Post lunghissimo. Perdonatemi.
È la sera di un giorno qualunque, come ce ne erano stati a centinaia. Una sera forse di un giorno d’estate. È la fine degli anni '90 e questo me lo ricordo perché alla radio c’è Ambra. Io non la riconosco, ma il mio amico - che dice di ascoltarla spesso - mi assicura che è lei. Io me la ricordo appena dalla trasmissione “non è la RAI”, ma le do poca attenzione.
Sono in auto con il mio migliore amico, F. Lui è più grande di me di due anni e ha già un grosso fuoristrada che consuma tanto e viaggia poco, ma non è un problema. Ha solo due posti davanti e dietro un cassonnetto chiuso nel quale ogni tanto viaggia qualcuno, schiacciato a terra per non farsi vedere da fuori. Ci spostiamo poco con la compagnia e spesso a tarda sera siamo io e lui che chiacchieriamo in attesa di salutarci.
Lo scenario è familiare eppure c’è qualche cosa di relativamente nuovo.
Lui è tornato da poco dal militare e, dopo un anno che ci siamo persi di vista, il rapporto si è un pò incrinato. Al suo ritorno abbiamo discusso per stupidaggini a cui si da tanto peso quando si ha meno di venti anni e per qualche tempo ci siamo frequentati poco, guardandoci a volte con risentimento o persino con rancore.
Ma ora è passata. Siamo di nuovo in auto io e lui e si parla come sempre.
Non succederà di nuovo, ci diciamo. Ci conosciamo da anni, ci vediamo praticamente tutti i giorni e il nostro rapporto è sopravvissuto anche al distacco e a litigi più o meno grandi.
Scherzando si ragiona su quando saremo vecchi e ancora ascolteremo i programmi radiofonici in auto, parlando dei tanti interessi che ci accomunano. La vita cambierà, noi invecchieremo, ma noi ci saremo sempre l’uno per l’altro.
Non avevo nemmeno venti anni e in meno di sei mesi, la mia famiglia di origine ha cessato di esistere. In un attimo mi sono trovato improvvisamente solo. Dopo lo smarrimento iniziale, mi sono assestato e ho iniziato a godere dei vantaggi di poter gestire la propria vita senza rendere conto a nessuno.
Poi ho iniziato a riflettere sulla mia identità. Tutto ciò che era successo alla mia famiglia, tutto quello che eravamo stati, quello che avevamo detto e fatto, le emozioni provate, i piccoli fatti familiari, i litigi e gli scherzi, erano ormai solo nella mia mente. Non potevo più condividerli con nessuno. Potevo raccontarli, questo sì, ma non sarebbe stata la stessa cosa perché il mio interlocutore non li avrebbe vissuti se non attraverso le mie parole. Poteva ascoltarmi, anche con interesse, ma senza la complicità che c’è tra chi si ricorda di eventi trascorsi insieme, come una scolaresca che si reincontra anni più tardi e racconta le malefatte durante la gita di 3 giorni. Quel che non mi ricordavo io, era perso per sempre. Nessuno mi avrebbe aiutato a ricordare una storia o a inquadrarla in modo diverso. Ero il solo custode di cosa eravamo stati e non eravamo più.
Non avevo più una famiglia d’origine, ma almeno avevo ancora un amico che quella famiglia l’aveva conosciuta quando veniva a trovarmi. Un pezzo della mia storia, un pezzo di me, erano preservati. Non che fosse una bella famiglia, ma era la mia. Che altro potevo volere?
Guardando indietro nel tempo, mi rendo conto che il mio rapporto con F non è mai stato molto bilanciato, anche se in qualche modo era stabile, pur traballando. In comitiva, F amava scherzare di tutti, ma io ero una delle sue vittime preferite. Durante l’adolescenza avevo sicuramente un carattere insopportabile. Mi sentivo superiore a tutti: più sveglio, più colto, più intelligente, più resistente a qualsiasi problema. Vedevo i miei coetanei che si fermavano di fronte a difficoltà che mi sembravano irrilevanti. Avevano famiglie agiate, genitori presenti, stanze ordinate e console per videogiochi con tante cartucce. Ero convinto che l’ambiente familiare in cui ero cresciuto - un ambiente a dir poco mostruoso, dove ero sottoposto ad abusi quotidiani - mi aveva reso forte. Pensavo persino di essere invulnerabile e, in virtù di quello che ogni giorno dovevo affrontare, pensavo di essere migliore di chiunque altro anche solo perché esistevo, perché non mi ero spezzato come alcuni nostri coetanei che erano finiti a fare i tossici nel parco.
