Canfora, l'arroganza e la lingua inglese

Sto leggendo l'ultimo libro di Luciano Canfora (Augusto figlio di dio, Roma-Bari 2015), e alle pp. 143-144 mi sono imbattuto nella seguente perla:


Spoiler






Lasciamo da parte la questione contingente, sulla quale Canfora ha probabilmente ragione (almeno in parte).
Della storica in questione, Barbara Levick non ho mai letto niente. Nata nel 1931 (di 11 anni più vecchia di Canfora), fellow presso la Oxford University, con numerose pubblicazioni alle spalle (alcune delle quali citate meno disonorevolmente dallo stesso Canfora, altre come contributi in volumi ai quali contribuiva pure Canfora) non è certo una 'neofita' in senso proprio. 'Neofiti' poi qui è al plurale, e si riferisce evidentemente alla storiografia di lingua anglosassone nel suo complesso.
Ora, a parte il fatto che mi sembra ridicolo ridicolizzare la letteratura anglosassone in quanto tale a partire dalla cantonata che può aver preso una che sarà anche fellow a Oxford e avrà scritto tanto, ma non è certo una delle storiche più importanti, più rappresentative o più all'avanguardia degli studi; ma con tutte le puttanate che sono scritte dagli storici italiani e che sono puntualmente osannate dai loro colleghi... Non so se a Canfora sia del tutto chiaro il concetto di rilevanza (forse dovrebbe andare a cercarlo sul Thesaurus Linguae Latinae). Insomma, quella di Canfora è una sviolinata retorica, fallace, e di cattivo gusto.
Poi come se davvero gli anglosassoni non conoscessero e non leggessero le lingue classiche... Dev'essere per questo che nelle edizioni canoniche delle opere greche e latine ci sono probabilmente più filologi inglesi che italiani.

'A questi neofiti etc.' suona tanto come NOI siamo gli eredi dei Latini! NOI facciamo storia meglio di voi! Cazzo, non me n'ero accorto mica che fossimo ancora nel 1815. Attenzione che l'anno prossimo sarà molto duro
Che poi è l'argomento che circola nelle Università, almeno in certi settori disciplinari: nei corridoi ogni occasione è buona per ribadire come gli anglosassoni (specialmente se americani) non siano un granché e pubblichino un sacco di roba scadente. Poi però ci si lamenta anche che si viene ignorati a livello internazionale

Ridicolo. Mi chiedo cosa diavolo legga Canfora in inglese, anche perché la bibliografia del suo Augusto mi lascia un poco perplesso. Di molti altri docenti che criticano la letteratura anglosassone, invece, posso dire con certezza che l'inglese non sanno neanche leggerlo.
E intanto accumuliamo altro ritardo culturale... All'Italia evidentemente piace essere condannata all'irrilevanza. Cos'è successo in Italia dopo Tasso, Galileo e Monteverdi? Niente. Non è successo un cazzo. Eh, no, tranquilli, c'è Canfora, ch'è l'erede del popolo latino. Roma caput mundi, no?
Io ho sempre avuto una certa ostilità verso il mondo accademico anglosassone, che poi è stata una delle ragion per cui ho abbandonato la carriera accademica.

E magari nel merito non ha ragione ma vi è sempre un certo provincialismo in esso è per provincialismo intendo un essere incapaci di andare oltre al momento geografico e culturale. Vi è una strettezza di opinioni e di metodi e tutto il resto che esula non viene compreso.

Per farti un esempio, quando parlavo con una dottoranda di Harvard in letteratura (che ora insegna a Harvard) lei mi ha detto che per lo più il romanzo non ha funzionato (cioè non c'è la great american Novel) in America perché è una forma che ha come fine la descrizione dei rapporti di classe.

E conoscendoti non c'è bisogno di spiegare perché è aberrante quello che ha dettato come il fine del romanzo, ma anche il fatto che lei prendesse acriticamente la questione della great american novel, un'ansia praticamente inesistente altrove.

O quando una volta dissi ad un altro accademico di essere più sospettoso delle dichiarazioni d'intenti degli autori lui mi fece spallucce dicendo "pf Derrida" non sapendo che in realtà l'opacità dell'opera all'artista era già presente in Platone.

Ora magari in Italia non siamo messi meglio, però è una frustrazione diversi ritrovare a discutere con queste persone catturate nella loro tunnel vision.
Be', le mie valutazioni negative riguardano soprattutto i settori scientifico-disciplinari della Storia del Diritto e del Diritto Romano, nei quali c'è un ritardo pazzesco. Diciamo che il sostrato ideologico delle due discipline è per molti versi rimasto fermo all'impostazione ottocentesca del concetto di nazione e al problema (in gran parte italiano) dell'articolazione dei rapporti fra Stato e Chiesa; per altro verso esse ignorano i più moderni criteri di critica del testo, hanno un approccio interdisciplinare limitato, e sono rimaste indietro anche nel dibattito metodologico e nella messa in discussione dei propri presupposti concettuali. Romanisti e storici del diritto scrivono roba che sembra uscita da una stamperia del 1950, quando non si rifugiano semplicemente in irrilevantissimi episodi di storia locale (con rare eccezioni).
Il tutto è anche conseguenza di un isolamento determinato anche dal fatto che la scienza giuridica italiana, storicamente, ha dialogato soprattutto con la Germania e con la Francia: gli storici del diritto e i romanisti spesso non sanno leggere o non leggono l'inglese. Questo naturalmente non va più bene: chi non legge l'inglese è analfabeta. Già gli storici puri hanno una maggiore attenzione nei confronti del dibattito internazionale e in lingua inglese. Però ecco, nel complesso, la storia antica e la storia medievale in Italia scontano un bel ritardo, e le dichiarazioni di Canfora mi fanno un po' sorridere.
Cmq si anche qua molta della rozzezza del campo letterario è dovuta al fatto che gli studiosi non parlano altra lingua che non sia l'inglese creando così un bias.
Storia del diritto e giurisprudenza sono secondo me un caso limite perche' sono discipline che si sono sviluppate tradizionalmente nelle facolta' di legge e queste sono per ragioni evidenti molto meno internazionalizzate rispetto a quelle di fisica, medicina o anche filosofia e lettere. Nelle facolta' di legge si studia prima di tutto l'ordinamento nazionale e le sue radici storiche, e si da' relativamente poca attenzione agli ordinamenti esteri (perche' nella maggior parte dei casi coloro che esercitano professionalmente non hanno bisogno di conoscerli).

