Gli piace il suo ragazzo. A lei, dico.

Visto che avete polemizzato per tutto il topic sul gli femminile, dico la mia.

Purtroppo la differenza fra gli ('a lui') e le ('a lei') è impercettibile da parte di quanti sono abituati a usare gli al posto di le, mentre ha l'effetto delle 'unghie sulla lavagna' su quanti sono invece abituati a differenziare maschile e femminile: già nel parlato è insopportabile, ma nello scritto, poi...
In realtà, la forma gli per il femminile non è tecnicamente scorretta, derivando da illi, dativo singolare di ille, illa, illud, ch'è uguale per il femminile e per il maschile. Scrittori di primo piano nella storia della letteratura italiana hanno impiegato gli come complemento di termine femminile singolare. Ulteriori dettagli sul sito dell'Accademia della Crusca.

Quest'ultima voce, dopo avere ricordato che in molti casi, la norma linguistica non è netta: spesso non si tratta di definire la correttezza o meno di fenomeno linguistico, quanto piuttosto di circoscriverne gli ambiti d'uso, conclude affermando che il gli al posto del le complemento di termine è sentito come scorretto, e che se ne tende a sconsigliare, nella maggior parte dei contesti, l'impiego.

Io la metterei in altri termini: la differenziazione, in quanto possibile e in quanto avvallata da un uso pur non univoco, è più elegante e più chiara rispetto all'uso altrimenti indifferenziato di gli, e andrebbe quindi favorita. L'uso indifferenziato del gli costituisce un impoverimento in termini di ricchezza, di chiarezza e di eleganza della lingua. Ma 'corretto' e 'scorretto', nella linguistica, non esistono (almeno non come assoluti).
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Nob, lasciamo stare, va



La tag 'grammar nobzi' è mia. E anche quella 'dammi il suo numero' (non il numero di Nob).
Comunque, Nob, se ti interessa approfondire la questione, usa i tuoi superpoteri e fai uno split in Filosofia
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questo il mio contributo
E io che pensavo di poter dedicare il resto della serata a qualcosa di utile, invece ora mi tocca rispondere qui


Non è che sia un volo pindarico. E' così. Gli viene da illi e, come femminile, è stato sempre usato dai massimi autori della letteratura italiana. In altre parole, gli, in italiano 'corretto', è dativo femminile singolare. Non è un volo pindarico, bensì la costatazione di un uso linguistico o, se preferisci, di una 'regola' linguistica che vuole che il pronome personale femminile dativo sia gli. La derivazione dal latino illi costituisce la mera spiegazione dell'origine di questo dato di fatto.



L'articolo da me citato cita tale opinione del Serianni. Bene, questa è l'opinione del Serianni. Se ti piace, citamela come tale. Purché sia chiaro che essa già non può essere identificata, per esempio, con l'opinione dell'estensore dell'articolo (la quale mi pare sia ben sintetizzabile attraverso il corsivo che ho isolato nel mio post precedente, e che mi pare avvicinarsi abbastanza alla mia opinione).



Qui stai fraintendendo. Tanto per cominciare, Boccaccio, Machiavelli, Carducci, Verga e tutti gli altri non hanno 'piegato' alcuna regola; la 'regola' è quella da loro impiegata: gli è femminile singolare dativo. Né le regole le pieghiamo noi altri (e ci torno più avanti ).



Quell'assoluto messo tra parentesi ha un significato assai preciso. Non parlo a cazzo, e quell'espressione non è certo una concessione all'intercalare per cui 'tutto è relativo' (ci sono gli Jarabe de Palo per osservazioni del genere).