Questa aria di superiorità, questa supponenza incrollabile, me la portavo dietro ogni giorno, eppure sopportavo volentieri F con le sue battute. Era come se mi riportasse con i piedi per terra e mi ricordasse che anche se mi sentivo forte, ero come tutti gli altri: un ragazzo con tante incertezze, infiniti dubbi e la necessità di un riconoscimento da parte dei miei amici, che io cercavo mostrando di essere più sveglio di tutti.
In privato, però, F mi apprezzava. Quando aveva in mente un’idea, ne parlava con me e mi chiedeva che cosa ne pensassi. Dava valore a quello che dicevo e spesso, quando gli avevo dato la dritta giusta ma non mi aveva scoltato, veniva da me e ammetteva - pur a malincuore - che avrebbe dovuto darmi retta.
Il nostro rapporto era ambivalente. In pubblico mi prendeva in giro, in privato mi dava importanza. Ma a me andava bene, come se mi rendessi conto che lui controbilanciava il mio lato più oscuro, quello che avevo creato per non farmi schiacciare, ma che rischiava di prendere il sopravvento sulla parte più dolce di me.
Non mi ha mai fatto mancare il suo supporto, soprattutto quando la vita ha iniziato a prendermi a schiaffi e mi sono trovato economicamente a terra, senza soldi, senza lavoro, orfano e pieno dei debiti di famiglia.
Lui mi trovò un lavoro che mi diede la possibilità di sistemare tutto e creare la mia vita da zero.
Di F potevo fidarmi. Gli avrei dato le chiavi di casa e il mio bancomat, se l’avessi avuto.
Lui ci sarebbe sempre stato. Del resto avevamo superato ogni ostacolo insieme per quasi 15 anni, no?
Quando si mette su famiglia e si trova un lavoro full time, si finisce per avere meno tempo per le amicizie. Si fa una selezione. Io e F siamo rimasti sempre in contatto. Lui mi chiamava un paio di volte alla settimana quando usciva da lavoro. Io a quell’ora ero a casa e si chiacchierava a lungo. Io non lo chiamavo mai perché se stava lavorando lo disturbavo e se era già a casa sentivo che era freddo perché alla sua compagna io non piacevo. Quindi ci si sentiva al telefono nei tempi e con le occasioni propizie a lui, in genere quando era in auto e tornava a casa, imbottigliato nel traffico.
Del resto 10 anni prima, quando ancora c’era mio padre, ero io che avevo dettato i tempi delle telefonate e delle uscite insieme. Lui a volte chiamava o passava a citofonare e se non era il momento giusto - perché mio padre aveva bevto e dava di matto - io usavo la parola in codice “Derby” e lui capiva al volo. Lui sapeva che infermo avevo passato io e io non ho mai avuto il coraggio per fargli notare l’inferno in cui si era cacciato quando aveva scelto di vivere insieme alla sua compagna e lasciare che lei pian piano prendesse in mano la sua vita, controllando i suoi amici, i tempi con cui usciva di casa, le sue abitudini e persino il suo modo di vedere il mondo.
Con l’andare degli anni iniziammo a vederci di meno, ma c’era sempre da chiacchierare o al telefono o per email o via chat. Il canale comunicativo era sempre attivo: non succedeva mai nulla a me o a lui senza che l’altro venisse informato.
Non so dire quando iniziò a cambiare tutto.