Poi questa ostilita' nei confronti del mondo anglosassone mi pare una cosa limitata a personalita' come Canfora: uomini anziani, ormai a fine carriera, che sono stati formati in un periodo in cui l'inglese era meno egemonico, che per necessita' o scelta non sono molto popolari all'estero (cioe', non sono molto tradotti: di Canfora sono disponibili un paio di libri in inglese, nulla in rapporto alla sua produzione sterminata) e che in virtu' della loro autorevolezza interna assumono la postura di intellettuali pubblici che si rivolgono ad un pubblico colto (vanno in televisione, partecipano a eventi come il festival di mantova; tutto cio' non esclude evidentemente che producano lavori notevoli) piuttosto che quella di ricercatori "puri" che si rivolongo principalmente a specialisti del settore. Ed e' proprio in quanto intellettuali pubblici che si sentono in dovere (e in potere) di difendere la cultura e la lingua nazionale dal soft power anglosassone: avendo un pubblico cosi' vasto hanno come l'impressione di essere stati scelti per rappresentare un'intera nazione.

Ci sono invece molti studiosi italiani che sono molto apprezzati all'estero e sono pronto a scommettere che hanno un'opinione molto migliore del mondo anglosassone: mi vengono in mente nomi come Agamben, Negri, Ginzburg, Redondi...
Non è un problema che riguarda solo personaggi attempati e 'pubblici' come Canfora. Nell'ambiente accademico di Giurisprudenza si tratta di idee diffuse anche fra professori più giovani, nonché fra ricercatori, assegnisti e dottorandi che si sono formati in un ambiente di denigrazione della cultura accademica anglosassone. Che poi si riverbera anche nella tipologia della produzione scientifica, appunto.

Poi è vero che la giurisprudenza rimanga in parte legata ai limiti dei confini nazionali, ma questo è vero soltanto in parte. Gli ordinamenti giuridici nazionali si sono sempre formati nell'osmosi con quelli stranieri, e questo è vero anche per quello italiano, che è stato influenzato soprattutto dalla cultura giuridica e dalla legislazione francesi e tedesche. Infatti, a livello di dottrina, si dialoga molto con la Francia e con la Germania, che assieme all'Italia fanno parte della cosiddetta famiglia di civil law. Quindi a dialogare si dialoga, ma non tanto con l'accademia anglosassone, perché gli ordinamenti anglosassoni fanno parte di un'altra famiglia. Il problema è che le partizioni tradizionali in famiglie non rispecchiano più la realtà dei rapporti giuridici e giuridico-economici caratterizzati ormai da un continuo contatto e da un'osmosi di istituti giuridici fra la famiglia di common law e quella di civil law. La necessità di conoscere gli ordinamenti stranieri ormai c'è eccome, ma la dottrina è lenta ad adeguarsi. Ovviamente è un problema che non riguarda nella stessa misura tutti i settori del diritto.
Aggiungo che, dal canto suo, il Diritto Romano (di cui la Storia del Diritto, come settore scientifico-disciplinare, è una costola), nasce e cresce proprio con una vocazione transnazionale. Però il Diritto Romano interessa soprattutto l'area dei paesi di civil law, molto meno quello dei paesi di common law, i quali obiettivamente non possono contare su di una tradizione romanistica come quella tedesca. Ma è assurdo non tenere in debito conto la storiografia anglosassone, gli studi di critica del testo e quelli di storia del diritto, nell'ambito dei quali il mondo anglosassone ha prodotto autentiche eccellenze.


su alcuni temi, la letteratura scientifica giuridico-economica (contemporanea) del mondo anglosassone è decisamente fondamentale. Quantomeno, come referente dialogico.

in generale, se parliamo di letteratura "consolidata" - e più in generale del livello e qualità del pensiero giuridico (al di fuori della solita menata di torrone dell'analisi economica del diritto) - mi spiace, ma non c'è confronto che regga con la letteratura italiana e tedesca. Per ovvie questioni legate alla storia dei formanti dell'ordinamento. Anche i grandi, blasonati contributi in materia di contratto della letteratura inglese - ad es. - sono giusto l'equivalente di un nostro manuale di diritto privato "light" (così come vanno di moda negli ultimi dieci-quindici anni).

Quella francese patisce ancora, in massima parte, l'influenza della scuola dell'esegesi. Tant'è che il livello di concettualizzazione è al di poco sopra di quello puramente divulgativo/esplicativo.

E' anche vero che alcune cose sono "pippe mentali" per accademici, ma ultimamente il vento sta cambiando (si valorizzano progetti di ricerca di viva attualità e, comunque, non... inutili e puramente speculativi).

fonte: me medesimo civilista che si è letto di tutto un po' delle letterature giuridiche citate


Io ero convinto che quest'ansia stesse più o meno sparendo dato che gli USA hanno il primato culturale nel mondo, volenti o nolenti, e che qualunque eco e strascico dell'ossessione per la "great american novel" derivi dal periodo antecedente la WW2.