Da dove possiamo iniziare... Dunque, il linguaggio non è dato, non c'è un Dio che ci dona il linguaggio e che ci dice una volta per tutte quali sono le regole; né può dirsi che il linguaggio sia un fatto della natura del quale ci limitiamo a osservare le leggi 'immutabili'. Il linguaggio è un fatto umano, 'istituzionale' (il riferimento qui è all'istituzionalismo giuridico), d'uso: come tale, esso non è integralmente sprovvisto di regole, ma segue le regole di volta in volta stabilite dai parlanti. Tali regole, in altre parole, non sono assolute, non sono poste una volta per tutte, né possono porsi con un atto autoritativo/volontaristico quale può essere il dettato di un libro di grammatica: esse seguono l'uso, seguono le convenzioni fluide e largamente inconsapevoli della comunità dei parlanti. Se, seguendo i suggerimenti di Wittgenstein, si accetta che la natura del linguaggio sia quella di 'uso linguistico', non ha senso concepire un testo di grammatica (o l'opinione di Nob o di chicchessia su come si deve scrivere) come fonte di regole. La regola, infatti, risiede nell'uso medesimo: l'uso crea la regola. Il libro di grammatica si limita a svolgere una funzione di ricognizione approssimativa delle regole generalmente accettate da una certa comunità di parlanti (oltre a svolgere una funzione di promozione di tale set di regole). Il libro di grammatica, invece, non è in sé normativo; a loro volta, le regole contenute nel libro di grammatica non sono normative al di fuori del proprio utilizzo. La regola non è 'piegata' nell'uso: la regola è creata nell'uso. La regola impiegata dalla maggioranza dei parlanti, dunque, non avrà un carattere normativo 'oggettivo', assoluto (cioè non sarà normativa all'esterno di quella data comunità*): l'unico carattere obiettivo di una tale regola è quello di una maggiore riconoscibilità, ma questo non è un carattere normativo. Il carattere normativo è intrinseco all'uso medesimo e non si estende al di fuori di esso. Altro uso, altro contesto discorsivo, altra regola.

  • tieni presente che una comunità, nel senso che qui ci interessa, non è un tot. definito di persone, per es. di lingua italiana: la comunità è una comunità discorsiva, formata da quanti prendono parte di volta in volta al discorso; è una comunità d'uso, è fluida come l'uso medesimo, è determinata da adesioni per così dire temporanee e che si esauriscono nell'uso medesimo.

    Questa è la teoria.
    Nella pratica, potrei farti notare per esempio che, al di là dell'uso che potessero farne il Boccaccio o il Machiavelli secoli or sono, l'uso del gli come dativo femminile singolare è nuovamente invalso: a rigore, esso non è scorretto, essendo bensì la 'regola' d'uso di una data comunità linguistica odierna (ti invito a rivedere l'articolo dell'Accademia della Crusca, che contempla esattamente questo punto di vista, pur approdando a conclusioni leggermente differenti rispetto alle mie).

    Fondamentale è poi la considerazione di ordine storico: tu sai, vero, com'è nata la lingua italiana e come ne sono state create le 'regole'? (Mettendo da parte le anzidette considerazioni di ordine analitico e accontentandoci di una nozione 'a pelle' di regola linguistica). La lingua italiana è la lingua dei classici della letteratura italiana. L'italiano è la lingua di Boccaccio, di Manzoni, di Verga. Se un termine o un costrutto è impiegato da Boccaccio, da Manzoni, etc., allora è italiano, è corretto. Per restare entro i margini di un approccio elementare e scolastico e che tuttavia può risultare eloquente, diceva bene il mio professore di italiano del liceo quando diceva: se vi correggo una parola in un tema e voi quella parola l'avete trovata in un classico della letteratura italiana, ditemelo, perché allora non è un errore. Insomma, se anche vuoi mettere da parte le considerazioni di filosofia del linguaggio, sappi che questo è l'italiano.

    Se non si è capito qualcosa di quello che ho scritto, potrebbero essere necessarie nozioni di pensiero normativo e del linguaggio come uso che non ho esplicato.