Forso fu quando lui decise di uscire con la vecchia compagnia a distanza di tanti anni dall’ultima volta che si era ritrovata. Io provai ad aggiungermi, ma sentivo l’imbarazzo di parlare sempre degli stessi ricordi e di non costruire nulla di nuovo insieme. Si usciva, si beveva qualche cosa e si ruminava sul passato. Nulla di nuovo, solo il vecchiume, l’eco di eventi vecchi e stantii e il richiamo a un’epoca che non era del tutto sgradevole, ma che avevo vissuto con una personalità che ormai non mi rispecchiava più. Erano tutti ricordi quasi antichi ai quali - per altro - non ero particolarmente affezionato, perché gli anni di quella vecchia compagnia erano per me un ricordo spesso doloroso, che non avevo dimenticato o rinnegato, ma che tenevo lì, in angolino, archiviato. Parlarne così a lungo, con così tante persone, vivere e rivivere quegli eventi come collante di un gruppo che non si vedeva da anni, era per me un’esperienza sgradevole. Mi faceva torare alla memoria chi ero stato: un ragazzo pieno di sofferenza e paura, emozioni di cui pian piano mi ero liberato.
Ma per F era tutto un altro discorso. Lui c’era affezionato a quegli anni. Per lui erano stati anni buoni e poi erano gli anni in cui avevamo avuto più tempo da dedicare alla nostra amicizia. Ci vedevamo tutti i giorni: si giocava al pc, a calcio, si andava in biblioteca, si parlava di ragazze, si giravano scene di film mai montati o finiti. Ne facevamo di cose io e lui.
Iniziai a declinare gli inviti ad uscire con loro e a far capire che avrei preferito uscire solo con lui.
Le occasioni scarseggiavano e iniziammo a vederci sempre meno.
Lui iniziò a non chiamarmi più.
Prima o poi ci si rende conto che è arrivato il momento in cui ti devi fare qualche cosa per tenere in vita una relazione. Devi spenderci tempo ed energie. Devi sopportare qualche cosa che ti da fastidio. Devi dimenticare un torto subito o devi cercare di minimizzare un tuo comportamento che non è più tollerato.
Quando mi sono accorto che F non mi chiamava più e ogni volta che proponevo un’uscita finiva per invitarmi alla compagnia o darmi buca all’ultimo, gli scrissi una mail. Volevo chiamarlo, sapevo che non avrei beccato il momento giusto per parlargli.
Lui mi chiamò e gli spiegai che ci tenevo alla nostra amicizia: era l’ultima persona con cui ero ancora in contatto, l’unica di cui mi interessasse qualche cosa. Lui sembrava contento.
Poi arrivò il COVID e perdemmo di vista. Ci sentivamo, a volte, ma ovviamente non ci potevamo incontrare.
L’estate del primo anno di COVID ci siamo rivisti dopo oltre un anno e ho sentito che c’era qualche cosa che non andava. Era freddo e distante. Sembrava avere fretta di sbrigare la faccenda e andare via. Nella discussione che abbiamo avuto abbiamo parlato come sempre di noi, dei progetti, di cosa stava succedendo. Lui tirò fuori alcune idee strane che io liquidai come ho sempre fatto, pensando fossero idee della sua compagna, che mi riferiva per sapere che ne pensassi.
Ma questa volta sembra poco convinto. Si vedeva che c’era rimasto male e voleva cambiare argomento.
Non ci siamo più rivisti.
Per qualche tempo ci siamo scambiati messaggi e saltuariamente ci siamo sentiti al telefono.
Poi un giorno ha letto un mio messaggio mandato per schierzo. Uno dei soliti meme idioti che ero sicuro che avrebbe apprezzato. Ma non ha mai risposto né a quello né ai messaggi successivi.
Ho provato a contattarlo, ma senza fortuna. Ho chiamato un’amica della compagnia. “Sta bene”, mi ha detto. E poi: “Tutto ok. Sta benissimo”, senza chiedermi come mai mi fossi rivolto a lei per avere notizie di lui.
Era come se sapesse qualche cosa e non volesse dire di più.
Quando un rapporto dura tanti anni è inevitabile che si trasformi. Io sono cambiato e lui pure. Non assomigliamo per nulla ai ragazzi che eravamo. La sua scelta di troncare completamente il rapporto mi ha fatto riflettere sulla natura delle relazoni umane e su cosa esattamente dia loro valore. Mi manca più lui o l’avere un amico? Sono più sconvolto per averlo perso di vista o per aver perso un punto di riferimento che credevo sarebbe rimasto saldo per tutta la mia vita?
Cosa mi fa più male? Il fallimento di una relazione che avevamo promesso che sarebbe durata per sempre o il fatto che non c’è più lui nella mia vita? Ho perso una “cosa” o una “persona”?
