parlassi di psicologia fondando il tuo approccio sulla biga alata di Platone
Bergson è senz'altro un grande filosofo, e non metto in dubbio che alcuni aspetti del suo pensiero possano essere ancora utili in discussioni filosofiche di dettaglio e adeguatamente strutturate e calate nel presente del dibattito filosofico, dei suoi problemi, e dei suoi paradigmi; sui suoi eventuali impieghi attuali non posso soccorrerti giacché, come ho detto, non mi occupo di filosofia della mente, né di Bergson. Resta anche il fatto che, come ti ho detto, Bergson invero non è più molto in voga da diversi decenni: per le ragioni che ho scritto, di filosofia del linguaggio, ma anche per il suo misticismo, che lo rende inattuale per un altro filone della filosofia contemporanea, quello analitico, che concepisce anche la filosofia della mente come una scienza esatta. Mi sono concentrato sulla questione del linguaggio perché è direttamente rilevante rispetto all'oggetto della discussione, oltre al fatto che mi è più familiare: appunto, nota bene, mica ho scritto questo papiro per dirti che Bergson è obsoleto come uno smartphone del 2017 Quello che pensano gli analitici, in questo momento, non c'interessa. Quindi il problema non è che Bergson sia o non sia in voga, ma quello che ho scritto sopra.

Tutto ciò mi sembra in particolare rilevante rispetto al tuo modo di concepire la mente di una mucca.

Spezzo qui solo per anticipare che quello che dice in soldoni è di non attaccarsi alle parole.


Non ho capito quest'ultimo passaggio. La convenzione linguistica serve certamente come guida per l'attenzione, per indicare l'oggetto da cogliere. Ti accompagna a una certa soglia, non te la fa oltrepassare. È solo con lo sforzo d'intuizione che si coglie l'oggetto in sé internamente come un assoluto di durata, "movimento di movimenti" senza mobile. Tutto ciò che si può esprimere attraverso l'uso del linguaggio sono punti di vista, vedute, fotografie, prese dall'esterno sull'oggetto. Questi sono concetti, suggerimenti riguardo l'atteggiamento da assumere nei confronti dell'oggetto (che è intuizione, durata, vitavissutavivendo).

Ora, giusto per essere puntigliosi, che non si sa mai, il linguaggio per quanto simbolico/concettuale si esprime attraverso segni che sono sempre oggetti di per sé. E (è) l'educazione, addestramento, apprendimento di determinati atteggiamenti nei confronti di questo genere di oggetti di immediata fabbricazione (di questi aspetti in comune raggruppati digitalmente nel simbolo) è ciò che ci permette di correggere ed orientare di volta in volta il nostro atteggiamento e la nostra azione nei confronti di ogni altro oggetto, compreso l'atteggiamento di contemplazione volto non a modificare l'oggetto o agire su di esso per servirsene ma a porsi nella disposizione atta ad intuirlo in sé per qualche momento.


Ecco, già la parola "prospettiva" è qui usata in un modo preventivamente criticato da Henri.
Ora sono curioso di scoprire questa prospettiva, indaghiamo..


E come usa il termine 'significato', come mistificazione di durata?


Conosci bene la critica di Henri all'idea di nulla?





Da come descrivi le cose mi sa che è quel filone a non comunicare con lo zio Henri.


Ma tu sei convinto che questo da te proposto uso corrente del linguaggio sia un uso migliore di quello che del linguaggio ne faceva zio Henri?


Può darsi che la filosofia abbia di nuovo perso di vista il suo oggetto preciso e torni a confondersi con la scienza e viceversa.
Il problema della precisione nella distinzione dei concetti è il primo punto trattato in "pensiero e movimento". Quando tornerò nella lettura dei punti trattati vedremo più nel dettaglio. Ma potrebbe volerci anche un anno o più , ancora non so.


Di nuovo non capisco.
Dal quadro che mi hai fatto mi hai dato l'impressione che in seguito alla rivoluzione linguistica tutti si siano specializzati in supercazzole.


Insomma non si direbbe che tu abbia studiato bene Henri direttamente, ma che ti sia giunta una mezza caricatura da un punto di vista esterno su di lui.

Se vuoi fare un tentativo di sconvolgere la mia percezione filosofica indicami qualcuno che, secondo te, abbia dimostrato una proprietà di linguaggio superiore alla sua o che faccia un migliore uso del linguaggio.

Ricordiamo che tra l'altro Bergson inizia come matematico e quindi come uno che sa padronegiare un linguaggio in modo ben preciso.

Tu, o forse il filone che hai scelto, usi un concetto di linguaggio credo esageratamente esteso che rende per nulla chiaro, determinato, preciso il suo ambito di utilizzo.
Se uno usa una parola in modo dogmatico senza ben determinarne l'uso, come avvicindosi a dire che "tutto è linguaggio" (per dare un'idea della direzione) questa parola diventa vuota e inutile. Così almeno magari ci si ricorda che al di là del linguaggio c'è l'intuizione che non sarà più allora agilmente indotta da una semantica impoverita dall'uso poco preciso di qualche concetto e dovrà cercare la sua strada orientandosi con elementi di espressione secondari e non altrettanto versatili, più vicini all'istinto che all'intelligenza, come il tono, in ogni sua forma, senza poter peraltro giungere a una paragonabile precisione di aderenza all'oggetto che si vuole cogliere in sé.

Il dualismo fondamentale di Bergson è quello tra il ricordo puro e la percezione immediata, tra i quali vede una netta differenza di natura. Lui dice che dal fatto di non aver distinto chiaramente questi concetti (oltre che dallo sconfinamento di campo della scienza nella speculazione, da altre confusioni concettuali importanti, dalla confusione di ambito tra scienza e metafisica) derivano tutti i falsi problemi metafisici insolubili. Questo si traduce, su un altro livello, nel dualismo tra corpo e spirito (parola quest'ultima di cui si è poi disperso l'uso, che in lui era ben preciso). Resta un dualismo debole tra termini intesi come limiti estremi ideali che nell'esperienza concreta non si trovano mai puri ma, come già detto, allo stato misto, in tutti i gradi di mescolanza, ora tendenti più verso il ricordo più puro ora più verso la percezione più immediata (a seconda della tensione e dell'urgenza di agire) senza mai perdere un punto di contatto dell'uno con l'altra.
Questa fondamentale divisione concettuale mi sembra la più aderente ai delineamenti naturali della realtà. E lo dimostra la sua efficacia nel guidare l'intuizione.
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