    Ah, tutto ciò non significa che anche io non censuri il gli dativo femminile singolare. Lo censuro, sulla base di specifici criteri, e l'ho già detto prima (lasciando da parte, peraltro, un ragionamento terra terra quale sarebbe: usiamo le, perché altrimenti qualcuno ci prenderà per ignoranti).
    Tutto ciò vale, allora, per dire due cose: vale come postilla alle anzidette perplessità che ho espresso intorno a una rigida nozione di 'correttezza' e di 'scorrettezza' grammaticale. Vale inoltre a sottolineare la vanità di atteggiamenti da 'grammar nazi', i quali presuppongono un normativismo linguistico forte ch'è però insostenibile.
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    Nob, non ci siamo proprio
    Ti manca la preparazione per affrontare una discussione del genere senza inanellare una serie di generalizzazioni, semplificazioni, e anche fraintendimenti di quello che ho scritto (per non dire degli errori argomentativi, sigh).
    Sono arrogante? Sì, sono arrogante.
    Vuoi che andiamo avanti comunque? Però cerca di essere un interlocutore più onesto
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    Ho voluto questa discussione per spiegare il mio punto di vista, perché non mi piace lasciare le cose in sospeso, perché mi piace parlare di linguaggio, e perché magari quello che scrivo può interessare a qualcuno (magari anche a te). Ma è anche ovvio che la discussione non è alla pari e non potrebbe essere altrimenti, visto che - se non erro - ti manca la preparazione specifica. Non ti dico questo perché sono arrogante. Ti dico questo perché un po' di humilté aiuterebbe meglio a comprendere quello che scrivo, invece di volermi rimbeccare a tutti i costi sulla base di qualche nozione raffazzonata. Ti posso anche mostrare tutti gli svarioni che hai preso, ma questo mi costerebbe ventimila caratteri per spiegare cose peraltro semplicissime: mi annoierei io, ti annoieresti tu, e si annoierebbero tutti. E anche questo non ti impedirebbe di replicare sulla stessa linea. Il dialogo richiede una sorta di cooperazione: non posso neppure provarti che il muro è bianco se tu continui a dirmi che non lo è. Per questo, a volte, la comunicazione è del tutto inutile. Quindi alla fine preferisco fare la figura dell'arrogante e dire quello che ho detto, anziché perseverare in un esercizio di futilità.
    Leggiti qualcosa di filosofia del linguaggio, e poi ne riparliamo. Io quel che ho detto posso spiegarlo meglio e con maggiori dettagli, ma non si va avanti senza collaborazione.



    Tutto dipende dal senso che diamo alle parole che hai impiegato.
    Secondo la filosofia del linguaggio che ho espresso nel post precedente, non ha interamente senso parlare di correttezza o scorrettezza. Certamente non è scorretto. Quindi, se vuoi una risposta semplice e diretta, sì, è corretto (con qualche approssimazione).

    Ah, chiaro, non è che la mia concezione del linguaggio sia l'unica possibile e la più vera. D'altro canto, se la sostengo, vuol dire che sono convinto ch'essa abbia dei margini di validità che potrei argomentare laddove qualcuno mi volesse controbattere sulla base di altra teoria.
    Beati voi che avete tutto questo tempo

    (..e anche io che mi sono letto tutto non scherzo )
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    Nob, come tu hai saccentemente corretto tasker, lascia che qualcuno corregga te.
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    Qualche consiglio?

    Ridicolo io? Devi quantomeno ammettere d'avere 'perculato' tasker per parecchie pagine. Immagino che quello che hai fatto tu con lui è ok, è simpatico, e avevi anche ragione.
    Per quanto mi riguarda, non avrei fatto alcun WOT se gli aveste fatto notare sobriamente che al femminile va il le. Però, se la questione va per le lunghe, allora è anche il caso di mettere i proverbiali puntini sulle i.
    Togli il 'saccentemente', se non ti piace, ma rimane il resto.



    Mah, la mia introduzione alla filosofia del linguaggio (a parte i vari Wittgenstein e Gadamer studiati al liceo, s'intende), è stata costituita principalmente da testi di Law and Language. Pertanto, come libri di sintesi, ho familiarità solo con testi di Law and Language, e non è questo il tema che ti conviene approcciare. Al di là di questo, potrei consigliarti i vari Wittgenstein, Austin, etc., ma qui andiamo troppo sullo specifico, salvo che tu voglia leggere solo gli autori coi quali sono d'accordo io, allora leggiti pure Wittgenstein, Austin e Searle
    Poi la filosofia del linguaggio include una grande varietà di temi e problemi, mentre qui stiamo parlando soprattutto di language and meaning. Come introduzione generale alle molteplici questioni affrontate dalla filosofia del linguaggio, non saprei cosa consigliarti. Se ti interessa, posso fare una ricerca, ma troverai senza dubbio qualcun altro che possa consigliarti un testo introduttivo.


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