Sono domande a cui non so dare una risposta, perché sento emozioni ambivalenti. Da una parte mi rendo conto che F di oggi non è più la persona che conoscevo e non mi piace. Poi mi rendo conto che anche io sono diverso da chi ero e potrei non avere più le caratteristiche che mi rendevano importante per lui. Non ci “incastriamo” più, insomma. Abbiamo per anni vissuto l’eco di una relazione che non esisteva più, oppure semplicemente l’amicizia si è spenta e ci siamo separati poco alla volta fino a quando non c’era più nulla ad unirci?
Tutte queste domande mi portano anche a riflettere su me stesso, su come sento di non avere più né la voglia né l’energia percombattere per questa amicizia. Forse avrei dovuto capirlo anche prima. Eppure ero sincero quando gli dicevo di tenerci e di voler rimanere vicino a lui.
Io avrei chiuso volentieri un occhio di fronte a certe sue scelte sempre più aliene al mio modo di vedere il mondo. Non so cosa lo ha spinto a staccare la spina: se lo ha fatto per non doversi misurare con la sincerità con cui gli dicevo la mia opinione tutte le volte che l’argomento cadeva sui campi minati in cui si misuravano le crescenti distanze tra le nostre opinioni o per altri motivi. Non so dire se ha deciso di chiudere i canali per vedere la mia reazione (magari si aspetta che lo vada a cercare oppure sperando di non vedermi mai più) e da questo capire quanto mi interessava davvero salvare la nostra amicizia.
Da una parte mi sento sbagliato - un ingrato di merda che non fa nulla per ritrovare l’amico perso - e dall’altra penso che non ho assolutamente intenzione di spendere tempo ed energie per cercare di recuperare un rapporto che sento oggi non avere più alcun valore e che, se anche fosse salvabile, non varrebbe l’impegno richiesto. È come quando parti per un’iniziativa e investi tempo ed energie e vedi che non torna indietro abbastanza, ma decidi di continuare non tanto perché pensi che possa valerne la pena, ma solo per dare un senso a quello che hai fatto: per non buttare via tutto.
A volte mi viene da pensare che un’amicizia - e più in generale una relazione - può avere valore non tanto per l’epilogo, perché tanto finiscono tutte con uno che lascia l’altro, di propria volontà o meno, ma per quello che ha dato finché era viva. Con F ho trascorso anni buoni e ho tanti buoni ricordi. Ha fatto tanto per me. C’è quasi sempre stato quando avevo bisogno di qualcuno. C’è sempre stato quando ho avuto bisogno di lui. Spero di aver avuto un impatto positivo sulla sua vita, ma ho qualche dubbio perché forse avevo più bisogno io di lui che lui di me. Lui mi controbilanciava. Io cosa ero per lui? Non ne ho idea.
Però ora l’esperienza con lui è completata e le nostre strade sono divise, molto probabilmente per sempre.
L’epilogo dà meno valore a ciò che c’è stato?
Credo di no.
A una certa età poi diventa anche più complicato trovare persone nuove con cui c’è qualche cosa in comune. È ancora più difficile investire il tempo necessario perché le relazioni crescano e si rinsaldino, acquisendo il valore necessario perché si possa parlare di amicizia e non mera frequentazione.
In fondo, sento anche il dispiacere di aver perso qualche cosa che probabilmente non avrò mai più e forse, guardandomi alle spalle, mi rendo conto di non aver fatto abbastanza - quando l’amicizia esisteva ancora e valeva qualche cosa - né con lui né con altri, di mancare quindi di quelle caratteristiche che ti rendono una persona con cui si può legare.
Oltre al dispiacere per le occasioni perse e la separazione, avverto anche una sorta di catartico senso di liberazione. Lui era l’ultimo anello che mi legava al mio passato. L’unica persona ancora vivente che mi conosceva davvero quando ero bambino e poi ragazzo e infine giovane adulto. Lui ha visto la fatica che ho fatto per diventare uomo, ha conosciuto i miei sbagli e le mie vittorie. Le ha viste con i proprio occhi.
Senza lui non ho più un testimone di chi ero, tranne me stesso.
Avendo perso tutta la mia famiglia d’origine e i miei amici di quando ero giovane sono libero dal mio passato.
Nel bene e nel male.